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editoriali

05/09/2023

Il corpo dell'istruzione

di M. Gloria Calì

Ci si appresta ad iniziare l’anno scolastico in cui il PNRR dovrebbe cominciare ad assumere una forma visibile. Riprendiamo quindi la riflessione su di esso, ampliandola, a partire dalla rilettura della premessa al documento generale, dove si elabora la “narrazione”, cioè si espongono le cause della crisi in cui versa l’Italia.
Le cause, ma non la natura, che costituisce una sorta di sottotesto dato per scontato: si produce troppo poco. Su questo torniamo più sotto.

Le cause indicate sono tutte esogene: noi, povero popolo italiano, siamo vittime di un sacco di cose brutte, dall’epidemia di COVID all’innalzamento dei mari, al dissesto idrogeologico. Come se il territorio italiano, per larga parte, non sia gravato da decenni di pratiche urbanistiche centrate unicamente sullo sfruttamento. Come se la sanità pubblica non sia stata oggetto di riduzioni di spesa progressive, con conseguente peggioramento della forza e della qualità delle prestazioni ordinarie per la prevenzione e la cura di ogni persona che ne abbia necessità.  

La scrittura del documento è piatta, apparentemente oggettiva, punteggiata di percentuali; solleva il sopracciglio solo quando si parla di ignoranza digitale: in quel caso, non ci sono vittime, ma colpevoli, e sono i lavoratori e le lavoratrici, che usano troppo poco o troppo male la grande risorsa del digitale, nel privato o nel pubblico.

Leggiamo anche tra le righe l’accusa alla politica degli ultimi 25 anni, pacata e bipartisan, condotta attraverso una sapiente mescolanza di storia e statistica.

Non faremo l’analisi di tutti i paradigmi, sottesi a questa impostazione, che non condividiamo; ci limitiamo (si fa per dire…) a sottolineare che la natura della crisi italiana, prima che produttiva, è crisi territoriale, sociale e culturale. E’ una sorta di malattia dell’organismo Italia che ha le sue origini in una mancata cura del sistema costituzionale come tessuto connettivo, che dovrebbe creare la base affinché le differenze non diventino disuguaglianze, e si costruisca una società di elementi differenti messi nelle condizioni di convivere con reciproco miglioramento.  
Se, infatti, di un paese non si tengono insieme la terra e l’acqua, i sindaci e le comunità, l’immigrato e l’imprenditore, il rider e la poeta, i pannelli fotovoltaici e le chiese medievali, in un paesaggio in cui i diritti non siano privilegi ma substrato ordinario di vita civile, non ci saranno soldi che basteranno. E affermiamo con convinzione che l’”italianità” da celebrare veramente sarebbe la ricerca costante di ricucitura e reintegrazione tra diversità, non una inesistente “identità”, ancor meno una “grandezza”.

La lunga premessa ci sembra necessaria perché la scuola, nostro paesaggio di appartenenza, è inserita in questo quadro di letture, analisi, interpretazioni e presunte soluzioni, giacché “i giovani” sono indicati come vittime tra le vittime di questa crisi così raccontata nel documento governativo. A partire dalle premesse, sentiamo il dovere di rimarcare alcune posizioni fortemente critiche nei confronti dell’impostazione generale del Piano. Lo diciamo subito: siamo già consapevoli che ci saranno scuole, insegnanti, dirigenti, DSGA, che cercheranno di impostare progetti sensati ed efficaci, ma se, centrandosi su queste esperienze, continueremo a dire che “anche il PNRR fa cose buone” non riusciamo a far prevalere una consapevolezza fondamentale per noi: per rimettere in crescita il paese è necessario rimettere in crescita la scuola, diremmo anzi tutto il sistema di istruzione, fino all’Università, per far crescere persone che esercitino il diritto e il dovere di contribuire allo sviluppo delle comunità, attraverso anzitutto il senso di umanità e di convivenza tra diversità, il rispetto della conoscenza, in prospettiva, quindi attraverso la partecipazione alla vita culturale e sociale, che significa anche (ma non solo) il lavoro. La scuola, che, per noi, significa sempre “la pubblica istruzione”, è il luogo e il tempo della crescita libera, dove si pratica equità nel diritto all’apprendimento significativo, condivisione di pratiche e di pensiero, costruzione di una cittadinanza piena, intenzionale, fondata sulla convivenza e sulla conoscenza. La scuola che prepara al lavoro è una visione limitata, diremmo anche mortificante, di istruzione.
L'idea di scuola per la società giusta non si realizza con piani di spesa che mettono le istituzioni in condizioni di acquistare oggetti ma non di migliorare il profilo professionale di chi insegna e il diritto ad apprendere e crescere a chi impara. I soldi dati alle scuole per comprare cose creano artatamente falsi bisogni; lo abbiamo visto con le LIM, con i tablet, con le stampanti 3D, subìti, più che acquisiti nello strumentario dei e delle insegnanti. Lo ribadiamo ancora una volta; siamo convinti che ci vogliano investimenti strutturali, permanenti, come ad esempio potrebbero essere quelli per assumere e formare adeguatamente docenti e dirigenti, anziché contrarre il numero delle istituzioni sul territorio.

