Home - la rivista - oltre la lavagna - 34° Torino filmfestival

c'era per noioltre la lavagna

09/12/2016

34° Torino filmfestival

di Maria Luisa Jori

Il 18 novembre 2016  hanno avuto inizio le proiezioni del   festival cinematografico torinese, nato trentaquattro anni fa come “cinema giovani” (vedi  la sua storia). Quest’anno è stato dedicato a  David Bowie (sua la icona sul manifesto del Tff), grande musicista, autore e interprete di brani entrati nella storia della musica, attore cinematografico e teatrale, oltre che pittore.

Direttrice per la terza volta  è  stata  Emanuela Martini,  quest’anno affiancata  dal guest direcctor Gabriele Salvatores. La carrellata dei quindici film scelti   per la principale sezione in concorso, tutti diretti  da registi  sui trent’anni o poco  più (ma una regista è addirittura venticinquenne!), con  storie di generi  vari,  ambientate  nei rispettivi Paesi diversi, in generale  mette in scena la   gioventù nel mondo  d’oggi, dall’adolescenza all’età  degli autori stessi.  Le opere,   spesso finanziate grazie alla  coproduzione  di due o tre Stati anche di continenti differenti, provengono da varie parti del mondo:
America del Sud: Messico, Argentina, Cile
America del Nord: USA  e Canada
Asia: Cambogia,Cina, Corea del Sud
Europa:  Gran Bretagna, Germania, Serbia, Italia, Belgio, Portogallo, Francia.
L’Africa, presente da diversi anni nel Tff sia pure non continuativamente,  questo anno non vi ha partecipato, segno del progressivo aggravarsi  delle  crisi  in questo antico continente.
Le opere sono state presentate in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Sei  dei  film internazionali in concorso  riguardano  momenti di svolta nella  formazione giovanile  in Paesi  anche molto  lontani l’uno dall’altro:  Jesus di Fernando Guzzoni (Cile/Francia, 2016), Avant les rues di Chloè Leriche  (Canada, 2016), I figli della notte di Andrea De Sica (Italia, 2016), Las lindas di Melisa Liebenthal (Argentina, 2016) , Vetar/wind di Tamara Drakulic (Serbia,2016), Turn left turn right di Douglas Seok (Cambogia, 2016).  I primi due,  sebbene  l’uno ambientato in Santiago  del Cile e  l’altro in una comunità di nativi canadesi, raccontano  analogamente   il senso di colpa  di un minorenne che per leggerezza  si è lasciato coinvolgere in un omicidio.  Ma in tutte le  sei narrazioni è presente o evocato il rapporto tra padre e figlio  o padre e figlia.

Protagonisti giovani

In Jesus  (premio per il migliore attore a Nicolas Duran), un ragazzo diciottenne orfano di madre, che vive con un padre spesso assente per lavoro e con il quale ha un rapporto difficile, è confusamente  in cerca di identità. Così  si unisce ad alcuni ragazzi più  spregiudicati e ribelli di lui, che lo “divertono” iniziandolo all’alcool e alle droghe leggere. Una sera il giovane gruppo trasgressivo, penetrato attraverso un buco nella rete  nel parco pubblico durante la relativa chiusura notturna, incontra un  coetaneo   ubriaco  fino  al  punto di non essere in grado di reagire alle provocazioni e  ai calci  che gli vengono sferrati, per sadico divertimento, con violenza sempre maggiore.   Quando il giorno dopo Jesus apprende dalla televisione che quel ragazzo anche da lui picchiato a sangue, è stato trovato in gravi condizioni e ricoverato  in coma all’ospedale, si angoscia e vorrebbe denunciarsi alla polizia. Ma gli amici complici del misfatto  glielo impediscono, minacciandolo. Jesus si dispera così fino al punto di cercare la protezione del padre, che promette di sistemare lui la situazione. Il film si conclude, in seguito alla morte  del ragazzo  picchiato, in un modo inaspettato.

 Avant les rues (premioInterfedi”) si svolge nella valle del fiume Saint-Maurice, in Quebec, dove vive la popolazione indigena degli Atikamekw, caratterizzata da un profondo legame con la natura e da una lingua di antiche origini. Shawnouk è un ragazzo di questa terra, dove le famiglie  vivono in condizioni di povertà. Egli è disoccupato e, in cerca di denaro,  si lascia coinvolgere in una rapina, che finisce in tragedia: involontariamente proprio lui causa la morte   del compagno.   Il   senso di colpa per questo evento si impadronisce  del ragazzo in modo disperante, sebbene  incontri la  silenziosa copertura da parte del padre poliziotto. Quando poi egli riceve  i severi rimproveri del  genitore per aver lasciato il lavoro che questi gli  aveva  procurato per proteggerlo, tenta il suicidio. In seguito alle dimostrazioni di affetto dei familiari commossi, come cura psicologica   accetta di  soggiornare  presso una comunità nella foresta che,  sottoponendolo a  un   percorso rituale  tipico della locale tradizione, lo  riavvicina alla cultura delle proprie origini,  basata sul   dialogo con gli elementi della  natura e  sul contatto con i  relativi misteri. Solo così Shawnouk ritrova se stesso e diviene in grado di dialogare con la famiglia, la comunità di appartenenza e soprattutto con il padre.

