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08/02/2017

Tullio De Mauro educatore, professore, maestro – Parte I

di Domenico Di Russo

Ho conosciuto Tullio De Mauro il 13 febbraio 2003. Quel giorno si apriva a Napoli, a Castel dell’Ovo, il convegno istitutivo del Gruppo di Studio sulla Comunicazione Parlata (GSCP), costituito in seno alla Società di Linguistica Italiana (SLI) e presieduto alla nascita da Federico Albano Leoni, suo ispiratore. Quella mattina, dopo aver viaggiato in treno di notte da Pescara attraversando gli Appennini sotto la neve, arrivai alla Stazione Centrale di una Napoli schiaffeggiata dal sole e cercai di scaricare un po’ della tensione per il mio primo convegno marciando fino al castello attraverso il lungomare di via Nazario Sauro.
Domenico Russo, che mi aveva avviato alla linguistica appena un anno prima, presentava infatti una relazione su La prosodia dell’italiano regionale abruzzese a cui avevo collaborato con Andrea Dezi e Silvio La Torre e mi aveva affidato, con la paterna e signorile generosità con cui Athos consigliava un D’Artagnan alle prime armi come stare al mondo, la corposa parte analitica dedicata alle analisi prosodiche dei dialoghi spontanei che avevamo registrato. Anche il GISCEL Abruzzo era della partita: Daniela Campitelli e Giuseppina Pani, che all’epoca ne erano il cuore pulsante, presentavano quel pomeriggio una bella relazione preparata insieme ad Andrea Alongi e allo stesso Domenico Russo, intitolata Alcuni ‘nemici’ di Eliza Doolittle. Dati e considerazioni sull’epistemologia della fonetica scolastica. Presidente della sessione che annoverava la nostra relazione era Tullio De Mauro.

Stava in piedi fra il suo antico allievo Domenico Russo alla sua sinistra e me alla sua destra, concentrato sui dati che esibivamo, attento alle conclusioni che traevamo. E mi colpì subito un particolare: nel descrivere le caratteristiche prosodiche dell’italiano regionale abruzzese commisi un piccolo errore di distrazione, talmente piccolo che la gran parte del numeroso pubblico sembrava non essersene avveduta se non fosse stato per la correzione che proprio De Mauro mi suggerì prontamente. Permaloso com’ero, stranamente non mi sentii affatto piccato e non per merito mio bensì per il tatto di De Mauro.
Da vero educatore, tanto più autentico perché insegnava, con l’esempio, soprattutto fuori dalle aule e dai seminari, ascoltava chiunque avesse qualcosa da dire, interveniva solo quando l’altro aveva concluso il discorso, parlava onestamente, senza cioè risparmiare critiche, anche aspre se era il caso; non interrompeva mai, neppure se sentiva sciocchezze; quando notava nell’altro un attimo di smarrimento o un’imprecisione, interveniva in suo soccorso per consentirgli di chiudere il ragionamento. Questo suo modo di essere, fatto di rispetto per il prossimo e di empatia verso chi si sforzasse di esprimere chiaramente un’idea, diventava tanto più evidente nei confronti delle decine di giovani che ogni anno frequentavano le sue lezioni, soprattutto verso coloro che avevano poi la fortuna e l’onore di diventare suoi allievi.

Quel sostegno e quell’empatia di un momento trovarono conferma già nei mesi successivi, quando a settembre dello stesso anno lo ritrovai a Rimini, per il convegno annuale della Società di Filosofia del Linguaggio (SFL), dopo il quale gli scrissi diverse volte ricevendo sempre risposte cordiali. Finché, nell’estate 2004, conseguita la laurea triennale, esortato da Domenico Russo – il quale mi aveva introdotto alla linguistica facendomi leggere proprio quell’essenziale «abbiccì» di De Mauro che resta Linguistica elementare (1998), essenziale sia per la brevità che per la mirabile densità, e il fondamentale Corso di linguistica generale (1967) di Ferdinand de Saussure, che giusto De Mauro aveva introdotto, tradotto e commentato in un apparato critico tanto imprescindibile da essere ormai parte integrante dell’opera – mi trasferii a Roma per specializzarmi negli studi linguistici alla Facoltà di Scienze Umanistiche de La Sapienza. Da allora, i mercoledì dei seguenti tre anni accademici furono scanditi dai ricevimenti e dalle lezioni di De Mauro: proprio con lui mi sono laureato nel luglio 2006; sempre con lui, nell’ottobre dello stesso anno, ho cominciato il dottorato di ricerca. Ho avuto così il privilegio di scoprire altre sue qualità profondamente rare.

