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editoriali

30/06/2020

Tre idee di scuola (e di societĂ )

di Mario Ambel

Semplificando un po’, ma neppure troppo, potremmo dire che la graduale e contraddittoria uscita dall’emergenza covid-19 lascia intravedere il confronto fra tre idee di scuola (e di società).

Vediamole sommariamente. 

a) La prima, che chiamerò  dell’innovazione adattiva. È una ipotesi che si fonda sulla progressiva espansione dei processi  di innovazione tecnologica e strumentale e di digitalizzazione del sistema, attuati anche indipendentemente dai condizionamenti prodotti dalla proprietà e i fini commerciali e politici delle piattaforme utilizzate, dalla natura degli ambienti di apprendimento allestiti e delle relazioni interpersonali che innescano e infine dagli stessi processi cognitivi e metacognitivi  generati o  indotti. È la scuola funzionale alla formazione controllata del capitale umano per incrementare lo sviluppo economico, che implica una sostanziale adesione al modello economico e sociale esistente, cui addestrare poche eccellenze in grado di consolidare e gestire i processi nei diversi ambiti di realizzazione e una gran massa di esecutori più o meno consapevoli.  Meglio meno, che più.

b) La seconda, che chiamerò della acculturazione emancipante. È una ipotesi che si fonda sul miglioramento delle strutture esistenti, per fare delle istituzioni scolastiche i luoghi in cui attuare processi di insegnamento/apprendimento di tipo cooperativo, laboratoriale e inclusivo, finalizzati all’emancipazione individuale e collettiva di tutti e di ciascuno, attraverso una complicata calibratura fra istanze comuni egualitariste e scelte individuali di affermazione cosciente di sé. È la scuola funzionale allo sviluppo umano, alla crescita sociale, ai processi di acculturazione differenziata, alla resilienza consapevole e al progresso e alla trasformazione della realtà esistente. Si fonda sull’esercizio e l’incremento di competenze culturali di cittadinanza, che consentano a tutti e a ciascuno di essere cittadini coscienti e attivi.

c) La terza, che chiamerò dell’educazione diffusa. È una ipotesi che si fonda sull’ampliamento e l’estensione dei luoghi, delle opportunità e delle risorse ambientali e culturali da coinvolgere, chiamando l’intera collettività territoriale a essere partecipe e protagonista dell’azione educativa e aprendo a una pluralità di soggetti esperti nella conduzione di processi nei quali istruzione ed educazione si rimescolino  per rispondere alla complessità del mondo in cui si dovrà vivere. È la scuola che nasce dalla necessità di intervenire sulle aree di maggior difficoltà e degrado, per sanare i gap socio-culturali esistenti, che creano profondi disequilibri e disuguaglianze. È la scuola funzionale al contrasto alle vulnerabilità, fragilità e disuguaglianze di ogni tipo e natura, per combattere anzitutto discriminazioni e selettività e per costruire comunità consapevoli e orientate alla salvaguardia dei beni comuni.

Ciascuna di queste idee di scuola presenta luci e ombre, ha la sua storia, le sue teorizzazioni, i suoi  - come piace dire oggi  - “portatori di interesse”, ovviamente quasi mai disinteressati. A ciascuna di queste idee di scuola corrispondono idee e orientamenti politici, più o meno ben demarcati. A ciascuna corrispondono storicamente anche punti di riferimento economici e politici ed erogatori di fondi, pubblici, privati o misti: il mercato, lo collettività, la comunità.

A ciascuna di queste idee corrispondono anche scelte conseguenti sull’uso da fare degli investimenti eventualmente distolti da altri settori e dirottati sull’istruzione pubblica per la riapertura a settembre. Difficile invece pensare a un piano che intenda la scuola pubblica davvero come priorità strategica di investimento culturale e politico. È una ipotesi che, al di là delle chiacchiere preelettorali, nessuno dimostra di voler realmente adottare da molti anni.

Escludo dal panorama sia posizioni anteriori e tuttora forti (per esempio la scuola di derivazione gentiliana della trasmissione selettiva di sapere), sia forme di ibridazione delle diverse opzioni (per esempio le ipotesi di solidarietà interessata), oppure ipotesi dallo spiccato orizzonte etnico-valoriale (per esempio scuole religiose cattoliche o coraniche oppure le scuole identitarie  o a impronta localista o neonazionalista).

Vorrei invece ipotizzare due possibili scenari non propriamente positivi, che in entrambi i casi escludono il prevalere in assoluto di una delle tre opzioni, ipotesi che credo assai poco probabile, se non altro perché l’alto tasso di frammentarietà, conflittualità, episodicità e caducità  che caratterizza le scelte politiche contemporanee ne impedisce l’opzione e  il perseguimento di lungo periodo.

La prima opzione - che non mi auguro - è il procedere in un inconcludente mélange di queste tre ipotesi, che finisca con lo snaturare l’identità e le residue credibilità ed efficacia del sistema scolastico. È più o meno ciò che sta accadendo, con oscillazioni verso la prima ipotesi, da circa vent’anni.

La seconda opzione -  che mi auguro ancor meno- è l’adozione di tutti e tre i modelli per fasce socioculturali di utenza differenti: a) una scuola per le eccellenze, che andrebbe progressivamente privatizzandosi, nella cultura di riferimento e nel sostegno economico; b) una scuola pubblica impoverita, banalizzata e banalizzante, a grande diffusione e di scarsa qualità; c) una scuola per la lotta alla povertà educativa nelle aree caratterizzate da forte degrado socio-ambientale.

