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editoriali

29/10/2017

Governare per sommatoria di scelte sbagliate

di Mario Ambel

Il Decreto Minsiteriale sull’“Esame di Stato conclusivo del primo ciclo di istruzione” e il Decreto Ministeriale sulla “Certificazione delle competenze” in uscita dal primo ciclo di istruzione completano (almeno per il primo ciclo) un lungo iter normativo che ha radici ormai lontane. I due DM rendono infatti operativa una prima parte dei provvedimenti previsti dal Dlgs. 62/2017, che a sua volta era un provvedimento “delegato” al Ministero ai sensi della legge 13 luglio 2015, n. 107, la sedicente “Buona scuola”. Ma i pregressi di queste norme risalgono ad ancor prima della 107, visto che, per esempio, neppure in questo complesso iter si è avuto il coraggio  (o se si preferisce la coerenza) di abolire il voto decimale per la valutazione degli apprendimenti disciplinari, introdotto dal dicastero Gelmini con la Legge 169/2008.

É importante ricordare l’iter temporale almeno di quest’ultimo scorcio di vicende normative per sottolineare come ci sia stato tutto il tempo, in questi anni, per discutere dei provvedimenti che erano in preparazione e per cercare di evitare alla scuola danni ancora più seri di quelli che già la difficoltà dei tempi le impongono.
Le associazioni professionali hanno provato a farlo, anche se con risultati assai limitati. La prima sensazione che si ricava dalla lettura dei testi dei due Decreti (rispettivamente il DM 741/2017 e il  DM 742/2017, degli allegati (i modelli di certificazione di
primaria e fine primo ciclo), della circolare esplicativa, della parafrasi riassuntiva sul sito del MIUR nonché della immancabile relativa “infografica” (sic!), ma anche dei solerti copia e incolla di importanti riviste di settore o delle fedeli parafrasi esplicative e interpretative pubblicate su alcuni siti da autorevoli esponenti degli apparati ministeriali [1] … è che si sia raggiunto un punto di non ritorno di quella politica scolastica per accumulo che da anni consiste nell’aggiungere sempre qualcosa nella vana speranza di accontentare tutti e soprattutto di non scontentare qualcuno, senza avere il coraggio di scegliere o di tornare davvero  indietro sui propri errori, in modo da fornire orientamenti e indirizzi coerenti e quindi realizzabili.
È ciò che accade quando gli apparati tecnici e amministrativi,  anziché aiutare la buona politica a compiere scelte coerenti e lungimiranti, si limitano a servire le pulsioni spesso contraddittorie delle cattive politiche. Oppure a sperare -talvolta anche con qualche eccesso di malriposta buona fede, altre volte, forse, con consapevole ambiguità - che parziali correzioni di rotta su norme precedenti francamente inaccettabili e la  giustapposizione di altri orizzonti valoriali e metodologici permetta di modificare le scelte strategiche di fondo.
Tutto sulle spalle dell'autonomia scolastica, ovviamente. E degli allievi.

Qualche pannicello caldo
Alcuni forse pensano che nei due decreti, e in particolare nel primo, siano presenti  novità che ci dovrebbero rasserenare perché vengono incontro a critiche e richieste che abbiamo a lungo sostenuto. Si tratta, in realtà, di interventi su questioni assai gravi, che avevano raggiunto dimensioni del tutto inaccettabili, alle quali si è posto parziale rimedio, pur senza avere il coraggio di compiere il passo decisivo.

Mi riferisco per esempio al ripristino del giudizio in luogo del voto decimale per la valutazione del “comportamento”. Dare un voto in decimi alla “condotta” era stato uno dei repescage gelminiani degli anni Cinquanta su cui era certamente indispensabile intervenire. Ma si doveva avere il coraggio di ritornare all'abolizione della valutazione del comportamento, anziché trasformarla da giudizio decimale a giudizio verbale, oltre tutto esteso ai comportamenti anche esterni alla scuola (un vero paradosso!).  Così concepito, con tanto di richiamo al sempre più abusato concetto di "cittadinanza", il giudizio di comportamento tende  pericolosamente a confondersi con il rendimento in “Cittadinanza e Costituzione” (la cui valutazione confluisce nell'aera storico-sociale), rischiando di mescolare l’approccio conoscitivo con quello comportamentale, aspetto per altro assai preoccupante e sempre più ricorrente, in particolare nelle misure di quest’ultimo ministero.
Il comportamento infatti non dovrebbe essere valutato non essendo oggetto di apprendimento, ma preso in considerazione e perseguito in quanto  conditio senza la quale non sussistono le condizioni stesse per realizzare e quindi valutare processi di insegnamento/apprendimento. E così, è stato, mi pare, negli ultimi quarant'anni del secolo scorso, prima di questo ventennio di parossismi valutativi, che sono arrivati persino a "far media" fra voto di condotta e voti nelle discipline con tutti i risvolti, fra il patetico e il ridicolo, che ne sono seguiti. [2]

Si è  poi provveduto  non alla abolizione ma alla rivisitazione  della norma che prevedeva la bocciatura in caso anche solo di una sedicente insufficienza nella scuola secondaria di primo grado, anche se l’applicazione dell’attuale normativa non è del tutto aliena da qualche complicazione. La bocciatura, in caso di insufficienze, da obbligatoria  è diventata possibile "a maggioranza e con adeguata motivazione". La soluzione vera sarebbe smettere di avere la possibilità di bocciare, ma questo significherebbe concepire e fare la scuola in un modo radicalmente diverso da parte di tutti, ma sappiamo quanto questa ipotesi sia purtroppo lontana non solo dalla realtà, ma anche dalle scelte di coloro (molti insegnanti in primis) che dovrebbero invece prepararla e renderla possibile.

