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11/05/2022

Memoria e identità: alle origini dei luoghi dell’anima e delle emozioni

di Anna Borrello

Ta làchana cinùria fitettsèta,
ta palèa mi ta sìr.i

(I cavoli nuovi piantali, i vecchi non strapparli)


Il latino e il greco antico sono l’eredità viva e caratterizzante della base comune della cultura europea e mediterranea come recentemente affermato nella Dichiarazione congiunta dei Ministri dell’Istruzione europei.   Il latino e il greco antico sono l’eredità viva e caratterizzante della base comune della cultura europea e mediterranea come recentemente affermato nella Dichiarazione congiunta dei Ministri dell’Istruzione europei. Volta a rafforzare la cooperazione per lo studio del latino e del greco antico è stata firmata all’inizio del 2022 dai Ministri dell’Istruzione francese, italiano, cipriota e greco; essa  riconosce come l’apprendimento delle lingue e delle culture dell’antichità, la pratica della traduzione e la comprensione della cultura umanistica permettano di sviluppare i saperi fondamentali e gli strumenti per conoscere in modo riflessivo e critico il mondo e la società moderni. Sono pertanto ingiustificate e addirittura paradossali le paure di chi teme che avviare i giovani allo studio delle discipline umanistiche sottragga risorse alla scienza e alla tecnica: la consapevolezza delle potenzialità e delle funzioni della propria intelligenza li renderà più capaci di applicarsi anche alle scienze esatte e alle tecnologie. Gli studi umanistici non sono antiscientifici, sono scienza essi stessi. Muta l’oggetto di studio e inevitabilmente almeno in parte il metodo, ma le cosiddette scienze umane sono un ambito privilegiato per educare alla logica, al senso critico, alla valutazione storica.

Le lingue classiche possono e devono essere lo strumento per mantenere vivo, tra le generazioni, tra gli anziani custodi della memoria e i giovani tessitori della storia, un dialogo indispensabile alle grandi sfide di politica culturale e ai processi di pacificazione.  Se, nelle difficoltà, sapremo praticare questo dialogo intergenerazionale potremo essere ben radicati nel presente e, da questa posizione, frequentare il passato e il futuro: frequentare il passato, per imparare dalla storia e per guarire le ferite che a volte ci condizionano; frequentare il futuro, per alimentare l’entusiasmo, far germogliare i sogni, suscitare profezie, far fiorire le speranze. Senza le radici, come potrebbero gli alberi crescere e produrre frutti? Come potrebbero fiorire senza la cura? Fioritura è un termine che comprende catarsi ed equilibrio, nascita e morte, inizio e compimento.

L’attenzione per ciò che accade dentro e fuori di noi, per il dettaglio, per le piccole cose, l’attenzione a ciò che scuote l’animo è per i Greci l’Epiméleia heautou. La cura è uno sguardo sul mondo, sulle cose, sulle azioni che si compiono, è una pratica dell’agire con attenzione, esercitando in ogni momento la scelta. La formazione alla cura è, in questo senso, innanzitutto, ascolto di ciò che fa rumore dentro di noi.

Il viaggio nel mondo della cura comincia dal mito di Crono, il Dio greco che si occupa “teneramente” degli umani. Quando però, terminato il suo lavoro, Crono si ritira, gli umani si ritrovano abbandonati alla cura di se stessi. Fin da quando veniamo al mondo dobbiamo prenderci carico del compito dell’esistenza ossia della cura, di noi e degli altri. I Greci utilizzavano tre parole diverse per descrivere la “cura”: merimna, cura come preoccupazione di conservare la vita; therapéìa, cura delle ferite, sia nel corpo sia nell’anima; epiméleia per indicare quella cura che si prende la responsabilità dell’esistenza per farla fiorire, e che è intimamente legata al conosci te stesso socratico: conoscersi come esseri unici e frammentati, non unitari, sempre divenienti, aiuta a essere meno duri con se stessi e ad accettare le conseguenze delle azioni con responsabilità e non con senso di colpa. Prenderci cura di noi stessi significa fare attenzione e dare spazio a emozioni, desideri, talenti, progetti, non si tratta di una cura dettata dalla vanità e dalla paura del giudizio ma dal desiderio di agire bene. Per questa ragione, prendermi cura di me significa prendermi cura di una parte del mondo, e così facendo prendermi cura anche degli altri.