Bisogna, quindi, risemantizzare il concetto di “innovazione”, giacché possiamo ormai affermare che intendere questa parola univocamente connessa all’aggettivo “digitale” è un’intenzionale deviazione a danno delle finalità della scuola stessa. Un’operazione di distrazione di massa che ormai va avanti con perseveranza da decenni.
Le tecnologie digitali per l’accesso ai contenuti, per la costruzione di informazioni e anche per la loro riformulazione sono parte rilevante della vita quotidiana della società, non ne neghiamo affatto le potenzialità, ma, a nostro parere, trasformarle in una soluzione, in un obiettivo, in un parametro per valutare la qualità dell’insegnamento significa chiudere molte strade di un percorso di crescita che ad alunni e alunne abbiamo il dovere di garantire, e che passa anzitutto attraverso il loro corpo.

Già, il corpo; tornato di moda nel discorso pubblico sulla scuola solo in occasione della pandemia e della DAD, mentre molti pedagogisti e insegnanti, dal dopoguerra ad oggi, hanno fatto di questo elemento ineludibile dell’idea di scuola il centro delle loro sperimentazione e teorizzazioni.
I bambini e le bambine cominciano ad andare a scuola e seguono il loro percorso nel sistema d’istruzione vivendo, contemporaneamente, una crescita biologica e una trasformazione fisica che sono profondamente connesse con il loro percorso culturale; separarli, considerando l’apprendimento una questione mentale, quindi disincarnata e indifferente alle specifiche condizioni fisiche di ogni persona che apprende, è una forzatura tacitamente accettata nella scuola italiana da sempre, e con la esondazione delle tecnologie digitali la smaterializzazione del sapere scolastico è stata rinominata “innovazione”, mentre forse sarebbero più adatti termini come “alienazione”. 
Basterebbe, anzitutto, ricordarsi che anche il pensiero ha una base materiale, un’origine biologica; al contrario, i banchi o le LIM non pensano, non litigano, non sostengono esami. Basterebbe che l’istruzione fosse rivolta a persone intere, per darle significato effettivo, giacchè si partirebbe dalla realtà, per poi immaginare un mondo migliore.
Anche gli insegnanti e le insegnanti hanno un corpo, ed è il loro principale strumento didattico, in ogni ordine e grado. Anche quando si sforzano di essere invisibili, riempiendo la classe della loro forza intellettuale, vera o millantata, sono persone fisiche in una classe formata da altre persone concrete. L’insegnante usa la voce, le braccia, gli occhi; solleva oggetti, cammina; assume una posizione rispetto a tanti altri individui che, a loro volta, hanno una loro materialità vitale. La classe, paesaggio in cui si incontrano persone in carne, ossa e pensiero, non dovrebbe essere vissuta non come uno spazio neutro, in cui per ragioni pratiche si riunisce una sommatoria di individui, ma come un luogo di incontro di persone, che hanno una consistenza e un valore fisico e intellettuale insieme, occupano uno spazio, e sono lì per cercare di sapere insieme.
Si è detto e scritto infinite volte: la classe normale non è quella dei banchi in fila, faccia all’insegnante, e “alzate la mano e parlate uno per volta”; è il modello più diffuso e apprezzato solo perché l’ordine artificiale non compromette e non discute, il pubblico silenzioso e obbediente è più gratificante per chi fa conferenze sulle discipline, anziché insegnare. 
La classe normale è quella in cui ci si ascolta, ci si conosce, si progettano e compiono azioni per costruire la convivenza in apprendimento; si cambia punto di vista sui compagni e le compagne, sull’insegnante, in cui si guarda fuori dalla finestra da diverse angolazioni. La classe normale è quella che esce dall’edificio e si mette in contatto diretto con gli odori della campagna o i miasmi della città, con le distanze tra le case, con la velocità dei mezzi di trasporto, con i suoni ad un concerto o i colori in un museo. La classe normale è quella che conosce il silenzio, l’ascolto, l’immobilità, la concentrazione, così come conosce lo smontare, l’andare, il fare e il rifare.  Bisognerebbe acquisire il dato che il corpo non è solo un problema igienico, né solo un fatto volumetrico. Il corpo, per tutti gli alunni e le alunne, ad ogni età, è fondamento della loro relazione con il sapere, che piaccia o no a tutti gli adulti.
La scuola italiana, tranne rare eccezioni, continua ad essere nemica del corpo, negando l’importanza cruciale nei processi di socialità, conoscenza, cittadinanza. Non entriamo nel merito delle questioni di percezione e definizione di sé che adolescenti in cammino trovano del tutto ignorate, quando non disprezzate o addirittura stigmatizzate, con le conseguenti storture comportamentali acuite da un ambiente sociale e domestico anch’esso profondamento in crisi di competenze educative. Ci basti solo dire che a scuola ci si ostina a perpetuare schemi fondamentalmente centrati alla disattenzione verso la persona che apprende integralmente, anche con il corpo vivo, per inseguire la falsa immagine di una classe “ordinata” in apparenza, e realizzare invece la sostanziale insignificanza formativa. 

