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editoriali

10/06/2015

Capita, in politica

di Mario Ambel

Mentre "andiamo in rete", giungono le notizie sugli incagli parlamentari del Ddl sulla scuola. La pregiudiziale di incostituzionalità è questione seria, ma è tutto l'impianto e la natura politica di questo progetto che andrebbero seriamente rimessi in discussione.

Negli ultimi giorni, alcuni esponenti della maggioranza di Governo, impegnati nel delicato passaggio parlamentare del Ddl sulla scuola, si sono lamentati del fatto che nessuno degli oppositori abbia dato il giusto rilievo e ascolto agli aspetti positivi di quel Disegno di legge e si sia ostinatamente attestato sull'opposizione ideologica e pregiudiziale oppure sulla richiesta ossessiva di stralciare il provvedimento sul precariato e lasciare il resto a tempi più distesi e possibilmente a scelte strategiche più adeguate al bene della scuola e del paese.   
Non è vero che chi si è opposto al Ddl non abbia analizzato, commentato, contestato i singoli provvedimenti; non è vero che abbia solo opposto dei NO rifiutando di fare controproposte; non è vero soprattutto che manchino ipotesi alternative di idee e pratiche di scuola. Ma si tratta di volerle prendere in considerazione, anche a rischio di dover cambiare interlocutori ideali e area di consenso.
Del resto è sintomatica la reazione del Premier anche nei confronti dell'opposizione interna al suo stesso partito: stralciare il precariato significherebbe ridurre il suo progetto di cambiamento a  un “ammortizzatore sociale”. Questa affermazione è la miglior testimonianza che il linguaggio, la logica, le idealità che muovono l'intero impianto della “Buona scuola” non appartengono alla scuola, a chi davvero la fa con fatica ogni giorno. E per questo la scuola le rifiuta.
Infatti, sia pure sommando prospettive e obiezioni in parte diverse non è un caso che la stragrande maggioranza della scuola, di chi ci lavora, di chi la frequenta e dei cittadini che ci mandano i figli (almeno quelli che si sentono tali e non utenti di un servizio o clienti di un'offerta commerciale) non ci si riconosca e la rimandi al mittente. A credere in questo progetto di riforma erano forse alcuni docenti stanchi di non veder adeguatamente riconosciuta la qualità del proprio lavoro, i dirigenti (non tutti) che da tempo chiedono più poteri decisionali per poter rispondere alle responsabilità loro assegnate, così come alcuni genitori non sempre soddisfatti della scuola o di qualche docente dei loro figli. Ma ormai sono rimasti proprio pochi a credere che questa sia la soluzione adeguata ai non pochi problemi della scuola, la strada capace di valorizzarne le potenzialità e la qualità già esistenti e di porre rimedio alle carenze vecchie e nuove.
E allora sarebbe giusto che gli estensori o i parlamentari impegnati nella gestazione politica di questo progetto si chiedessero davvero perché esso non piace alla scuola, smettendola di darsi risposte troppo facili e anche false, tutte riconducibili al presunto conservatorismo della categoria dei docenti e delle sue rappresentanze sindacali.