Un tratto che mi sorprese e che mi resta ancora ben impresso fu la sua disponibilità, non solo come educatore ma anche come professore, cioè come uomo di cultura e di scienza che, dall’alto del suo magistero, era stato chiamato nel corso dei decenni da non poche università (Napoli, Palermo, Chieti, Salerno, Roma) a introdurre migliaia di giovani alla linguistica generale, alla storia della lingua italiana, alla filosofia del linguaggio, all’educazione linguistica e ad avviare quanti mostrassero entusiasmo per queste discipline, a un tempo complesse e affascinanti, all’insegnamento e alla ricerca scientifica. Missione che ha assolto come pochi per intensità e risultati: basta scorrere l’elenco dei docenti accademici e dei ricercatori che si sono formati alla sua scuola, che è parte integrante e rivitalizzante della scuola linguistica romana, come pure l’elenco degli insegnanti che oggi fanno scuola inverando e rinnovando i suoi insegnamenti e le sue proposte.
De Mauro era un professore disponibile perché “costituzionalmente” incapace di dire di no: beninteso, sapeva opporsi benissimo quando era necessario, sapeva replicare e confutare senza indietreggiare, al punto che, bene che andasse, la partita a scacchi intellettuale che s’ingaggiava con lui finiva patta, e accadeva di rado. Eppure non sapeva negarsi: non c’era nulla di elitario o, peggio, di snobistico in lui. Concedeva interviste a chiunque avesse bisogno di capire un problema che riguardasse il linguaggio, le lingue, l’italiano, la scuola o la cultura; leggeva gli scritti di chiunque senza pregiudizi, sempre pronto a dare consigli, sempre curioso di scoprire talenti e promuoverli. Non si risparmiava mai: lo sanno bene i soci della SLI e della SFL, che contribuì a fondare e che ha presieduto rispettivamente dal 1969 al 1973 e dal 1995 al 1997; lo sanno gli amici, i colleghi e gli allievi che continuava a coinvolgere nei cicli degli «incontri linguistici» del lunedì, aggiornando il calendario dei seminari fino a pochi giorni prima della sua scomparsa; lo sanno i “militanti” delle diverse associazioni di insegnanti con cui non ha mai smesso di camminare insieme, come il GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), di cui è stato ispiratore, fondatore e animatore, come il CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), di cui è stato il punto di riferimento più alto e costante, come l’MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) o il LEND (Lingua e Nuova Didattica), che lo hanno avuto per interlocutore privilegiato; lo sanno le istituzioni in cui aveva profuso il suo senso del dovere e dell’impegno civile, come il Ministero della Pubblica Istruzione, per il quale, dopo alterni periodi di collaborazione, fu Ministro nella XIII Legislatura con il Governo Amato II tra il 2000 e il 2001, come la Regione Lazio, dove fu Assessore alla Cultura tra il 1976 e il 1978, o come il Comune di Roma, per cui fu presidente della fondazione Mondo digitale dal 2001 al 2010; lo sanno le tante associazioni culturali alle quali fece dono della sua esperienza, prima fra tutte la Fondazione Bellonci, di cui fu presidente dal 2007, senza dimenticare l’Associazione ex Alunni e Docenti Liceo Giulio Cesare, a sottolineare quanto fosse radicato e disinteressato l’intreccio dei suoi legami con la scuola.
Due anni fa, quando gli chiesi una lettera di presentazione per un concorso all’estero, borbottò un po’ perché non mi facevo sentire né vedere da almeno un anno ma subito dopo m’invitò a casa sua, dove mi accolse con una bella lettera di presentazione, l’ennesima, e mi riempì di domande: “Cosa fai?”, “Come ti trovi a scuola?”, “Come sono le classi?”, “Qual è la realtà dei ragazzi?”, “Stai continuando a studiare?”. Era sinceramente curioso e, come sempre, prodigo di raccomandazioni.

Curiosità, disponibilità, apertura, dunque. Queste qualità non costituivano semplicemente i tratti co-essenziali del suo modo di essere ma rispondevano al suo bisogno interiore di aderire nella teoria e nella prassi a un’idea ben precisa di cultura. Nel prezioso libro-intervista a cura di Francesco Erbani, La cultura degli italiani (2004), tuttora e chissà per quanto tempo ancora drammaticamente attuale, De Mauro prendeva spunto, arricchendola, dalla nozione di cultura condivisa dai biologi: «Chiamiamo cultura quel complesso di elaborazioni, condizionate dal patrimonio genetico di una specie vivente, ma non dettate da questo, nascenti dal rispondere ai bisogni che quella specie trova sul suo cammino. Trasmissione per imitazione, ricombinazione di elementi già dati, invenzione sono le tre radici della cultura intesa a questo modo» (ivi, 7). È qui che il professore faceva spazio al maestro, maestro nell’accezione più comune della parola, quella di insegnante responsabile della scolarizzazione e dell’alfabetizzazione dei più piccoli, vale a dire del compito più delicato, fondante e nobile dell’intero sistema scolastico, quello che spesso fa la differenza. Compito della scuola, e dell’istruzione in generale, dovrebbe essere «dare a tutte e a tutti, nessuno escluso, una piena autonomia di movimento nella società e nell’intera cultura di oggi» – pensava De Mauro – «portandoli attraverso gli anni a saper controllare se stessi in rapporto agli altri, le proprie scelte di vita attraverso la conquista di linguaggi antichi e nuovi, di tecniche operative, di saperi critici, storici e scientifici» (ivi, 13-14).