 I figli della notte ha come protagonista un diciassettenne, Giulio, che la madre vedova,  assente per il lavoro da imprenditrice ereditato dal marito, è costretta a inserire in un collegio che assicura all’élit una formazione di primo livello. L’amicizia del ragazzo con Edoardo, affettivamente trascurato dai ricchi genitori, lo porta a sperimentare in sua compagnia momenti di libertà contro le ferree regole di quel collegio isolato sulle Alpi. Le avventure notturne dei due ragazzi dapprima concretizzano in immagini  vari temi e sentimenti della formazione (dal sesso al fascino e alla paura dell’ignoto, ecc.), poi, quasi in un crescendo, precipitano in tragedie,  non escludendo una conclusione conciliante.    Il regista ha dichiarato: “Il collegio è nel film l’incarnazione, sotto forma di uno spazio fisico concreto, delle difficoltà di relazione tra genitori e figli nel passaggio dall’infanzia all’età adulta”.

 Las lindas è il film-verità della regista più giovane del Tff (nata nel 1991 ). Lei e le sue amiche si conoscono da anni: insieme sono state prima bambine, poi adolescenti e ora sono giovani donne. Attraverso fotografie, filmati di feste, cene e momenti quotidiani, commenti  e ricordi condivisi  in dialogo  con  voci anche fuori campo,  l’autrice ha creato un sapiente montaggio che configura nell’insieme un autoritratto di gruppo.  Queste ragazze criticano il fatto  di essere cresciute in una  società che richiede alle donne soprattutto di essere carine (lindas).
  La regista ha spiegato così la creazione del film:  “Mi è sempre interessato il genere dell’autoritratto, prima di tutto come spettatrice. Facendo questo film mi sono quindi sentita particolarmente esposta: sono comunque un personaggio anch’io, ho una mia storia. Filmo quelle che sono le mie amiche da sempre: all’università, in palestra, alle riunioni o alle cene. Ormai esse sono abituate a vedermi tirare fuori d’improvviso la videocamera e riprenderle. Nonostante ciò, quando ho capito che questi filmati sarebbero diventati un film, una di loro ha deciso di non farsi più riprendere, e così è stato. Ed è anche questo un argomento di cui si parla nel film”.

Vetar/wind   focalizza un momento delicato delle esperienze formative di una sedicenne serba, Mina. Trascorrendo l’estate sul fiume Bojana, in Montenegro, insieme con il padre Andrej,    esibisce il più ostentato disinteresse per ciò che la circonda, mentre il padre, incallito fumatore, comincia forse a instaurare una relazione più seria con la fidanzata. Parallelamente, cioè quasi a imitazione del genitore, Mina si   innamora di un kitesurfer, Saša, più grande di lei e fidanzato con Sonja. Questa esperienza lascia una traccia indelebile nella sua ricerca di identità. Il film parla dei sentimenti  anche attraverso poetiche fotografie del paesaggio  in cui sono contestualizzate le psicologie dei personaggi.

Nel cambogiano Turn left turn right  Douglas Seok - americano di nascita, coreano di residenza -   suddivide  il racconto in dodici tracce, come se si trattasse della sequenza di un cd,  cercando di mescolare pop e intimismo. La ventenne Kanitha balla sullo sfondo delle rovine  di un antico tempio del suo Paese. Attraverso dissolvenze e sovrimpressioni di immagini, Seok cerca di comunicare le  ansie e paure  di  Kanitha, che sta per sposarsi con un matrimonio combinato. Ma la malattia terminale del padre  la impegna a  riconciliarsi con le sue radici, assistendo  e curando  con  amorevole  dedizione fino alla morte il vecchio genitore.