La cura ha bisogno di tempo:  “ il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno” dice Eraclito che, per parlare del tempo, accosta la leggerezza del gioco, la casualità di un lancio di dadi all’inesorabilità del tempo e all’enigma del suo svolgimento.

I Greci usavano diversi termini per definire il tempo: chronos per indicare la sua natura quantitativa, quindi lo scorrere dei minuti; aiòn in riferimento alla vita come durata; kairòs per indicarne la natura qualitativa e quindi soggettiva, indeterminata e indefinita.
Chronos era una divinità terribile e potentissima, figlio di Urano e Gea; nella mitologia greca veniva rappresentato come un gigante che divora i propri figli, che lui stesso ha generato, finché non viene spodestato da Zeus. Come scorrere dei minuti e delle ore, può diventare il tempo che ci travolge nella sua  inesorabile ripetitività, che non lascia spazio alla meraviglia e non basta mai (è il tempo orizzontale o verticale, la diacronia).
Kairòs, ultimo figlio di Zeus, era rappresentato come un giovanetto con le ali ai piedi, in continuo movimento, con un ciuffo di capelli in fronte e la nuca rasata a indicare la difficoltà di  afferrarlo. Teneva in mano un rasoio su cui è poggiata una bilancia.  Indicava il momento giusto, opportuno, adatto, la buona occasione, un momento nel quale accade qualcosa di speciale; il momento da cogliere nella sua veloce istantaneità: in questo caso il tempo sembra vivere solo come presente, ma diventa fondamentale per il futuro in quanto l’attenzione costante permette di “leggere” gli eventi. Ė un invito a vivere nel presente, nella quotidianità agendo consapevolmente. Kairòs è un tempo rivelatore, una porta di accesso verso l’interiorità. Diventando presenti mentalmente nelle diverse azioni che svolgiamo nella vita, ci apriamo a quella qualità del tempo che ci fa guardare le cose da un‘altra ottica, rendendoci consapevoli dei diversi punti di vista da comprendere sinotticamente ovvero sincronicamente.

Il pensiero occidentale che persiste in noi e ci pervade nasce in Grecia, o meglio nelle colonie greche. I Greci hanno saputo fornire  un nuovo metodo di trattazione delle conoscenze, facendole progredire in un tempo molto più breve rispetto all’evoluzione delle conoscenze dei popoli antichi. Al centro della ricerca dell’uomo greco non c’è un generico sapere, ma l’alétheia, la verità intesa come ciò che non è nascosto (la parola si compone di un alfa privativo più lethos, “disvelamento”), che non si può negare e non richiede una fede, ma si sostiene da sé in virtù delle sue ragioni; essa è indagine diretta a rintracciare la verità al di là delle consuetudini, delle tradizioni e delle apparenze; è preclusa ai più che invece di percorrere la via della verità seguono quella dell’apparenza, rimanendo dipendenti dallo sguardo altrui e pertanto pervasi dal sentimento della vergogna (aidos). L’alétheia tende alla spiegazione del tutto, quel tutto che dal kaos, che genera anche inquietudine, è ricondotto all’ordine ovvero al kosmos, non attraverso una spiegazione mitica legata alla religione, ma attraverso la verità che si mostra, l’alétheia appunto, accessibile soltanto a chi la voglia cercare. Se alétheia è ciò che non è nascosto, episteme è ciò che sta sopra, che sostiene la alétheia; grazie al  loro connubio è possibile  guardare  il mondo non con il thaumazein ( atteggiamento di stupore o meraviglia) ma con philosophia, cioè avendo cura per ciò che sta nella luce.