In questo senso, De Mauro avvertiva la stessa esigenza che spingeva don Lorenzo Milani a scrivere sulla lavagna della scuola di Barbiana “I care”: «Cosa sta a cuore a noi? Cosa c’interessa?» chiedeva don Lorenzo a sé e ai suoi ragazzi, «Tutto! A noi qui interessa tutto!» rispondeva. Così viveva, educava e insegnava De Mauro: non esistevano solo la linguistica, la storia delle lingue o la filosofia del linguaggio durante e fuori le sue lezioni; c’erano anche tutte le altre discipline e tutti gli altri saperi, verso i quali lui per primo si poneva con l’animo di chi ha qualcosa da imparare. Con questo spirito si era imposto nel dibattito culturale nazionale con il suo capolavoro, quella Storia linguistica dell’Italia unita (1963) che ha rivoluzionato il modo di fare linguistica e storia della lingua implementando l’analisi statistica, economica e sociale nell’osservazione diacronica dei fenomeni linguistici, sdoganando fonti scritte prima neanche considerate nonché  mezzi di comunicazione di massa come la radio, il cinema e la televisione decisivi nelle variazioni degli usi linguistici, riconoscendo così l’importanza cruciale del parlato, peraltro in perfetta adesione a quelle che Saussure considerava le due variabili fondamentali nel processo concomitante di conservazione e mutazione del segno linguistico: tempo e massa parlante. Un capolavoro che rifletteva appunto una concezione più aperta, trasversale, inclusiva non solo della lingua ma anche, di riflesso, della cultura nella sua unitarietà. A questo abito mentale educava i suoi studenti ed esortava i suoi allievi: scelta del punto di vista, circoscrizione della questione, selezione delle fonti, osservazione del fenomeno, raccolta, elicitazione e comparazione dei dati, elaborazione delle informazioni, ipotesi d’interpretazione delle relazioni tra le informazioni, verifica sperimentale delle ipotesi, e così via lungo un percorso di conoscenza a spirale che non ripassa mai dal via giacché consegue di volta in volta un grado superiore di sapere. Ci ha insegnato che la quantità, se osservata, analizzata e spiegata, non è antitetica alla qualità ma ne costituisce anzi una delle garanzie più affidabili. Studio, metodo, rigore, approfondimento.

Parafrasando e ricalibrando la massima maoista che echeggiava durante la Rivoluzione culturale – «chi non ha fatto l’inchiesta non ha diritto di parola» – sempre che lo spirito di Mao Tze Tung, dal ritratto di Andy Warhol dove per contrappasso sembra riposare, non s’offenda, potremmo così sintetizzare l’atteggiamento culturale di De Mauro: chi non ha fatto l’analisi, abbia il buon senso di tacere e, se proprio non ci riesce, parli pure ma per porre domande a chi l’analisi l’ha fatta, ascolti, legga, impari. L’analisi, infatti, era per lui un punto di partenza imprescindibile, tanto più di fronte alla delicata questione della scuola pubblica italiana. «È insopportabile – commentava –il taglio retorico che grava anche sulla cultura umanistica, la scarsa propensione verso ciò che è analitico, ciò che è falsificabile. E questo handicap lo trasciniamo fino a oggi: basti l’esempio di come agisce certa informazione» (De Mauro 2004, 85).