I film vincitori

Il film cinese Juan Zeng Zhe- The donor di  Qiwu Zang (Cina 2016), ha ricevuto il premio principale del 34° Tff, ma anche  quello per la migliore sceneggiatura, più  un  premio collaterale da parte dell’AVANTI (Agenzia Valorizzazione Autori Nuovi Tutti Italiani).   Anche in esso  è presente,  sullo sfondo,   il   rapporto tra un padre e un figlio  adolescente.  Il protagonista vive con la famiglia (moglie e figlio unico che sta concludendo la scuola e aspira a frequentare l’università) in  un quartiere povero di  Shanghai.   Il suo lavoro come  meccanico è limitatissimo e non gli permette di risolvere problemi incombenti quali evitare la demolizione della sua casa e continuare a sostenere le spese scolastiche del figlio. Perciò accetta di donare un rene alla sorella in dialisi  di un cugino ricchissimo, a lei molto legato, che lo ripaga lautamente:  si sottopone coraggiosamente all’operazione, all’insaputa dei familiari. Ma, nonostante la compatibilità genetica  del donatore con la donna trapiantata, l’operazione non ha successo perché secondo i medici  lui era troppo vecchio. Il ricco cugino allora chiede al meccanico,  offrendo  ancora più denaro e altri  favori,  che sia il figlio a donare.
Poiché il padre  rifiuta in tutti i modi  di compromettere la salute del suo ragazzo, gli viene fatta balenare la possibilità di un rapimento del figlio all’uscita di scuola per ottenere  per  forza l’organo ormai indispensabile alla vita della donna. Ma Il ricco cugino     escogita in seguito una via più sicura per giungere al suo scopo: contatta e convince il ragazzo  allettandolo con l’offerta  di  una formazione di qualità, a sua spese, presso una prestigiosa università in America.
Le possibilità di accedere a un benessere che la famiglia poverissima non aveva e non avrebbe mai potuto fargli vivere né raggiungere, fa accettare al ragazzo quello che il padre non si stanca di negare, mettendo l’uno contro l’altro. Lo scontro tra il meccanico e il figlio si mostra qui   come  opposizione generazionale nella Cina contemporanea: mentre  il vecchio tiene più alla salute del figlio e alla propria dignità che  al denaro,  il giovane  è disposto a vendersi  per accedere alla ricchezza e al successo.  Il meccanico allora  farà in modo di  impedire definitivamente  la possibilità  dell’espianto di un rene del figlio, sacrificando la  propria libertà (qui lasciamo la sorpresa agli spettatori).

 Juan Zeng Zhe-The donor  è   narrato in uno stile che ricorda  quello del cinema neorealista, anche se  tradotto nei temi problematici e negli ambienti  del mondo attuale (e con signitficato universale, data l’odierna globalizzazione). Il regista, esordiente, ha  girato  un film  che rinnova la qualità del cinema  cinese, mostrando  apertamente,  con un  realismo  psicologico, le opposizioni e le contraddizioni sociali  presenti nel suo Paese. La giuria  del Tff  l’ha premiato infatti con questa motivazione: “ …Pensiamo di aver trovato una nuova voce del cinema cinese che ci arricchirà tutti”.   La recitazione, molto efficace, è sottolineata dai primi piani dei volti, alternati ai campi lunghi  sullo squallore di una periferia  dove vivono solo i poveri, come in un ghetto.  Di qui la forza espressiva del film, che   condanna  con concretezza drammatica   la  mercificazione del corpo   e  la reificazione della persona, delle quali le più gravi diseguaglianze sociali e l’idolo del denaro (sirena seduttrice per i giovani contemporanei) divengono oggi  facili, spregiudicate e crudeli matrici (e non solo in Cina, purtroppo).

Il Premio speciale della giuria Fondazione ‘Sandretto Re Rebaudengo”  è andato invece a  Los decentes  di Lukas Valenta Rinner (Australia-Corea del Sud-Argentina).  La storia è originale, con sfumature di grottesco. Il punto di vista è quello della protagonista,  Belen, una  giovane sbiadita, sprovveduta, in cerca di impiego a servizio  a Buenos Aires. Qui viene assunta come cameriera da una famiglia dell’alta società argentina, di quelle che in quel Paese   abitano in una comunità isolata, blindata, completamente indipendente, con infrastrutture semiurbane, dalla sicurezza di  polizia  a tutti i servizi completamente privati, che consentono loro di vivere senza alcun contatto col mondo esterno.
Un giorno Belen scopre, affacciandosi alla rete  di recinzione accanto alla casa in cui lavora, che, proprio  adiacente al complesso residenziale dei  perbenisti facoltosi,  sorge una   comunità di nudisti, che passa le giornate tra bagni in piscina e sessioni di sesso tantrico. Poco attratta dal  timido corteggiamento dell’insulsa guardia del campo residenziale, che frequenta con assoluta e quasi muta indifferenza,  soprattutto annoiata dalla vita e dal comportamento egoistico della famiglia presso la quale è  a servizio, un bel giorno decide di  entrare nella “riserva” dei nudisti  per esplorarla, spiandola. Affascinata dai loro riti  di educazione collettiva al risveglio della sensualità,  decide di parteciparvi, dividendo  segretamente  la sua vita tra  l’insopportabile perbenismo della famiglia dell’alta borghesia e la piacevole libertà spregiudicata e fantasiosa dei naturisti.  Compie anche lei così  un percorso che si conclude in una totale orgia di sesso, rappresentata  in una panoramica dell’ammucchiata dei corpi nudi .
La conclusione  eccede grottescamente  in una totale  violenza, che fa scomparire  reciprocamente  le due comunità  chiuse:  forse, nell’intenzione del regista,  a significare   una  condanna  degli opposti estremismi. Il film è certamente “audace e originale” come lo definisce la motivazione del premio, ma non solo: bisogna scorgervi  una denuncia in tono ironico di certi modi di vivere isolati, chiusi al mondo esterno, settoriali o  settari che siano. Il regista ne ha  individuata la causa: “È un fenomeno contemporaneo che associo agli effetti del capitalismo”.

