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09/12/2015

“Oggi cosa faccio… interrogo o spiego?”

di Matteo Chioccioli

Credo che non dimenticherò facilmente il primo giorno di scuola… da insegnante. Per molti anni, a tutto avrei pensato tranne che di rientrare in un’aula scolastica dall’altra parte della cattedra.
Concluso l’Esame di stato al termine della scuola superiore, le mie idee sul futuro non erano affatto chiare ma sicuramente tra i propositi non c’era quello di fare l’insegnante, o per meglio dire di essere tale. Certo, il liceo scientifico che avevo frequentato mi aveva interessato, anche se non certo emozionato, ma non mi piaceva l’idea di riproporre un giorno l’insegnamento, soprattutto quello scientifico, che avevo sperimentato da studente e che pensavo fosse l’unico percorso scolastico possibile. 

In fondo gli interessi che avevo da sempre per le scienze, e che di lì a poco mi avrebbero portato a intraprendere gli studi scientifici all’università, andavano al di là di quelle nozioni apprese al liceo dopo ore e ore di studio e che mi sembravano così distanti da quella scienza che avevo conosciuto nei libri di divulgazione e che mi appassionava tanto.
Infatti, se ripenso alle lezioni di scienze sperimentate alla scuola superiore, l’idea di un “apprendimento significativo”, che dovrebbe scaturire da ogni insegnamento ed essere misura della sua efficacia, mi sembra piuttosto distante da quelle esperienze.

Quelle lezioni, fatte esclusivamente in classe, iniziavano sempre con la stessa formula tanto cara al professore: “Cosa facevo oggi, interrogavo o spiegavo?”. E a seconda della risposta, l’ora poteva incanalarsi su due binari diversi. Nel primo caso – l’interrogazione – ci si doveva preparare a un’ora di interrogazione alla lavagna, il cui esito era spesso abbastanza prevedibile. Nel secondo caso – la spiegazione – il tutto si risolveva nella presentazione di una serie di concetti nella forma della più classica lezione ex cathedra, espressione che qui è proprio da intendersi nel suo vero significato letterale, dalla sedia, poiché il professore rimaneva a sedere per gran parte della durata della lezione.

Le lezioni di scienze erano quindi trascorse secondo questo schema per tutto il percorso liceale. Risultato: al termine dei cinque anni avevo capito di cosa si occupava la biologia, che la geografia astronomica era appassionante perché parlava del “cielo stellato sopra di me”, ma in pratica, nonostante i bei voti ottenuti, non avevo capito molto di cosa si occupava la chimica. Modelli atomici, configurazione elettronica, formule di struttura e nomenclatura erano dei termini che avevo imparato piuttosto che dei concetti da me realmente assimilati.

Al termine del liceo, e dopo una lunga riflessione estiva, arrivai alla conclusione che Chimica poteva essere il corso di laurea giusto al quale iscriversi: offriva molti sbocchi professionali e, soprattutto, sembrava non condurre all’insegnamento superiore.

In realtà, più volte durante i primi anni di Università mi sono chiesto se, con Chimica, avessi fatto la scelta giusta; con il passare del tempo, i mesi della tesi e gli anni di dottorato mi avrebbero portato, in ogni caso, a rivalutare la scelta fatta. La ricerca in chimica computazionale mi stava appassionando, ma allo stesso tempo dovevo prendere atto che la scarsità di fondi mi costringeva a pensare a cosa avrei potuto, e voluto, fare in futuro.

Nel frattempo, durante gli anni del dottorato le mie idee sull’insegnamento erano piuttosto cambiate rispetto al convincimento che su questo argomento avevo avuto da sempre. La possibilità di fare delle lezioni all’interno di corsi universitari mi aveva fatto avvicinare a questa professione e scoprire per la prima volta la sua bellezza; ma fare delle lezioni all’università mi sembrava così distante dall’idea di insegnare in una scuola superiore che, da quanto leggevo e immaginavo, era radicalmente cambiata dagli anni in cui l’avevo frequentata. Che cosa poteva voler dire entrare dopo tanto tempo in una classe delle superiori? Chi mi sarei trovato di fronte? L’occasione di dare una prima risposta a queste domande mi si presentò nell’ambito di un progetto di divulgazione scientifica promosso dalla regione Toscana, quando un professore universitario mi chiese di sostituirlo per una lezione sui “Farmaci al computer”.
Dovevo tenere la lezione in un liceo scientifico.

