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editoriali

21/02/2015

Ma il problema non è la lingua!

di Mario Ambel

In questi giorni è pervenuta nella mia casella di posta una mail che inizia così:

"Ciao Mario,
Infarcire discorsi politici e comunicazioni amministrative, resoconti giornalistici o messaggi aziendali di termini inglesi che hanno adeguati corrispondenti italiani rende i testi meno chiari e trasparenti, meno comprensibili, meno efficaci."*

L'incipit introduce a una petizione dal titolo Un intervento per la lingua italiana. #dilloinitaliano che, come si legge sul sito che la raccoglie, è promossa "per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più, per favore, in italiano."

Più precisamente  la  petizione è rivolta all'Accademia della Crusca: "Chiediamo all’Accademia della Crusca di farsi, forte del nostro sostegno, portavoce e autorevole testimone di questa istanza presso il Governo, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese",  affinché usino di più la lingua italiana anziché infarcire i loro (e quindi i nostri) discorsi di inutili parole straniere.

L'appello è stato immediatemente sostenuto da Massimo Gramellini su La Stampa e da Michele Serra di la Repubblica.   Se ne compiacerà (o forse dispiacerà) Ermanno Testa (a lungo direttore di insegnare e in nulla parente della più nota Annamaria Testa promotrice dell'attuale appello) che fin dall'ottobre del 2013, sulla home page del sito nazionale del Cidi, aveva sollevato non dissimili questioni: Quale futuro per la lingua italiana? , certo potendo disporre di minori bocche di fuoco mediatico...

Ora come allora,  questi appelli alla difesa della nostra lingua mi trovano e mi lasciano assai perplesso. Posso certamente condividere il fastidio per l'abuso di lessico straniero, ma dubito che in tal modo si colga il centro della questione.

Tutti sappiamo  bene (io l'ho imparato tanti anni fa nei corsi di Storia della lingua all'Università di Torino, proprio dalle lezioni di un allora giovane assistente universitario oggi Presidente della Crusca - Claudio Marazzini - e dal suo e comune  - si parva licet - Maestro, Gian Luigi Beccaria e poi dai libri di Tullio De Mauro) che  i cambiamenti linguistici li fa l'uso e ben raramente sono indotti da norme, divieti, appelli, abiure, o lodevoli difese di questa o quella peculiarità linguistica. Che a esagerare, si sa bene, si ammantano di quel fastidioso retrogusto di sciovinismo. E di stantio.

Come la promotrice della petizione  potrebbe a buon diritto insegnarmi, questo è un mondo dominato dalla comunicazione, dal marketing, dall'enfasi della sovraesposizione mediatica. E allora, mentre dubito che l'autorevolezza dell'Accademia della Crusca possa incidere gran che, è probabile che una buona campagna mediatica e pubblicitaria possa convincere qualcuno a fare un uso più misurato, cauto e nel complesso intelligente delle lingue e delle relative parole.

Ma forse si rischierebbe di ottenere un risultato solo di superficie e forse persino un po' ipocrita. Provo a spiegarmi con un esempio che riguarda proprio una delle tipologie di destinari dell'appello di Annamaria Testa: i politici, anzi, di più, l'area di Governo.

Il sottosegretario alla pubblica istruzione Davide Faraone ha recentemente affermato che "La buona scuola" (un documento dove oltre a fare abuso di termini stranieri si fa anche un disctreto scempio dell'idioma gentile), in quanto marchio, "è diventata un brand in grado di attrarre su di sé l’attenzione dei privati". E il sottosegretario se ne compiace: "Vuol dire che è chiaro a tutti che è sul futuro del nostro Paese che dobbiamo investire e che siamo chiamati tutti quanti a farlo perché la scuola è società e ne siamo tutti responsabili". Da Faraone #2: La Buona Scuola: il nuovo corso sta iniziando (sic!, come si scriveva un tempo:  è latino).

Mi permetto di osservare che il problema sollevato da questa affermazione del sottosegretario non è linguistico, ma politico e culturale, per dirla in altri termini il problema non sta nella forma, ma nella sostanza. Il problema non è che egli usi brand anziché - che so - "marchio di fabbrica", "prodotto", "simbolo", "disegno", "logo " (e questa che lingua è? Non sarà mica greco?).
Il problema non sta nell'uso della parola brand, ma nella gravità del concetto espresso e nel fatto che sia pronunciato dal sottosegretario di quella che un tempo era in questo Paese la scuola pubblica (un vecchio brand postresistenziale!). Il problema non è la legittimità dell'uso della parola, ma del contenuto che esprime! 

Anzi, penso che dirlo in inglese da parte del sottosegretario Faraone sia nel complesso più coerente e leale, meno ipocrita che se avesse usato una terminologia nostrana e figlia dello Stato di diritto, di natura costituzionale. Quell'uso, invece, rivela la cultura aziendalista e neoliberista di cui il sottosegretario Faraone è più o meno consapevole portatore. Con quella parola egli si stacca dall'alveo da lui ritenuto ideologico della difesa scuola pubblica di stato, e si butta nel pragmatismo neoriformista di cui è infarcita la "Buona scuola". 

Giusto quindi che si usi  quella parola, perché rivelatrice del pensiero che lo sorregge. La soluzione del problema sta nel rifiutare e combattere le idee, non le parole che le simboleggiano. 
La civiltà cammina perché non si adottano le idee sbagliate e perniciose, non perché si rifiutano di usare o si traducono i concetti che le esprimono. Il linguaggio di questo Governo è ricco di parole derivate dalla cultura economica, commerciale, manageriale, che sono in inglese come la cultura e gli orientamenti che esprimono. Talvolta mi darebbe più fastidio se fossero espresse in italiano! In fondo che la "Buona scuola" sia definita un "brand" è molto più coerente che definirla un progetto di riforma della scuola!

E poi, sia detto per inciso e in coda, visto che oggi è il 22 febbraio, ho appena finito di ascoltare la seconda parte dell'intervento del Presidente del Consiglio che presentava le linee di indirizzo della "Buona scuola": a parte l'ormai consolidata difesa del merito,  la fiducia messianica nella valutazione e la formidabile idea di assimilare la scuola pubblica alla Chiese e agli Enti che già sono beneficiari di un quantum per mille, nel discorso spirava molta più educazione alla cittadinanza che marketing. Forse i rappresentanti del Governo dovrebbero mettersi d'accordo con se stessi o forse Matteo Renzi non ha ancora avuto tempo di leggere la "Buona scuola" per intero, perché lì delle idee che esprimeva oggi dal palco non c'è davvero traccia.
Nè in italiano né in inglese. A meno di avere idee assai diverse della "cittadinanza" (citizenship).


*PS. La mail mi deve essere arrivata perché negli stessi giorni ho sottoscritto sulla stessa piattaforma una petizione di Torino Rete Libri, che anche insegnare ha promosso, per la difesa e la valorizzazione delle biblioteche scolastiche e in generale per la diffusione di buone pratiche di lettura e ricerca nella scuola. Questa petizione, di cui parleremo ancora nei prossimi giorni, è raggiungibile su Per leggere e fare ricerca nella scuola italiana come in Europa. È stata messa in rete lo stesso giorno di #dilloinitaliano, ma non può ovviamente contare sullo stesso battage: non ha nemmeno un hasthag! E quindi ha bisogno del vostro appoggio!

 


Immagine a lato: da R. Hein, 9 Steps to Build Your Personal Brand (and Your Career), www.cio.com.

 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".