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una recensioneoltre la lavagna

29/03/2017

Angela Maria Volpicella, Giorgio Crescenza, a cura di, "Una bussola per la scuola"

di Rosanna Angelelli, Angela Maria Petrone

La scuola italiana, sottoposta da circa un ventennio a riforme in larga parte discutibili e spesso tra loro confliggenti, appare davvero bisognosa di un orientamento chiaro e organico. Mai titolo per un saggio sulla scuola ci sembra dunque essere così appropriato. Vi aggiungiamo una nostra considerazione: sebbene l’angolo di declinazione magnetica della bussola non sia preciso in assoluto né costante, questo scarto non svilisce la rotta, ma piuttosto è di conforto e di stimolo a una attenta e continua sua verifica. Specie se la nave da condurre è la scuola, l’orientamento deve essere, più che prescrittivo, propositivo, e disposto su linee guida flessibili, applicabili e verificabili entro un contesto e una relazione educativa di per sé concreti nella loro mobilità.

Il volume accoglie subito queste esigenze tanto che nella presentazione Massimo Baldacci ce ne dà il contesto storico e due coordinate: l’epoca della globalizzazione, in generale; la liquefazione delle strutture sociali e l’egemonia del neoliberismo, in particolare, sostenute queste da “due pilastri, l’impresa e la competizione”. In uno scenario assai problematico e per certi versi molto duro, la scuola si trova presa “entro un doppio vincolo”: la domanda educativa, che deve tener presente le condizioni sociali disomogenee nelle quali essa è costituzionalmente immersa; la specifica funzionalità che la politica del nuovo millennio richiede alla scuola, troppo spesso conforme a un’idea di formazione dell’alunno selettiva e competitiva. La contraddizione fa sì che “la navigazione” da parte di una scuola di qualità formativa rivolta a tutti abbia bisogno per l’appunto di una bussola orientata secondo efficaci coordinate pedagogiche.

La prima parte del saggio si intitola “La pedagogia e le sfide attuali” ed è divisa in tre capitoli. Nel primo, “La missione dell’istruzione. Problemi pedagogici e politiche scolastiche” Giorgio Crescenza auspica che la scuola sappia rispondere allo sviluppo “multilaterale” dell’individuo, a “un processo espansivo aperto a tutte le possibili direzioni, attraverso cui il soggetto assume consapevolezza di sé e della propria situazione, assimila e insieme riordina l’esperienza, aprendosi varchi in avanti” (p. 16).

Jerome Bruner è citato in tutto il saggio: la crescita mentale del giovane non deve essere unidirezionale (volta cioè ad acquisizioni distinte, o tecnico scientifiche o umanistiche), ma interrelata e integrata; soprattutto occorre che l’alunno oltreché apprendere formi per sé la capacità di apprendere, consistente nel sapere osservare, analizzare, problematizzare, usare linguaggi formalizzati secondo il suo stile personale. Perché “le stesse predisposizioni del soggetto educando possono essere almeno in larga misura insegnate, o (…) comunque se ne può anticipare l’emergenza mediante stimolazioni didattiche adeguate” in quanto le capacità potenziali in ciascun alunno “per diventare attitudini vere e proprie (…) richiedono l’intelligente intermediazione dell’educatore che avrà il compito di orientarle”.

Ma come questo potrà avvenire? Una risposta potrebbe essere: favorendo l’autonomia della espressione e della ricerca personali, poiché l’orientamento non deve essere veicolato al giudizio e all’interpretazione dell’adulto, né deve confinare l’alunno in rigide performance specialistiche separate dal resto dei saperi; la costruzione e il riuso delle conoscenze devono essere complessivamente organici e interrelati.
Ma se così è, si prospettano per tutti gli insegnanti tempi e modi nuovi e diversi del loro intervento didattico che deve essere sostenuto da un robusto aggiornamento epistemologico e pedagogico. Cambia profondamente il senso del loro lavoro, più attento a darsi/dare giustificazione attenta delle scelte fatte e da fare, più decentrato rispetto alla tradizionale lezione frontale, più collaborativo e laboratoriale, come spiega dettagliatamente Angela Maria Volpicelli nel secondo capitolo, “Essere docenti nel nuovo millennio”.
La bussola però ci può indicare la giusta direzione e questo lo ritroviamo nel terzo capitolo della prima parte, “Educare alla cittadinanza globale in una prospettiva interculturale” a firma di Massimiliano Fiorucci da cui far dedurre al lettore il quadro di riferimento per il “nuovo” profilo insegnante.

 L’Italia, ci dice, è arrivata piuttosto tardi alla prospettiva interculturale di educazione alla cittadinanza, questo perché influenzata da un “apartheid” sociale e culturale derivato dal regime fascista e da riforme repubblicane mai del tutto organiche nel senso dell’accoglienza di tutti i cittadini in una scuola qualificata per tutti. Il nostro Paese ha avuto sia una lunga storia di emigrazione extracontinentale sia, negli ultimi venti anni, una forte immigrazione, ma ha avuto anche una storia di migrazione interna; questi tre aspetti non sono stati agevolati da una politica di fusione e accoglienza sociale, pertanto è stato difficile pervenire a una visione educativa organica. Citando Nussbaum, Fiorucci precisa che l’attuale regime economico mondiale, che pone il profitto al centro anche delle stesse finalità educative, fa sì che sul piano scolastico si alimentino percorsi differenti di discriminazione. “Non si tratta di difendere una presunta superiorità della cultura classica su quella scientifica, ma di mantenere l’accesso a quella conoscenza che nutre la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio, la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e affrontare i problemi mondiali come “cittadini del mondo” e la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro”. Dunque, la vera contrapposizione culturale non è (sol) tanto tra la cultura scientifica e umanistica, ma tra l’istruzione orientata al profitto e l’istruzione per una cittadinanza più inclusiva. Vengono indicate qui le prospettive come insegnare cose autentiche su gruppi diversi oppure la capacità di spostare il proprio punto di vista o sviluppare la responsabilità in ciascun alunno o ancora insegnare a non vergognarsi delle difficoltà e del bisogno, tutto questo per sviluppare un senso della cittadinanza attiva.