Entrai nella scuola durante l’intervallo e mi sembrò di essere capitato nel bel mezzo di una “bolgia dantesca”. La tentazione era quella di scappare, ma ormai non mi potevo più tirare indietro. La lezione, fatta davanti agli studenti di tutte le classi, non fu un granché, perché nella sua preparazione non avevo tenuto in considerazione i prerequisiti e le conoscenze degli studenti delle superiori.
Alla fine dell’incontro vennero, comunque, a salutarmi delle ragazze e dei ragazzi di una classe quinta dicendomi che in pratica non avevano capito molto di quello di cui avevo parlato, ma che la presentazione con tutte le animazioni e i filmati a loro era piaciuta. Mi fermai a lungo a parlare della scuola, di come la stavano vivendo e di quello che avrebbero voluto fare all’università. Da quell’incontro non avevo capito molto di come funzionava dopo molti anni la scuola, ma l’idea di confrontarmi con i ragazzi e vivere la scuola da insegnante iniziava davvero a interessarmi.
Trascorso circa un anno, si fece finalmente concreta la possibilità di intraprendere la strada dell’insegnamento; quasi contemporaneamente ricevetti l’incarico per l’insegnamento delle scienze in un Liceo Classico e iniziò per me la frequenza ai corsi del primo ciclo del Tirocinio Formativo Attivo (TFA). In breve mi ritrovai con un registro in una mano e i moduli del TFA nell’altra. 

Indubbiamente la coincidenza del TFA con la mia prima esperienza da insegnante ha richiesto sul momento un grande dispendio di energie e prodotto spesso un po’ di scoraggiamento, ma mi ha aiutato a capire fin da subito qual è la rotta più corretta da seguire perché l’insegnamento possa tradursi realmente in “apprendimento significativo.

Gli insegnamenti che ho ricevuto hanno funzionato, infatti, come una bussola da utilizzare per orientarsi all’interno di una realtà, quella della scuola, profondamente cambiata da quella che avevo lasciato da studente e della quale nessuno mi aveva dato la mappa; o piuttosto quella che avevo non era aggiornata alla versione più recente. Avevo, infatti, lasciato la scuola del programma e ho trovato la scuola dell’autonomia, delle competenze, del curricolo, dove insegnare significa andare al di là della cultura del programma da finire o piuttosto del “complesso” del programma non finito.

Certo le difficoltà non sono mancate lungo tutto il percorso e, ripensando oggi a quel primo ciclo di TFA, ritengo che l’immagine che la riassume al meglio sia quella del profilo altimetrico di una tappa dolomitica del Giro d’Italia. Una tappa della quale, tuttavia, una parte del tracciato è stata svelata solo in itinere, proprio mentre si stava correndo. Ogni volta, infatti, che sembrava di essere vicini al traguardo finale si presentava improvvisamente un altro tratto di strada da percorrere, più o meno impegnativo: dalle lezioni disciplinari a quelle di Scienze dell’Educazione, dal tirocinio diretto a quello indiretto. Nonostante gli ostacoli incontrati lungo il cammino, ho comunque deciso soltanto un anno dopo di intraprendere una nuova avventura con il secondo ciclo di TFA.  
Entrambe queste esperienze, al di là dell’aspetto formativo, sono state, soprattutto, l’occasione per entrare in relazione e per confrontarmi con dei compagni di viaggio che avevano intrapreso lo stesso percorso e per scoprire che il mio problema era uguale a quello degli altri e gli stessi dubbi che avevo sull’insegnamento erano comuni a tutti i compagni di corso.

Quello che più mi auguro, al termine dei due percorsi formativi, è che tutte le energie profuse si traducano, per me, in un modo sempre nuovo di interpretare la professione di insegnante, nella capacità di essere inclusivo e responsabile, di saper progettare e programmare attentamente la mia azione didattica; perché entrando in classe al mattino non venga assalito dal dubbio amletico: “Ma oggi cosa faccio... interrogo o spiego?”.


Immagine a lato: La pagina "Chymie. Laboratoire et Tables des Rapports", dall' Encyclopédie de Diderot et d'Alembert, 1752.

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