In questa fase storica confusa, in cui sono in molti a sentenziare sulla scuola italiana senza saperne alcunché, la voce di De Mauro risuonava spesso solitaria all’interno della classe dirigente italiana. Sulla scia dell’approccio della Storia linguistica dell’Italia unita, spingeva noi studenti e allievi a trattare la scuola e il sistema della pubblica istruzione partendo dai dati sui livelli di scolarizzazione degli italiani e sulle loro abitudini culturali, specie di lettura, ricavati dai censimenti e dalle indagini multiscopo dell’ISTAT, dai risultati delle indagini comparative dell’OCSE, senza tralasciare i risultati delle altre indagini internazionali. Per affrontare seriamente la questione bisogna partire dalla realtà, ci diceva, e quindi dalle analisi che la descrivono senza però accontentarsi di questo: per capire quali siano le tendenze in atto è sempre importante confrontare questi dati, che fotografano la condizione culturale e scolastica di un paese in un preciso momento, coi dati emersi dalle indagini precedenti. Ma nemmeno questo basta: le tendenze messe in evidenza nel corso dei decenni o dei secoli non ci dicono nulla se non le rapportiamo ai dati contestuali relativi al quadro politico, istituzionale, normativo, economico e sociale. Ecco allora la necessità, ma solo per chi intenda affrontare seriamente la questione, di conoscere quanto meno le riforme che hanno segnato un tornante nella storia del sistema dell’istruzione pubblica italiana, a partire almeno dall’unità nazionale. L’umiltà di fronte alla realtà, da non piegare mai per confermare le proprie ipotesi: questa era la palestra con cui De Mauro ci tirava su.

Egli riconosceva a tutti, anche a chi non aveva fatto l’analisi, il diritto di parola: l’ho visto ascoltare infinite volte le stesse obiezioni, le stesse provocazioni, le stesse mistificazioni senza mai scomporsi, con educazione, pazientemente. Era un autentico liberale, un vero democratico: lui stesso, con la serenità, l’ironia e l’autoironia che gli erano connaturate, aveva smontato sistematicamente i ripetuti tentativi di tingerlo di rosso nel delizioso e ancora attuale Come non nacque e non morì un marxista teorico in Italia (1996), ripubblicato poi nell’autobiografico Prima persona singolare passato prossimo indicativo (1998), dove rivendicava il suo essere «liberale con la -e» (ivi: 149). Vale a dire tra i «Liberali interi, senza dimidiazioni o apocopi, che il bene comune vivono come componente reale del bene individuale, che mai antepongono questo a quello, pur convinti o, anzi, perché convinti del primato dei diritti di libertà degli individui, ma – e qui sta la principale differenza dai liberal alla romana – di tutti gli individui. Tutti» (ibid.). Fondamentale nella sua formazione politica e intellettuale fu una compagine tutta italiana di studiosi liberali, anche antitetici al marxismo, in particolare i Benedetto Croce, Carlo Antoni, Guido Calogero, Gaetano De Sanctis, Adolfo Omodeo, Gaetano Salvemini, Luigi Scaravelli, Umberto Zanotti Bianco. Anche se De Mauro non mancava di riconoscere il grande debito intellettuale nei confronti di Antonio Gramsci, quello stesso Gramsci che Luigi Russo – in quel 1947 che conclamava la Guerra fredda, quando cioè il comunismo e il liberalismo storicamente realizzati, deludendo entrambi le promesse, si escludevano a vicenda – aveva definito non a caso un «comunista liberale»: pienamente laico, non dogmatico, aperto, pluralista. Così altrettanto era De Mauro: niente affatto dogmatico, chiuso, monolitico o autoritario. Mai l’ho visto seccarsi per una domanda, ci invitava anzi a prendere la parola e a fare domande; ci spronava a vincere la penalizzante ritrosia a parlare in pubblico, facendoci capire attraverso il suo esempio che chi ha studiato seriamente un problema ha il dovere civile di descriverlo con chiarezza ai propri concittadini e il dovere altrettanto civile di avanzare proposte che possano contribuire a risolverlo, sempre nell’interesse comune, mai nell’interesse di una parte contro le altre.
Ecco un altro tratto caratteristico di De Mauro, rarissimo nel panorama della classe dirigente italiana di questa lunga fase di sospensione non democratica chiamata Seconda Repubblica, sempre più indegna della Prima: per quanto rivoluzionarie fossero le fonti delle sue ricerche, come pure gli strumenti delle sue analisi, le tesi dei suoi studi, gli orizzonti delle sue proposte, non era un uomo di rottura. Le sue idee spesso dividevano perché gettavano una nuova luce da una prospettiva prima trascurata ma il suo sforzo intellettuale e civile era costantemente teso all’armonia, alla ricomposizione dei conflitti, alla soluzione delle incongruenze nell’interesse generale della comunità in cui operava, dall’aula universitaria alla nazione. In un’Italia troppo comodamente rappresentata come divisa tra una maggioranza silenziosa e una miriade di minoranze di ferro e di fuoco, De Mauro apparteneva a un’isola civile capace ancora di discernimento.

 

 

Scrive...

Domenico Di Russo Ha conseguito nel 2011 il Dottorato di ricerca in «Filologia, Linguistica e Letteratura» presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università «La Sapienza» di Roma, insegnante di terza fascia di Italiano, Storia e Geografia.