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editoriali

18/01/2019

Un disagio doloroso sul fianco sinistro

di Mario Ambel

Mi sto recando a Napoli, dove Giscel e Cidi locali hanno organizzato un seminario di studi su (o contro?) le nuove norme per la prima prova degli esami conclusivi della scuola secondaria di primo e secondo grado. E lo faccio con un forte imbarazzo e senso di quasi rassegnata impotenza. Con le stesse sensazioni ho preparato le slide per l'incontro, che non a caso stamane ho dimenticato (sarebbe meglio dire rimosso) rischiando di perdere il treno.
Questo stato d'animo ha radici profonde che proverò a spiegare.

Anzitutto pesa l'amarezza di essere stato tradito dall'involuzione che ha assunto negli ultimi venti anni l'applicazione dell'autonomia scolastica, trasformando una opportunità di rinnovamento educativo e didattico in una colossale ridefinizione al ribasso del ruolo dello Stato verso una pedagogia governativa di basso profilo.
Per molto tempo la scuola italiana ha sofferto di una sorta di schizofrenia istituzionale: da un lato scriveva "programmi" (da quelli per la media del 1979 a quelli mai partoriti per il riordino dei cicli nel 1999) ricchi di buone intenzioni, dall'altra (attraverso una sostanziale e continua sottrazione di risorse e un maniacale ribaltamento  delle priorità organizzative) creava condizioni strutturali che ne rendevano impossibile l'attuazione, alimentando solo gli insuccessi degli allievi e la frustrazione dei docenti. Ora questa schizofrenia si è ricomposta: dalla metà della prima decade di questo nuovo secolo anche le applicazioni (soprattutto nell'ambito della  valutazione) delle "indicazioni" programmatiche delineano una scuola dal respiro corto e pragmatico, appiattita su un presente per altro insoddisfacente e gravido di incognite.

In secondo luogo mi pesa il disagio di non essere d'accordo quasi con nessuno di coloro (persone o raggruppamenti) che alimentano la scena del dibattito culturale attorno alla scuola e propongono soluzioni.
Non sono di certo d'accordo con i fautori di un ritorno alla scuola del rigore, di una presunta serietà e severità tramite le bocciature, che di fatto significa scuola di quella selezione che è e continuerebbe a essere selezione di classe. Nel senso di classe sociale, non di aula.
Non sono d'accordo con chi, partendo più o meno dalle mie stesse o vicine aggregazioni culturali, politiche, associative, sindacali ha gestito la politica del dopo autonomia asservendo di fatto la scuola a una versione pasticciata e ingombrante di scuola adattiva, neocomportamentista, meritocratica e individualista, anche se infarcita di richiami all'inclusione e alla cooperazione. Una scuola che ha coniugato le competenze solo in salsa produttivistica credendo o fingendo di credere che la soluzione dei problemi suoi e della società stia nella valutazione dei risultati, nei compiti di realtà, nell'alternanza scuola lavoro. Il tutto annegato in una pletora di adempimenti valutativi che nascondono la loro sostanziale selettività sancita dai voti sotto un asfissiante profluvio di descrittori e indicatori spesso privi di senso alcuno e che soprattutto ingabbiano, laddove pensavano di orientarla, ogni seria capacità progettuale, dove ancora persistesse.
Ma non sono d'accordo neppure con chi spera di risolvere i problemi dell'apprendimento e della didattica nell'adozione totalizzante o quasi fideistica di questa o quella metodologia. Sia che si tratti di vecchi miti attivisti o cooperativisti (l'adozione acritica o asservita a logiche dominanti ha portato persino il cooperative learning ad accettare che la valutazione partecipata si conciliasse con la retorica ipocrita dell'oggettività del voto, che i compiti autentici diventassero patetici compiti di realtà o che la ciclica programmazione a ritroso si trasformasse in una imbarazzante derivazione deterministica delle prestazioni dai risultati attesi). Sia che si tratti di speranze un po' ingenue e un po' fasulle di sconfiggere la scuola trasmissiva (intenzione sacrosanta) in una pedagogia del rovesciamento del rapporto spiegazione/studio individuale/ elaborazione condivisa, che rischia di legittimare la riduzione del tempo scuola e trasformarsi in una nuova forma di selezione socio-culturale.
Per non parlare del feticismo acritico e adattivo con cui alcuni affidano se stessi e gli allievi alle magnifiche sorti progressive delle tecnologie, da sempre "nuove" quanto perennemente inadeguate.
Ed infine non sono d'accordo neppure con chi per contrapporsi alla deriva neoaziendalista e competitiva della scuola delle competenze o all'esaltazione acritica dei vari new age pedagogici rivendica giustamente il ruolo centrale dell'epistemologia disciplinare, ma la conduce fino alla anacronistica difesa della "lezione" o delle "conoscenze", al rifiuto del valore intrinseco del pensiero pedagogico se ben costrutto o dell'opportunità di riletture metodologiche e didattiche del modo di essere e fare scuola. C'è, in questo ambito, una particolare accentuazione del disagio, diciamo un malessere di parte, quando il confronto con la componente di questa fazione (per altro la più vicina), quella che potremmo definire neoumanista, attraversa territori amati: la lettura e la scrittura, la competenza metalinguistica, la letterarietà... E taluni finiscono con il legittimare una sostanziale difesa nostalgica e anche un po' restauratrice di vecchi miti cari anche ai fautori della serietà della scuola dei tempi antichi (una sorta di età dell'oro, in realtà da sempre riservata a pochi): per restare all'italiano, la scrittura del tema, il riassunto, la grammatica normativa, non solo l'afflato potente del rapporto con i "classici" ma anche la storia della letteratura talvolta in spregio della dignità del lettore, mentre si cerca di educarne e affinare il gusto estetico e la partecipazione emotiva.