Infine è positivo aver estromesso la prova Invalsi dall’esame di Stato con i relativi equilibrismi di calcolo (nel duplice senso del termine, di procedimento numerico e di considerazione di opportunità). Ma vincolare l’ammissione all'esame alla partecipazione alle prove  è una palese affermazione di debolezza: è infatti una soluzione ricattatoria alla incapacità di gestire le prove e l’intera politica scolastica relativa alla valutazione di sistema, in modo che non siano invise a molti docenti e a molti allievi.  Sull'Invalsi e per un suo proficuo e più sereno inserimento nel sistema scolastico del Paese, sarebbero ben altri i provvedimenti da prendere, a partire da una più volte reclamata sottrazione dell'operato dell'istituto dall'alveo della valutazione a vantaggio della ricerca e dallo scioglimento dell'ambiguità persistente sull'uso dei risultati per la valutazione premiale o punitiva degli allievi, dei docenti e delle istituzioni scolastiche.
Ma i guai sopravanzano questi, oltre tutto parziali e contradditori,
aspetti positivi. E la ragione principale è sempre la stessa.

La valutazione, anzi le valutazioni
Sappiamo che da tempo la valutazione è il terreno che con ossessiva pervicacia è al centro delle pulsioni riformatrici del governo di sistema, anzi dei diversi governi che si susseguono da decenni e che - ciascuno per il tempo che è rimasto in carica - si sono occupati di aggiungere qualche danno alla scuola. Danni che derivano quasi sempre da scelte in tema di valutazione, in virtù di una sorta di capovolgimento della ragione e dell'ordine delle cose che abbiamo più volte denunciato.
Non fanno certo eccezione questi due DM, non a caso frutto della delega sulla valutazione. Già il fatto che siano due è sintomatico della più grave delle contraddizioni che le recenti vicende normative non hanno saputo sanare. Il DM 742 indica infatti i criteri e le procedure della “Certificazione delle competenze” per livelli, che andranno ad affiancare  i risultati dell’esame espressi in voti e giudizi, come indicato dal DM 741. Com'è noto la certificazione delle competenze trae ispirazione e criteri non dalle discipline di insegnamento, ma dalle otto competenze chiave prese di peso dalle "Raccomandazioni" europee in fatto di educazione degli adulti. Si è così innescata una contraddizione ormai insanabile fra valutazione degli apprendimenti disciplinari in decimi (accompagnati ora da giudizi esplicativi, si veda il DM 741) e certificazione delle competenze in livelli di prestazione (DM 742). Si tratta  della coesistenza di due dimensioni assai poco conciliabili della valutazione e dell’idea stessa di scuola: due separati in casa, che tocca alla creatività (o alla sfiduciata rassegnazione) degli insegnanti far convivere nelle scuole. E purtroppo anche nelle classi.
Infatti, voti decimali e certificazione delle competenze non rimandano solo a due diverse modalità di ratificare gli esiti o a differenti prove e criteri per definirli. Se assunti seriamente rimanderebbero  a concezioni della scuola antitetiche, che si chiede agli insegnanti di far coesistere e rendere compatibili.


Ma non ci si ferma certo qui. La scuola userà o subirà  - come si è visto - anche la valutazione discorsiva del comportamento, i punteggi e i livelli Invalsi su tre esiti (o competenze?) disciplinari (o trasversali?), e ovviamente la valutazione dell’IRC o delle attività alternative! Ciascuna con il suo corredo di prove, di criteri e di quadri metodologici di riferimento. 
Del resto è  ormai esemplare la disinvoltura con cui sia le norme approvate, che le sintesi esplicative prodotte dal MIUR o da fonti accreditate riescano a considerare compatibili voti, giudizi, livelli, posizionamenti su scale, osservazioni, misurazioni, descrizioni, classificazioni, narrazioni ...
Anzi, in tal senso appare persino provocatoria la giustificazione addotta dal MIUR per la reintroduzione della descrizione accanto al  "voto" per esigenze di chiarezza e trasparenza:

“Le scuole, per rendere più completa e chiara la valutazione anche alle famiglie, dovranno accompagnare i voti in decimi con la descrizione del processo e del livello globale di sviluppo degli apprendimenti raggiunto”.

Ma non era proprio per esigenze di trasparenza nei confronti dei genitori che dalla “casalinga di Voghera” in poi si è giustificato il ritorno dai giudizi a modalità via via più sintetiche e “oggettive”, fino al voto? 