E la disciplina? Chiederanno i più. E la sicurezza? Chiederanno i/le dirigenti.

I docenti e le docenti risponderanno (in pochi): anzitutto il tempo. Ci vuole tempo, per abituare le classi ad essere gruppo e non aggregazione amorfa, o brigata, in ogni ordine e grado di scuola. L’anno scolastico è un anno, non un mese, e i cicli scolari sono pluriennali, non annuali: l’idea che il tempo scuola vada affrontato e abitato come un processo, non come una pena da scontare, dovrebbe essere la base della vera alleanza, nella comunità-classe, tra chi insegna e chi impara.
Gli stessi e le stesse docenti (ancora meno) risponderanno: lo spazio! Anche la scuola ha un corpo, una realtà materiale, che oltre ad essere luogo in cui studenti e studentesse di ogni età trascorrono una parte rilevante della giornata, rappresenta lo Stato, l’istituzione che si fa presente e concreta sotto forma di luogo di istruzione. Se si pensa che in molte scuole, il luogo migliore in cui gli alunni e le alunne preferiscono andare per incontrarsi è il bagno, forse ci rendiamo conto di quanta riflessione richiede ancora il concetto di cura dei luoghi come forma quotidiana di educazione.

Come si può liberare l’energia vitale degli studenti e delle studentesse quando si trovano a vivere in spazi gravati da una trascuratezza istituzionalizzata?
Questo aspetto, in particolare, dovrebbe essere oggetto di un altro processo di ricucitura: quello con la componente tecnico-amministrativa delle istituzioni scolastiche. Si tratta di lavoratori e lavoratrici della scuola che rientrano molto raramente nei discorsi sull’istruzione e la scuola, mentre sono figure chiave per la costruzione della comunità, per alcuni aspetti essenziali del rapporto con l’esterno, per la cura degli spazi e la gestione dei tempi. Bisognerebbe ripensare anche la collaborazione tra personale docente e personale tecnico-amministrativo, e destinare fasi di progettualità in comune e piani di formazione, per entrambe le categorie, affinché ciascuna abbia un’idea significativa del lavoro dell’altra, a tutto vantaggio del funzionamento dell’istituzione nel suo complesso.

Ecco, allora forse l’innovazione dovrebbe essere riempita di un significato molto diverso da quello portato dall’aggettivo “digitale”, e interpretata come un progetto democratico di riattivazione della conoscenza a partire dal diritto che ha chi impara, ma anche chi insegna, di essere persona integra, con un’anima viva dentro ad un corpo vivo, con tutti le caratteristiche e specificità di ciascuno/a. Questa visione della scuola porterebbe con sé un certo modo di intendere la vita non solo di una classe, ma porterebbe ad un ripensamento dello spazio dell’istruzione come paesaggio composito in cui ci sono luoghi diversi, diversificati e diversificabili, come dinamica vitale in cui ogni conoscenza da acquisire e sperimentare diventa iniziativa didattica da fare qui o là o spostandosi da qui a là; mettendosi a cerchio, in fila, o schiena contro schiena; usando uno strumento, o due, o imparando ad usarlo perché non l’avevamo mai visto; scrivendo, cantando o stando in silenzio. Ci vorrebbe uno spazio dell’istruzione pubblica concepito come un sistema territoriale in cui la scuola, paesaggio destinato ad esprimere la forza generativa di equità civile e culturale, sia messa nelle condizioni ottimali per interagire dinamicamente con tutti gli altri paesaggi circostanti, prossimi o remoti, tenendo fermo il fine unico della scuola: il diritto di tutte e tutti a costruire le proprie competenze culturali per la cittadinanza.

Quale Piano Nazionale assumerà queste priorità? Quale investimento aiuterà a realizzare questa innovazione? Non diamo risposte, perché non crediamo che ce ne siano di confortanti. Sappiamo per certo che la pubblica istruzione italiana regge perchè è ancora animata da molti spiriti magni, adulti e adulte che conducono il loro percorso di professionisti a scuola tenendo ben presente la complessa realtà, fisica, cognitiva, sociale di tutti gli alunni e le alunne che hanno davanti, che rispettano il sapere e il far sapere; che usano la loro personalità compiuta per dar corpo ad altre personalità in crescita.
Nella peggiore delle ipotesi, confidiamo che questi/e insegnanti continuino, silenziosi e tenaci, a svolgere la loro essenziale azione professionale, in ogni scuola, ordine e grado in cui si trovino. Nella migliore, ci auguriamo che il nuovo anno trovi spazi e luoghi per ristorare questo corpo docente ed irrobustirlo, che consenta alle sue componenti di riconoscersi e di darsi forza a vicenda per realizzare una scuola democratica, autentica. Una pubblica istruzione.  

Scrive...

M. Gloria Calì Insegnante di lettere alla media da oltre 20 anni, si occupa di curricolo, discipline, trasversalità, con particolare attenzione alle questioni della didattica del paesaggio. Direttrice di "insegnare".