Il problema infatti è un altro. O forse lo stesso, visto però da un'angolatura diversa. La politica è questione di scelte. E a meno che si aspiri a pratiche totalitarie o si abbia l'illusione che esistano davvero scelte e soluzioni che vadano bene a tutti e che rispondano a tutte le prospettive e gli orizzonti valoriali o che si creda che la verità mediatica corrisponde a verità di fatto... allora bisogna accettare che in politica si possa accontentare qualcuno e scontentare altri. Si chiama "democrazia", dove si propone, si discute, si vota. E prima di cominciare si prende ispirazione da questa o quest'altra ipotesi o idea di società.
E dunque è venuto il momento che gli estensori del progetto la “Buona scuola” e i parlamentari che a fronte di tante contrarietà si sono interrogati su ciò che sta avvenendo e hanno avviato la faticosa marcia di riduzione del danno attraverso gli emendamenti si pongano davvero qualche domanda politicamente pregnante. E soprattutto capiscano che inserire emendamenti come la riduzione temporale del mandato di presidenza per evitare il rischio di gestione autoritaria del potere in una stessa scuola significa adottare una soluzione aberrante a un provvedimento sbagliato, restando prigionieri di logiche distorte.
Il documento la “Buona scuola” e poi il Ddl sono la riscrittura a tratti banalizzante, in alcune pagine superficiale al limite dell'imbarazzo, delle Tesi contenute nei Documenti di Treellle o nelle 100 proposte per la scuola di Confindustria; sono l'eco a tratti letterale e a tratti frettoloso dei libri che esaltano la meritocrazia o di molti articoli apparsi in questi anni su alcuni quotidiani per sponsorizzare la decontrattualizzazione del pubblico impiego; applicano una visione competitiva, individualistica e anticostituzionale dell'autonomia; propongono una fiducia acritica nella necessità di investimenti privati; hanno una continuità sostanziale con le “riforme” del centrodestra dalle quali tendono a staccarsi affermando di non voler più fare tagli ma in realtà investimenti, sebbene, a fare bene i conti, per ora anche questo appare più un gioco di prestigio che un'effettiva scelta di fatto... Di certo il progetto non ha prestato orecchio alle sirene sindacali e neppure alla storia della scuola di questo paese, ma non è che non abbia ascoltato altre sirene, proprio di quelle per altro che portano a sbattere sugli scogli.
Intendiamoci, non è che queste scelte siano illegittime. Bisognerebbe solo smettere di negarle, attribuendo a presunto conservatorismo egualitarista le ragioni di chi non le condivide. E soprattutto bisognerebbe smetterla di stupirsi che non piacciano alla scuola. In politica le scelte di campo andrebbero difese per quello che sono, altrimenti è la natura stessa della politica a venir meno. E' un vero guaio la vocazione demagogica dei politici del nostro tempo, abituati a credere che se riescono a costruire, a forza di slogan, di social, e di approssimazioni ideologiche, un vasto consenso alle proprie scelte, questo implica che tutti debbano essere poi d'accordo e la smettano di disturbare il manovratore.
Poi, alla prova dei fatti, quando i nodi vengono al pettine, questa illusione si dimostra falsa. E così come in questi giorni lo scontro sulla gestione dei profughi venuti dal mare ha riproposto la palese e democraticamente salutare differenza fra chi la vede in un modo e chi in un altro, anche sulla scuola, il Governo e i parlamentari della maggioranza sono di fronte al più complicato e nobile destino di chi fa politica: decidere da che parte stare. Senza illudersi di aver trovato la pietra filosofale che apre le porte della verità e che in politica non esiste. In politica esistono solo scelte che in quanto tali sono di parte e per questo vanno discusse e votate. E la responsabilità dei politici è quella di esporre con chiarezza e difendere con coerenza le proprie scelte. Ieri il Presidente del consiglio, nelle vesti di Segretario politico, ha detto alla parte del suo partito (anche partito significa una parte) che nutre forti riserve sul Ddl che “Non ha intenzione di trattare sul merito con il sindacato” e che se qualcuno non è contento “Si va avanti con chi ci sta”. Bene: parole chiare.

Questo Ddl sta con alcuni (che sono quasi tutti fuori dalla scuola) e sta contro altri (che sono quasi tutti dentro la scuola). Triste, ma drammaticamente evidente. Prima se ne prende atto e meglio è. Anche perché poi, dettaglio non trascurabile, dovrebbe toccare alla scuola applicarlo.
Quello che davvero non si capisce, in tutta questa vicenda, è perché il Presidente del consiglio e gli altri estensori del progetto non abbiano scelto la strada di coinvolgere ogni istituzione scolastica e poi le scuole in rete fra loro nel perseguimento della responsabilità professionale e civile di affrontare in un'ottica costituzionale i veri problemi della scuola (alta dispersione, bassi risultati, eccessivi squilibri tra e dentro i territori, accresciuta difficoltà del fare scuola quotidiano e talvolta della stessa relazione educativa, adeguata preparazione dei docenti ...), invece di affidarsi a pulsioni individualistiche e competitive e di pensare che la soluzione dei problemi della scuola stesse nel "cambiare verso" alle questioni gestionali e organizzative (assunzioni, carriera, poteri del dirigente, merito, premialità dei migliori...). 
Probabilmente, uno dei motivi di fondo, come spesso accade, è aver fatto cattive letture e ascoltato i consiglieri sbagliati. Capita, in politica.

 

 

 

 

 

 

 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".