Tante sono ancora le opacità di un cambiamento sostanziale, sia a causa di una legge 107 abborracciata e incompleta e, nella parte già dettagliata, ambigua, o, peggio ancora, restaurativa di suggestioni passatiste, sia da parte degli insegnanti, disorientati dai continui interventi di riforma dei precedenti governi, dalle procedure e dagli esiti della sanatoria del precariato, ma soprattutto dal mancato aggiornamento per tutti dei nodi focali della professione. Per questo, nella seconda parte del saggio, dedicata agli aspetti fondamentali del fare scuola, è particolarmente significativo ciò che Giuseppe Bagni scrive su due questioni: il significato delle competenze, le modalità della valutazione Parlare di competenze è diventato un tormentone epistemologico a sfondo politico, ma se ne comprende il perché con sempre maggiore evidenza: la presa in considerazione del loro significato è il punto di partenza degli obiettivi del cambiamento, che deve essere inclusivo in primis nell’assegnare pari valore istruttivo e pari dignità educativa a tutti i vari percorsi scolastici.

Giuseppe  Bagni, in "Dall’organizzazione della lezione alla didattica per competenze”, partendo dalla sua esperienza di docente in una scuola a indirizzo tecnico, puntualizza come nel mondo del lavoro la competenza abbia sostituito la qualificazione in quanto “offre la garanzia a un individuo di possedere non un sapere certificato statico, bensì mobile e adattabile, tale da fargli affrontare con successo situazioni inedite e che cambiano con il tempo”. E aggiunge: “Questo passaggio ha influenzato anche il mondo della scuola spingendo verso la sostituzione della pedagogia per obiettivi con quella per competenze (…)”, trascinando con sé “la sostituzione di una valutazione a posteriori con una a priori”. Le competenze vanno maturate entro l’ambito multidisciplinare, interessando innanzitutto i processi di apprendimento curricolari e rispettando quella preparazione culturale di base che ciascun alunno ha diritto (e dovere) di acquisire criticamente. Purtroppo, come Bagni precisa: “ Ci si è concentrati sul come costruirle piuttosto che sul riconoscerle, dopo, nel soggetto. E la ricerca didattica si è impegnata nel definire le azioni oggettivamente osservabili e le ha assunte come indicatori di competenza, ma operando in questa direzione ha trasformato le competenze in procedure standardizzate e stereotipate”, mentre se “alla base di un agire competente … c’è un sapere unito a un saper vedere”, allora “la trasversalità non è una qualità della competenza, ma il risultato di un trasferimento che l’allievo deve prima aver pensato possibile e utile al suo intento”. Una pedagogia delle competenze deve costruire pertanto situazioni didattiche che, “ oltre a essere ricche del pensiero culturale accumulato nelle discipline”, devono anche presentarsi “come veri e propri oggetti di pensiero degli allievi”. E, per finire sull’argomento, “una competenza non è mai del tutto indipendente dagli oggetti sui quali si esercita. Né mai del tutto costruibile a priori: dedurre, fare ipotesi, confrontare, discriminare sono abilità concettuali fondate su una riflessività a posteriori”.

Si capisce come da questa visione così mossa della costruzione di un saper fare e di una ricerca come azione debba cambiare una buona volta anche la metodologia della valutazione, che non deve cogliere tanto il risultato quanto il processo, il percorso, l’accertamento delle potenzialità future, la verifica e la retroazione delle cose fatte, essendo l’apprendimento una specie di narrazione storica strutturata da una serie di giochi interni che la rendono nel profondo del soggetto da valutare flessibile e irripetibile nello stesso tempo. Dopo aver citato Antonio Calvani sulle varie forme di valutazione (misurativa, descrittiva, continua ecc.), Bagni inventa una storia per caldeggiare la sua idea di valutazione, “conversativa” e quindi condivisa, applicabile anche al profilo delle singole scuole: “Una valutazione conversativa ha una natura sicuramente “mite”, in quanto la serenità del dialogo aperto tra i soggetti coinvolti ai diversi livelli è giudicata la migliore garanzia di condivisione degli esiti raggiunti. Questo suo carattere collaborativo, né aggressivo né sanzionatorio, taglia alla radice quei timori di essere sottoposti a un giudizio sommario che spingono le scuole all’addestramento dei propri alunni per rispondere alle prove nazionali”.

D’altronde “valutare è un’attività intrinseca all’attività della mente; valutiamo costantemente nel senso che selezioniamo alcuni aspetti rispetto ad altri creando dal loro intreccio continue configurazioni di senso”. Per questo una valutazione coerente e comprensibile si costruisce sulla condivisione di una intersoggettività tra alunno e docente. E inoltre il curricolo può essere considerato come ri-costruzione di una storia degli apprendimenti attraverso i temi e i modi della didattica e quegli “eventi”, vale a dire apprendimenti e performance, che questi hanno promosso o agevolato. Tutto il percorso, infine, appartiene a quell’alunno e a quei docente inseriti nelle dinamiche di quella classe.

Angela Maria Volpicella, Giorgio Crescenza, a cura di, Una bussola per la scuola, Edizioni conoscenza, Valore Scuola Coop, Roma, 2017, pp. 240, 15 Euro.