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editoriali

01/10/2022

La scuola è politica?

di M. Gloria Calì

Si può pensare alla scuola, nel sistema repubblicano italiano, con una duplice divergente funzione: si può attribuirle un ruolo “economicistico” di “preparazione” (si dice spesso che uno studente è “ben preparato”, nel linguaggio comune) al lavoro, alla formazione avanzata… oppure le si può attribuirle un ruolo sociale, cioè quello di realizzare le condizioni affinché la Repubblica stessa rimuova gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. Si può cioè pensare alla scuola come strumento di sviluppo economico o come struttura portante della società civile.

Le due visioni non sono compatibili: o si sceglie di spingere avanti alunni e alunne, o si sceglie di spingerli tutti, tutti insieme. O li si appiattisce in una specie di razzo che li spara nel loro futuro, o li si fa vivere nel loro presente, accompagnandoli in una costruzione di saperi con l’unico obiettivo di “saper stare al mondo”, mettendoli nelle condizioni di essere, di scegliere, liberamente.


In questa seconda opzione lo stare al mondo implica anche la possibilità di dare un contributo anche produttivo alla collettività, scegliendo un’attività lavorativa che sia gratificante dal punto di vista personale ed economico, ma la finalità professionale non è l’unica, né la prioritaria. Scegliere di fare una scuola per la cittadinanza significa partecipare alla vita scolastica con la consapevolezza chiara di dover realizzare l’articolo 3 della Costituzione.

La scuola “che prepara” anticipa i tempi di ogni passaggio di crescita culturale, spingendo alunni e alunne con ogni mezzo verso una direzione che gli impedisce di vivere con pienezza la progressione normale dell’età, imponendo una dimensione adulta precoce (basti pensare alla presenza del termine “imprenditorialità” nelle certificazioni delle competenze). Questo tipo di scuola è stata progettata e finanziata con ogni mezzo da governi (ormai la serie è lunga oltre due decenni) che non si fanno carico prioritario di questioni come “decarbonizzazione” o “emergenza climatica”, “analfabetismo funzionale”, “dispersione”. Tutte le somme di denaro, spesso ingenti, elargite alle scuole devono servire per comprare, allestire, formare malamente, mai che si riduca il numero di alunni per classe, mai che si generalizzi il tempo pieno su tutto il territorio nazionale, mai che si costituiscano nelle scuole presidi stabili di ricerca e sperimentazione per la didattica, giacché è la ricerca didattica che “fa” gli insegnanti.

Il sistema scuola italiano che è nato per “rimuovere gli ostacoli” e che per i primi decenni della sua vita ha lavorato in questa direzione, ad un certo punto ha cambiato, forzatamente, direzione: prima i tagli della così detta “riforma Gelmini”, poi, negli ultimi anni, al contrario, consistenti finanziamenti che hanno “drogato” il sistema d’istruzione creando falsi obiettivi, da perseguire con falsi strumenti, incentivando una corsa alla “crescita” intesa come spinta all’individualismo competitivo, che genera soggetti alla perenne ricerca di un primo posto, sia tra i docenti che tra gli studenti.  

Chiave essenziale di questo processo è stato un intenzionale orientamento preciso del termine “innovazione” nel senso della modernità digitalizzata e acritica, senza pensare che essere innovatori oggi nella didattica significa creare studenti e studentesse che vivono il tempo scuola come esperienza unica e insostituibile di crescita culturale e sono in grado, domani, di essere cittadini attivi e consapevoli, con o senza smartphone.

La cittadinanza democratica è vitale solo se la diffusione della conoscenza è centrale negli assetti sociali: basta guardare i dati sull’affluenza alle elezioni negli ultimi anni, dove la percentuale di coloro che non ritengono il voto essenziale aumenta in modo preoccupante.
In questo scenario, l’insegnante dovrebbe chiedersi da che parte vuole stare, che tipo di scuola vuole fare, poiché è senz’altro vero che la scuola è fatta da tante professionalità che si integrano, ma è certo che chi va in classe realizzando un modello di insegnamento/apprendimento, quindi portando con sé un’idea di società civile a cui partecipare, è soltanto il docente. 