Custodire l’eredità del pensiero occidentale  è fondamentale  perché l’assenza della nostalgia, della memoria è una perdita dell’identità. Se non avessimo la nostra memoria non sapremmo chi siamo. L’identità personale è fondata sulla memoria, sulla propria autobiografia. Per l’uomo memoria è il tempo, sono i luoghi, i ricordi, le esperienze, le relazioni, le radici (rizai)  in cui ha conosciuto se stesso e gli altri uomini. Mnemosyne, la memoria, madre delle Muse che proteggono l’arte e la storia, dà a poeti e saggi la capacità di tramandare il passato e conferisce una forma di immortalità agli uomini le cui gesta vengono ricordate. Poeti, come Pindaro, la invocano perché strumento ed effetto di verità (alétheia), di continuità storica; la memoria, come la poesia, è eternatrice, ha potere diacronico e fissa i valori da tramandare nel tempo. Ė Esiodo che nella Teogonia, ci racconta la storia di Mnemosyne di cui Zeus non poté fare a meno di innamorarsi così che  sotto le sembianze di un pastore riuscì a trascorrere con lei nove notti in cui vennero concepite le nove Muse.

Esiodo attraverso questo mito vuol dire che non esiste armonia, arte, nessuna nobile manifestazione del pensiero e dell’ingegno umano senza la memoria. Per i Greci l’arte è l’espressione più alta del nostro essere più profondo e solo attraverso l’arte è possibile distinguere la limpida immagine di noi grazie al bagaglio di ricordi che si amplia, con il tempo, di esperienze che ci portiamo sempre sulle spalle. Noi siamo eredi di un patrimonio culturale (“nani sulle spalle dei giganti”, direbbe Nietzsche), cioè dell’insieme delle tradizioni, delle conoscenze, dei simboli presenti e persistenti in ogni tempo, nel sogno e nella veglia dell’uomo: solo grazie alle tradizioni si possono vincere i limiti dello spazio e del tempo e si può giudicare la storia, la quale altro non è che tradizione (tradere, “affidare attraverso”). Ė quanto mai necessario, indispensabile definire un’etica della cultura del patrimonio, strettamente legata alla necessità di preservare la memoria di ogni individuo, di ogni comunità e di ogni paese. Questa etica della trasmissione della memoria rappresenta l’identità culturale e quindi il segno e il senso di appartenenza. Il patrimonio culturale non può essere recluso tra i confini di una nazione, non può avere barriere e muri, ma ponti di attraversamento dei confini e deve essere testimonianza diretta di quella molteplicità creativa della “mente estesa” di cui oggi abbiamo grande necessità per risignificare questo patrimonio nel rispetto delle contemporanee necessità.

Per i Greci l’aidos, il pudore, è determinante fra gli stati passionali; è incapacità di affrontare senza animo impetuoso le situazioni di scontro o di confronto di derivazione bellica. La paura della vergogna, che minaccia in modo diretto il senso dell’onore, è l’unica in grado di svolgere un ruolo attivo nella costruzione delle personalità e quindi dei popoli, trasformandosi in un baluardo contro gli effetti disgregativi delle altre paure. Coraggio (andreia) e vergogna sono connessi specularmente: coloro che sono considerati incapaci di coraggio sono considerati anche privi di vergogna. Ė abbastanza chiaro che, essendo l’andreia una virtù etimologicamente maschile, il caso della mitica Alcesti pronta ad affrontare la morte da lei scelta al posto del marito Admeto, sia un caso di anomala eccellenza al femminile. La vergogna appare un sentimento accessibile solo a chi è in grado di partecipare alla competizione per raggiungere l’onore e la gloria. Ė un sentimento selettivo, legato all’impegno per il riconoscimento del valore militare (aretè). La vergogna colpisce il cittadino anche nel caso in cui egli semplicemente non rispetti le leggi, quasi che violarle lo equiparasse al disertore in battaglia (a “colui che abbandonava lo scudo”, come cantano Tirteo e Archiloco); le leggi infatti, dice Pericle, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta.  Lo status della vergogna è purtroppo una emozione morale che abbiamo perso e che ha subito un declino a tutto vantaggio del valore del senso di colpa (ate) come rilevano molti studi tra i quali basterà citare quelli di Doddse più recentemente di  Konsta [1]. In una civiltà della vergogna è normale e coerente  che Pericle possa pronunciare quel “Discorso agli Ateniesi” tramandato nelle Storie da Tucidide in cui,   fra l’altro si dice:

Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia… La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l'uno dell'altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo… Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. […] Ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso… Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia… Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma che la libertà sia solo il frutto del valore… Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell'Ellade e che ogni Ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in sé stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. [2]

Questo brano mette in rilievo l’alterità dei Greci rispetto alla nostra cultura, quanto sia diversa la loro dalla nostra libertà, la loro dalla nostra politica, la loro dalla nostra uguaglianza. Identità e alterità entrano in gioco in perpetua tensione, ma è una tensione feconda. La storia e la civiltà greca possono diventare un  “altrove” che è insieme nello spazio e nel tempo, un’altra terra dove viaggiare, talvolta riconoscendovi qualcosa di familiare e più spesso meravigliandoci per presenze inaspettate e sorprendenti; perciò possono entrare in un più ampio e arioso paesaggio, che includa, con le culture altre con cui essi furono in contatto, quelle culture  tutte, che costituiscono il nostro mondo di oggi. La storia greca può diventare storia per eccellenza dell’altro, obbligandoci alla gioia dello scoprire e del conoscere e del riconoscere, obbligandoci al dovere di una rigorosa disciplina intellettuale, con gli strumenti costruiti dalla scienza dell’antichità. Simone Weil ha detto che la Grecia è stata costruttrice di ponti (la filosofia, l’arte, la scienza) [3]; noi abbiamo ereditato la sua vocazione; solo che ora, questi ponti, crediamo di poterli abitare. Non sappiamo più che essi si trovano qui unicamente per essere attraversati e per raggiungere “l’altra parte”. Anziché una versione del noi che siamo e che vorremmo essere, i Greci dovranno diventare sempre di più un “altro” da noi, perché per costruire una qualsiasi altra identità culturale abbiamo bisogno di fare i conti con i Greci, con quella perpetua tensione fra esemplarità e storicità, fra identità e alterità. Per crescere, noi, come “altri”, abbiamo bisogno di sentire come “altri” i Greci. Ė pensando ai Greci, e pensando da Greci, che potremo allora pronunciare con pieno diritto le parole di Rimbaud “Je’est un autre”. [4]

Η ΕΛΛΗΝΙΚΉ  ΓΛΏΣΣΑ

Όταν κάποτε φύγω από τούτο το φως
θα ελιχθώ προς τα πάνω όπως ένα
ρυάκι που μουρμουρίζει.
Κι αν τυχόν κάπου ανάμεσα
στους γαλάζιους διαδρόμους
συναντήσω αγγέλους, θα τους
μιλήσω ελληνικά, επειδή δεν ξέρουνε.
γλώσσες. Μιλάνε
μεταξύ τους με μουσική.

Nikiforos Vrettakos (1912-1991)

La lingua greca

Quando prima o poi andrò via da questa luce
mi snoderò verso l’alto come un
ruscelletto che sussurra.
E se per caso in qualche punto in mezzo
alle corsie celesti
incontrerò angeli, parlerò
con loro in greco, poiché
non conoscono lingue. Parlano
fra loro con musica.

Nikiforos Vrettakos (1912-1991)


Note

1. E. Dodds., I Greci e l’irrazionale, (1955), Rizzoli, Milano, 2009; D. Konstan, The Emotions of the Ancient Greeks: Studies in Aristotle and Classical Literature. Toronto : University of Toronto Press, 2006.
2. Cfr. Tucidide, Storia della guerra del Peloponneso, libro. II, par. 35-46, Rizzoli, Milano, 1985.
3. Cfr G. Fiori (a cura di),  Simone WeilBiografia di un pensiero, Garzanti, Milano, 1981.
4. A.
 Rimbaud, Corrispondance, Lettre à Paul Demeny - 15 maggio 1871.

 

Credits


Immagine a lato del titolo: Mosaico murale di Mnemosyne, titanide della memoria e madre delle nove Muse,  III d. C., Museu Nacional Arqueològic de Tarragona.

Scrive...

Anna Maria Borrello Insegna Materie letterarie e latino nel Liceo Scientifico; è Presidente del CIDI Reggio Calabria