Che cosa sarebbe invece auspicabile? Che fosse possibile ridare alla scuola pubblica una sua forte identità istituzionale, orientata a una aggiornata e diversa coniugazione del mandato costituzionale. Che ritengo coincida con l'ipotesi b), anche perché le altre due, se esasperate, conducono a forme complementari di snaturamento del mandato costituzionale della scuola.  Io credo che ridare nuova consistenza istituzionale alla scuola pubblica sia possibile non tanto attraverso la coesistenza delle tre diverse ipotesi, ma attraverso la consapevole scelta della direzione verso la quale scegliere e farle procedere. Credo che si dovrebbe lavorare  a un rilancio e a un consolidamento della acculturazione resiliente ed emancipante, attraverso il freno alle propensioni per l’innovazione adattiva e adottando invece modalità di coerente, equilibrata ed efficace attenzione ad aspetti di educazione diffusa, purché ciò avvenga nella chiarezza e nella collaborativa separatezza dei compiti e delle responsabilità dei differenti soggetti che vi concorrono.

Non è una strada semplice da percorrere perché spesso accidentata da incomprensioni reciproche, resistenze passive e forti strumentalizzazioni. E soprattutto da una totale confusione dei fini e delle strategie adeguate per perseguirli, oltre che da una sorta di dannazione emergenziale, che ne fa territorio per il perenne inseguimento di un disagio in fondo funzionale all'esistenza stessa e alla conseguente marginalizzazione dei soggetti che lo dovrebbero combattere. Ma le buone intenzioni politiche e sociali, quando sincere e sostanzialmente disinteressate, che animano spesso gli interpreti di queste istanze dovrebbero e potrebbero avere il sopravvento. In senso politico, intendo.

Certo appare più arduo, anche se prioritario, riconvertire l'impiego delle risorse tecnologiche, per orientarle al bene comune,  alla democrazia, alla crescita reale del lavoro e delle professionalità e al progresso umano, perché sarebbero necessarie opzioni politiche più coraggiose e radicali, per arginare i processi di  scadimento della funzione pubblica e di espropriazione dell'universo dei diritti individuali e collettivi da parte del capitalismo finanziario e di sorveglianza, e controllo sulla comunicazione, le idee, gli spazi di libertà e di vita. Certo bisognerebbe almeno non cedergli anche la scuola e la cultura, come molti adepti della innovazione adattiva stanno invece facendo. Magari senza neppure rendersene conto. E con la conseguenza di sfibrare l'opposizione alle pratiche dominanti in sterili contrapposizioni  fra fautori  e oppositori spesso egualmente inconsapevoli della reale posta in gioco.

E certo la scuola pubblica, per riconquistare appieno la centralità che le compete nei processi di acculturazione e progresso civile del Paese, per essere nuovamente protagonista di uno scarto storico della crescita della collettività nazionale  dovrebbe poter uscire dalla fase di progressivo impoverimento di risorse e credibilità cui è stata sottoposta negli ultimi decenni, liberarsi dalle pastoie di una politica ministeriale tutta orientata e distorta dalla paranoia della valutazione e di una rendicontazione sociale del proprio operato perennemente fragile e difensiva, ma anche e soprattutto saper esprimere, realizzare e difendere una progettazione curricolare e culturale più solida ed efficace, più adeguata ai tempi, ma meno frastornata da mode transitorie e improvvisazioni metodologiche di breve respiro e ambigua consistenza.

Va da sé che queste scelte orientano anche la direzione, la natura e gli ambiti di investimento delle ipotesi di riapertura delle scuole per settembre. Con precise scelte di campo sulle decisioni da prendere. L’idea a) prevede un incremento di investimento nei processi di digitalizzazione e formazione delocalizzata; l’idea b) un forte investimento sulla riqualificazione degli istituti scolastici e delle loro strumentazioni;  l’ipotesi c) una proliferazione della ricerca di spazi altri, esterni, alternativi. 

Con una esigenza di fondo: che nessuno usi l’emergenza in modo strumentale per farla diventare la nuova normalità e soprattutto che la si smetta di saltabeccare da una soluzione all’altra, senza aver chiaro verso quale direzione si intende andare. Si sta invece affermando la retorica della "nuova normalità", che significa di fatto la stabilizzazione dei territori di interesse e di esercizio di potere che alcuni possono aver individuato tra i meandri dell'emergenza.

Su questa strada non sono da sottovalutare i vincoli “europei”: pare che le erogazioni di denaro tendano a privilegiare le ipotesi a) e c). Sarebbe un peccato. Perché sarebbe l’ennesimo caso in cui le scelte del neoliberismo dal volto più o meno dis/umano dell’UE finiscono col delegittimare e impoverire le istituzioni democratiche, a tutto vantaggio della crescita di tentazioni e pulsioni  neonazionaliste. O come si dice oggi, sovraniste.  Come accade da vent’anni, e si deve fare una gran fatica ad arginarle. 

L’emergenza pandemica ha molto rimescolato le carte, ma a settembre, anzi già adesso, la direzione in cui si deciderà di andare sarà decisiva. E la sopravvivenza o il rilancio o la fine della scuola pubblica, così come l’abbiamo intesa e cercata di realizzare e far crescere  per settant’anni, è all’ordine del giorno di questa anomala estate. Ancora distanziata nelle pratiche di contatto umano, ma molto ravvicinata in quelle di controllo e scadimento della loro consistenza futura.

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".