Questo senso di solitudine amara vissuto sul terreno della politica scolastica ha due corrispettivi, uno sovraordinato e uno sottordinato. Il primo riguarda la politica tout court dove il disagio di inappartenenza si traduce nella percezione di una assoluta mancanza di riferimenti politici, di ambito o raggruppamento o fosse ancora fazione, con cui provare la piacevole sensazione della condivisione progettuale e attiva. Il secondo riguarda la didattica dell'italiano e in specie della scrittura e quindi il giudizio sulle "nuove" prime prove, da cui ha preso le mosse il mio ragionamento. Ne parleremo ancora, ma anche su questo terreno sento il disagio di non condividere certo le lamentazioni del Gruppo di Firenze da cui ha preso le mosse la scelta del precedente governo di attivare una Commissione per sanare l'apprendimento linguistico, e neppure i criteri con cui essa è stata costituita, la decisione di partire dall'esame, il modo di farlo, le conclusioni della Commissione, gli esempi forniti... Ma non condivido neppure le posizioni di molti che hanno commentato queste scelte.

Ho usato fin qui la prima persona singolare, ma forse avrei potuto usare un "noi", ancorché sempre più circoscritto.
Sopravvive qualche margine di condivisione. Sul versante dell'esame e della didattica della lettura e scrittura, per esempio, il disagio è condiviso con alcuni gruppi di colleghe e colleghi con cui lavoro a progetti di ricerca e sperimentazione didattica sui rapporti fra comprensione/ riflessione sulla lingua e ri-scritture, nella comune percezione della necessità di rinnovare profondamente le dinamiche, i contenuti e le metodologie dei processi di insegnamento/ apprendimento in campo linguistico, possibilmente andando avanti e non tornando indietro.
Ci accomunano le stesse valutazioni negative sui "nuovi" esami, la scelta delle varie modalità di ri/scritture come sfondo problematico della progettazione in campo linguistico-testuale e comunicativo e alcune opzioni generali di metodologia didattica, in una sorta di ragionevole eclettismo che sappia usare buoni spunti di approcci metodologici diversi piegandoli di volta in volta ai contesti, soprattutto umani, in cui si opera.
Anche dal punto di vista dell'idea di scuola (e talvolta persino di società) ci accomuna un'ansia-desiderio di porre una professionalità riflessiva e pacata al servizio dei processi di insegnamento/apprendimento disciplinari e trasversali a partire dalla natura dei rapporti fra soggetti e oggetti di quei processi e non dei risultati da raggiungere. Talvolta si condivide persino il giudizio su chi mal governa la scuola e il Paese, ma ci si ferma qui. Una delle convinzioni più ferme al riguardo (della politica intendo) è avere una prospettiva di fondo (diciamo l'emancipazione progressiva della specie umana a partire dalla lotta alle disuguaglianze, alle discriminazioni e sopraffazioni) e poi di applicarla al campo di pensieri e azioni in cui si ha la fortuna (in questo caso il privilegio) di lavorare, che è poi anche l'unico in cui si spera di capire qualcosa. O almeno di provare onestamente a farlo!
In fondo non è un caso che questi gruppi di ricerca siano nati e operino nell'ambito di quella parte di associazioni generaliste o disciplinari più insofferenti nei confronti sia della gestione ministeriale e di centro  di questi vent'anni di politica scolastica (anche se o ancor più se è quando agita da antichi sodali) sia di una opposizione (con cui da sempre ci si confronta e  scontra) diciamo di sinistra che giustamente la contrasta rischiando spesso il rifugio in soluzioni anacronistiche o elitarie contro i propri stessi convincimenti.
Perché il disagio che ho qui narrato (fondamentalmente per governarlo e vincerlo) si alimenta del senso di sconfitta e impotenza. Sconfitta per non aver saputo diffondere la nostra idea e le nostre pratiche di scuola oltre cerchie ristrette ad ambiti ideali e territoriali che sono andati via via spegnendosi. Sconfitta per aver dovuto continuare ad assistere a una sostanziale inadeguatezza dei risultati cui giunge la scuola cui si oppongono presunte soluzioni che sono peggio del male. Impotenza nel constatare che la lamentazione sui risultati insufficienti e le soluzioni inadeguate godono talvolta o spesso  di buona stampa e non raramente raggiungono le stanze dove si assumono le decisioni.
È un senso di  impotenza che, in termini cari all'educazione letteraria, potremmo definire come la percezione dell'incapacità di coniugare "materiale" e "immaginario" per offrire soluzioni praticabili di educazione alle competenze culturali e alla cittadinanza attiva non asservita alle logiche dominanti e capace di giudizi critici, pensieri alternativi e azioni altre. Non riuscire a mediare il materiale (senza che diventi adeguamento addestrativo e passivizzante alla realtà) e l'immaginario (senza che diventi fuga o consolazione elitaria) è una responsabilità assai grave per la sinistra. Che ne sancisce e forse spiega la sconfitta e il conseguente disagio.

Tra poco dovrò scendere dal treno. Nel pomeriggio riverserò il testo sulla rivista. Qualche anima generosa esperta e competente di regole della grammatica ne rileggerà e rivedrà la forma.
È stato un viaggio fruttuoso. Fruttuoso, non produttivo: le parole sono cose serie, non vanno abusate o traviate.

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".