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editoriali

25/08/2016

Quei ragazzini di Amatrice

di Rosanna Angelelli

Quasi cinquanta anni fa, passai il mio primo anno di insegnamento ad Amatrice: supplenza annuale su nomina di preside. Questa preside, a me fino ad allora del tutto ignota, era la zia di una mia carissima compagna di università ed era alla febbrile ricerca di coprire l’organico della sua scuola (una media) situata in questo luogo del Lazio così remoto. Era novembre e, come capita ancora alla scuola italiana,  le classi non erano tutte coperte: andava a insegnare ad Amatrice chi viveva nel Reatino, ma dopo un anno, tutti se ne partivano per via del clima (neve e diversi gradi sotto zero fino ad aprile), della difficile situazione viaria (la Salaria si strozzava a un certo punto ed era rischiosa per via del ghiaccio) e di svaghi inesistenti (solo la tv in casa e nei bar). Io non ero ancora laureata (lo sarei stata a dicembre) ed ero del tutto incerta sul mio futuro: ricerca o insegnamento? Ero stanca dell’aver dovuto esaurire in tre anni gli esami del corso, per via di una borsa di studio molto severa - ero diventata quasi una macchina-, mandai così un curricolo per certi versi curioso. Con i voti degli Esami di maturità, di quelli del corso di laurea – eccellenti - c’era anche un attestato di una mia piccola attività commerciale del tutto ignota alla mia borghesissima famiglia, che se ne sarebbe senz’altro scandalizzata: vendevo, con discreto successo finanziario, una nota enciclopedia per bambini. 

La preside, una donna semplice e intelligente, quando mi vide si preoccupò per due motivi: il mio aspetto quasi infantile; gli studi classici, che mi avevano dato competenze culturali a suo parere troppo impegnative per il livello della “sua” scuola. Su una cosa aveva ragione, su un’altra no. I ragazzini mi amarono subito: incarnavo per loro, per via anche di un cerchietto di velluto che mi fermava i capelli, una specie di principessina da vagheggiare tra rossori e allusioni maliziose, cui non prestavo alcuno spazio.

Mi stupisco ancora dell’abilità con cui frapponevo, se necessario,  una distanza siderale tra me e loro. Figlia dell’idealismo, diventavo, attraverso la cultura, un puro spirito. Loro erano per lo più contadinelli, venivano a scuola spesso ubriachi (per sopperire al freddo e alla esiguità dei loro poveri panni), ma c’era un fervore da parte loro, e dei loro genitori, di “migliorarsi” attraverso la scuola che non avrei più trovato in città. Si mettevano a tua disposizione, ci credevano, ti donavano il loro mondo, la loro cultura sugli animali, sulla cura dei campi. 

Le difficoltà mi vennero dalla mia cultura, ma ormai io ero molto motivata. Quegli occhi brillanti, quelle mani gonfie di geloni, quegli scherzi un po’ spavaldi, quella forza guerriera appartenente a terre a lungo depresse ma piene di dignità mi avevano conquistato. Sì, mi dissi, voglio fare l’insegnante. E così presi a tradurmi, a tradurre quanto sapevo, in un linguaggio semplice, piano, accogliendo le loro espressioni dialettali, mescolandomi con le loro voci, ritagliando per loro nuovi contenuti, animando il passato con il presente: finalmente con la realtà.

Una decina d’anni fa sono tornata da turista ad Amatrice, con vivo piacere e un certo tremore: l’ho trovata non più pittoresca nella sua povertà, ma aggraziata, con le casettine del Corso Umberto tutte intonacate e colorate, le due chiese restaurate nei loro antichi arredi e begli affreschi. Ma in  fondo al corso non c’era più il “cantinone”, dove noi giovani insegnanti stanziali non solo mangiavamo meravigliose fettuccine e profumate salsicce, ma vi passavamo anche i pomeriggi più freddi a studiare, a correggere i compiti, a ridere e a discutere con i locali bevendo vino schietto. Istintivamente ho cercato di individuare al bar, nei pressi della scuola, dell’ospedale -un po’ decentrato, ma presidio prezioso per una comunità così estesa e isolata-, le tracce di un sorriso, di uno sguardo, di uno sghignazzo di “quei” ragazzini.

Oggi quei ragazzini sono dei nonni, forse degli zii, sottoposti a una prova dolorosissima: la perdita del proprio Paese, forse dei loro figli o dei piccoli nipoti. Ne sono profondamente addolorata. 

 

 

Scrive...

Rosanna Angelelli Di formazione classica, già insegnante di materie letterarie nei licei, è stata per anni redattrice di "insegnare".