Le ore di lezione in classe sono lo spazio della Costituzione, in cui l’adulto progetta e realizza un mondo culturale per allievi e allieve in cui ciò che resta nella loro personalità è un patrimonio di metodi, di chiavi di lettura, di passioni, di conoscenza di sé e del mondo.

In questo, le discipline hanno un ruolo fondamentale, giacché concorrono, ciascuna con il proprio linguaggio, a costruire una complessità di lettura e rapporto con il reale che nessuna “scuola della strada” o “agenzia formativa privata” può alimentare. D’altro canto, le aree di connessione tra le discipline medesime consentono spazi di creatività nell’apprendimento, di sfida cognitiva, di moltiplicazione delle problematicità. Da questo punto di vista diventa essenziale la progettazione condivisa e la cooperazione didattica tra colleghi.
L’uso e la pratica delle discipline sono terreni privilegiati in cui la scelta di cui dicevamo sopra si realizza. Se si sceglie di praticare la scuola della “preparazione”, le discipline diventano serbatoi da cui riempire contenitori. Se, invece, scelgo la scuola della cittadinanza, faccio in modo che le discipline diventino campi di esperienza, come si dice alla scuola dell’infanzia: spazi e tempi in cui contenuti e procedure si mettono al centro di percorsi scolastici attivi, in cui non solo si agisce il sapere ma si ragiona sui propri apprendimenti. Se questa esperienza dei saperi diventa consapevole, crescono la competenza, le passioni, la responsabilità collettiva.

L’esperienza dei saperi che si fa a scuola è unica e non è replicabile, perché l’apprendimento avviene secondo principi del tutto specifici e non scindibili: la dimensione collettiva e quella pubblica. Queste due caratteristiche strutturali conferiscono al sapere scolastico una funzione irrinunciabile nella costruzione della personalità dei minori che le sono affidati, perché sono opposti e complementari rispetto alla dimensione domestica. Sono arcinoti i danni che si determinano quando la dimensione privata vuole sopravanzare la dimensione pubblica, o quando i minori vengono sottratti intenzionalmente ai percorsi scolastici ordinari. Sappiamo bene che dove c’è poca scuola il problema non è la povertà linguistica o cognitiva: è il tessuto sociale e produttivo delle comunità che si strappa, impedendo le condizioni di sviluppo.

Gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli del ruolo che assumono insieme all’assunzione in ruolo, e usare la costruzione culturale in senso collettivo e pubblico, non individualistico e privatistico. Gli alunni e le alunne di una classe non sono singoli, ma membri di una comunità di sapere: ogni scelta curricolare dovrebbe condurre verso questa costruzione, in ogni ordine e grado. Nelle aule non si può insegnare l’educazione civica: si deve fare esperienza di cooperazione, si deve poter avere uno spazio in cui alla competizione si rinuncia a favore della creatività e della dimensione collettiva dei saperi.
L’insegnante deve, quindi, decidere come trattare le differenze, se farle diventare disuguaglianze, premiando i migliori, o farle convivere come diversità, facendo sperimentare la possibilità di integrare le competenze e individuare le piste di miglioramento.

Allora sì, la scuola è politica, perché le scelte didattiche, organizzative, relazionali che si fanno ogni giorno e che sostanziano la professionalità di ogni docente vanno ben oltre l’anno scolastico, giacché sono scelte, prendiamone coscienza, che non si limitano ai libri di testo, alle verifiche o ai viaggi d’istruzione: si tratta di scegliere che genere di insegnamento va praticato per contribuire in bene a quella società che noi pensiamo legittima. È forse nell’opaca miopia di questo pensiero la ragione fondamentale del disorientamento personale, sociale e culturale di tantissimi bambini, adolescenti, giovani adulti, portati a richiudersi in un drammatico isolamento o a protestare in massa nelle piazze contro un mondo adulto che li blandisce ma non li ascolta.