Christine di Antonio Campos (Usa, 2016) ha ricevuto il  premio per la migliore attrice (la bravissima Rebecca Hall, interprete della protagonista). Il film racconta realisticamente la tragica storia,  avvenuta  davvero nel 1974,   di una  giornalista televisiva, inpiegata in una emittente locale della Florida, che a trent’anni si suicidò in diretta durante una trasmissione. Christine Chubbuck  viene rappresentata come una donna brava nel suo lavoro, ma contrastata dal suo direttore nelle sue intenzioni di offrire agli spettatori informazioni utili su aspetti critici della contemporanea vita sociale.
  L’interpretazione narrativa  dei fatti  da una parte mostra le tensioni caratteriali  di  Christine, donna intelligente, ambiziosa, ma tendenzialmente fragile nelle relazioni con gli altri. Ma  di fondo vuole evidenziare la nascita negli anni Settanta di   un giornalismo televisivo condizionato commercialmente dall’audience e quindi da una rincorsa della  informazione sensazionalistica,  più attrattiva  a livello popolare, a scapito di quella critica e socialmente utile, ma forse  con minor ascolti.   Christine Chubbuck suicidandosi in diretta  dichiara pubblicamente di voler denunciare,  con il suo gesto tragico in piena trasmissione,  proprio  questo tipo scandalistico di informazione televisiva, eclatante nel modo più cruento possibile,  impostale dal suo direttore.
 

Riflessioni critiche   sul 34° Tff

Questo festival  è risultato complessivamente  molto migliore di quello   precedente:  tutti i film in concorso, compresi quelli  non segnalati in questa rassegna, sono interessanti perché, anche se non molto innovativi, costruiti in modo tecnicamente limpido, comprensibile, e soprattutto con conenuto significativo. Ciascuno di essi a suo modo  ha  saputo connotare la propria matrice nazionale, portando sugli schermi internazionali le caratteristiche ambientali e culturali della terra di appartenenza del regista o del soggetto.

 Alcune delle altre  sezioni  sono state dedicate (giustamente) a  due  generi contemporanei che attraggono molto i   giovani: il Punk e l’horror.   Inoltre la scelta dei  corti e  dei  documentari  è preziosa:  permette visioni che difficilmente passano poi nelle sale.  Interessanti i film del settore “Festa mobile”, opere contemporanee in lingua originale che si potranno vedere, doppiate in italiano, nei vari cinema. Per esempio così sarà per l’imperdibile L’avenir di   Mia Hansen (Francia-Germania 2916), premiato a Berlino con l’ “Orso d’argento”,  interpretato mirabilmente da Isbelle Hupper,  e  per L’economie du couple di Joachim Lafosse (Belgio-Francia 2016), narrato con realismo e recitato in modo efficace.

Purtroppo in questo 34° Tff,  è mancata ancora una volta una retrospettiva poiché l’ultima risale al 2011 (vedi Retrospettive). Gli unici film del passato   nel  programma di questo festival sono stati quelli restaurati: una scelta espositiva tecnica piuttosto che  storica.  Assecondare  soltanto i gusti dei giovani d’oggi  comporta  rispecchiare e, quindi, contribuire a   creare una cultura   priva della sua storia, come quella, appiattita sul presente, che i media e il web stanno  diffondendo.

 

Scrive...

Maria Luisa Jori Ha insegnato a lungo nelle scuole superiori; supervisore di tirocinio e docente di didattica della letteratura presso la SSis dell’università di Torino.