Una grave responsabilità

Dall’insieme di queste considerazioni, appare sempre più evidente quanto sia stato grave non avere avuto la coerenza scientifica e il coraggio politico per abolire la valutazione decimale, nel passare dalla versione delle Indicazioni del 2007 (frutto di esperienze trentennali di scuola senza i voti) alla versione del 2012 (rielaborata dopo che i voti erano stati reintrodotti). È  stato grave da un lato perché la permanenza della valutazione decimale, oltre che riproporre situazioni al limite del patetico nella determinazione del voto finale, rende di fatto vano ogni tentativo di riorientare verso l’attenzione al processo le procedure valutative. È sufficiente leggere l’art. 13 del DM 741 e la circolare applicativa, la quale a sua volta inevitabilmente deve mettere le mani nell’acqua sporca della quotidianità, per ritrovare tutta una serie di deprimenti disquisizioni sulla legittimità o meno dell’uso dei decimali e delle frazioni di voto, procedura valutativa che rappresenta notoriamente uno dei momenti meno nobili e a tratti patologici  della scuola.

Anziché promuovere e alimentare una cultura della valutazione degli apprendimenti e degli esiti conclusivi attendibile ed efficace, frutto di scelte pedagogiche e docimologiche coerenti, si è preferito affidarsi a una sommatoria di criteri frutto di pressioni ideologiche spesso anche opposte. Ci troviamo così a dover disporre di due apparati valutativi carenti in sé e contraddittori fra loro: uno anacronistico e falso (i voti decimali per gli apprendimenti disciplinari), l'altro fragile e solo in parte reso attendibile (i livelli di certificazione delle competenze "trasversali").

Reagire con fermezza allo sconforto

Come si vede siamo invece di fronte a una sommatoria compulsiva, a una sorta di pietraia valutativa, in cui i criteri e gli strumenti  di valutazione sono il risultato della deriva morenica dei detriti portati a valle da ogni passaggio ministeriale, che ha lasciato ciascuno il suo sassolino. O il suo macigno. Nessuno davvero emendato o escluso: uno sommato sull’altro, senza nessun rispetto non solo per la coerenza dell’insieme, ma soprattutto per chi la deve applicare (i docenti) o subire (gli allievi).
E a tale sommatoria di criteri valutativi corrisponde un altrettanto incontrollato proliferare di “prove” e di quadri programmatici e teorici di riferimento. 
Tutto ciò non accade certo a caso. Altrove proveremo ad analizzarne e fornirne qualche spiegazione, anche se non è certo la prima volta che si prova a farlo, ma resta l'amarezza di una crescente fatica quotidiana, aggravata dalla consapevolezza che molte delle contraddizioni contro cui combattere giungono da contesti e realtà che dovrebbero invece orientare (non disorientare) e sostenere (non contrastare) il lavoro dei docenti e delle scuola.

Ad essere sinceri molti docenti sono anche stanchi di dover da decenni fronteggiare scelte sbagliate di politica scolastica,  di malgoverno del sistema, ancorché in "alternanza". Vorrebbero poter ricominciare ad occuparsi soltanto di come far meglio scuola, e magari essere aiutati a farlo! È davvero snervante, da decenni, diciamo dalla legge sull'autonomia in poi, dover perennemente rintuzzare o sopportare gli effetti disastrosi della cattiva politica scolastica. È come se la scuola dovesse scontare una colpa non sua: come se aver ottenuto l'autonomia istituzionale dovesse essere costantemente scontato dal difendersi da norme che impediscono di farne un buon uso. O che inventano farraginosi dispositivi valutativi che invece che da contrappeso all’autonomia, ormai gravano come una ponderosa zavorra.

In una simile situazione, difficilmente la scuola italiana, in un momento assai complesso e a fronte di compiti forse tra i più gravosi e impegnativi della sua storia non solo recente, riuscirà ad assolvere al proprio mandato.
Per riuscirsi, la scuola e soprattutto gli insegnanti dovranno saper far fronte a molte avversità, conquistare e dimostrare una coerenza assai più solida e resistente di quella di chi li governa.
Dovremo ricominciare a studiare, a sperimentare. E forse anche a disubbidire, come forma estrema di contestazione della procedura, perché ormai sono troppe le norme sbagliate che intralciano il quotidiano lavoro della scuola o che lo affaticano in fardelli assai poco funzionali al suo effettivo funzionamento.

E non ci conforta certo sapere che in questi anni si è cercato di mettere qualche toppa a scelte ancora più deleterie fatte in passato o che ci attendono in futuro. Forse anche per questo è forte la delusione (talvolta la rabbia) nel pensare a quanto si sarebbe potuto e dovuto fare in questa stagione per restituire coerenza e dignità alla scuola. O quanto meno per evitare di legittimare le scelte che gliel’hanno sottratta.

 

Note

1. Si veda, per esempio, Franca Da Re, "I nuovi decreti sulla valutazione", in "Scuola7", Tecnodid, n.62, p.1.
2. Se ne legga uno squarcio seppure datato ai tempi della serietà gelminiana: Anna Maria Bellesia, "La telenovela del voto di condotta", in "La Tecnica della Scuola", 21.05.2009; da allora in poi le cose non sono certo migliorate!

 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".