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una recensioneoltre la lavagna

15/06/2016

Antonella Tredicine, "Pier Paolo Pasolini, 'scolaro dello scandalo' ”

di Alberto M. Sobrero

Nel diluvio di libri, iniziative, riproposte di quest’ultimo anno su Pasolini, nel quarantesimo della morte, è raro, trovare un libro che sappia essere su Pasolini e al tempo stesso (o meglio, perché) pasoliniano, un libro, intendo dire, che sappia parlare di Pasolini, della pedagogia di Pasolini in questo caso, non solo in forma saggistica, ricostruendo il pensiero del poeta friulano, ma facendone uno strumento di lavoro per l’oggi. A questo si aggiunga che nel caso di Antonella Tredicine, si tratta di un lavoro e di un’esperienza in prima persona, della propria “esperienza pasoliniana”, in situazioni diverse, con ragazzi rom, con adulti di recente immigrazione, o anche in Licei della “Roma bene”. Di certo questo doppio, triplice, carattere è il segno distintivo e ciò che rende originale il libro di Tredicine, Pier Paolo Pasolini, “scolaro dello scandalo” .

 Non so quanto Pasolini avrebbe condiviso di quel testo di Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole [1], che non fece probabilmente in tempo a terminare di leggere. Fu trovato nella macchina con la quale era andato a morire. Da quel libro del filosofo tedesco era passato poco più di un secolo e ogni parallelo è difficile, ma di certo di quel testo avrebbe condiviso l’idea di fondo, l’avversione per una scuola  che rinunci ai momenti alti dello spirito, all’arte e alla filosofia (e per Nietzsche alla cultura classica) per farsi funzionale a un sapere mediatico. Per Nietzsche il male del secolo era giornalismo, oggi ci sono ben altri strumenti di massificazione. E di certo Pasolini avrebbe sottoscritto le conclusioni dell’ultima delle cinque lezioni nicciane: «Così com’è, difatti, egli è innocente; così come voi l’avete conosciuto, egli è una muta ma terribile accusa contro i colpevoli» (crs. di Nietzsche).

Egli è innocente. È innocente di essere rom, povero, immigrato, ed è innocente di non essersi salvato.

Pasolini ha praticato, a modo suo, un po’ tutte le discipline sociali, la linguistica, l’antropologia, la psicologia, le ha praticate come un dilettante, a volte con grandi intuizioni, a volte fidandosi, decisamente troppo, della propria intuizione. Il caso della pedagogia è diverso. Diciamolo subito, inutile cercare in Pasolini (e nel libro di Tredicine) un metodo didattico, al massimo direi possiamo trovarci quello che la sua “scuola” non è: non è una scuola facile, costruita per una classe sociale più debole. Anzi è una scuola severa nei contenuti, una scuola che pretende e chiede quel che mai le nostre scuole si sognerebbero di chiedere. Non è una scuola montessoriana, anzi è una scuola che esige “maestri”, “guide”, nel senso più ampio del termine. Non è la scuola del ’68, del voto politico, e della rivolta contro i professori.
Che scuola è, allora? Innanzitutto non è una scuola fatta di “classi”, ma di “questo” e “quel” ragazzo, “questa” e “quella” diversa situazione. Tutto il libro di Tredicine è pieno di casi, di esperienze, di nomi, di storie di vita, di una vita piccola, appena iniziata, ma che ha già bisogno di essere considerata come Altro. Poi è una scuola di alleanze, di maestri che si fanno alleati dei propri scolari, che diventano scolari essi stessi, che imparano dalla propria esperienza. Una scuola che diventa, diciamolo con l’autrice, “campo etnografico” di ricerca. Ancora: è una scuola delle menti, ma anche dei corpi, di voci, di volti, di corpi che crescono con i loro problemi, sentimenti, contraddizioni. Infine direi è una scuola-contro. Anche su questo Pasolini sarebbe forse d’accordo con Nietzsche: una buona scuola deve innovare, sperimentare il nuovo sociale, lavorare, direbbero gli antropologi, “contro l’identità”. Per Nietzsche la scuola doveva essere contro lo Stato, per Pasolini contro quell’ideologia del potere e del possedere che aveva (ha) invaso ogni angolo della coscienza sociale. Una scuola scandalosamente contro quella malattia che a volte chiama “borghesia”, ma altre volte semplicemente “Potere”.

Vale per la scuola, ma vale per ogni altro luogo. «Ogni luogo è un campo nel quale fare esperienza dell’Altro: un’aula di una scuola fatta di molte voci, storie, volti per essere vissuta, in cui nessuno è tabula rasa e pur mantenendo le sue peculiarità ri-definisce e trasforma lo spazio in un’avventura dell’ascolto e di sguardi che cominciano a dialogare» (p. 62).

Resterebbe deluso chi volesse trovare in questo libro un metodo, ma forse anche chi volesse trovarvi un ordine espositivo del pensiero pedagogico di Pasolini. Intendiamoci, le esperienze pedagogiche di Pasolini ci sono tutte, dalla "scuoletta" di Versuta, durante la guerra, ai due anni di insegnamento nella scuola Petrarca di Ciampino, al Padre selvaggio, fino al Gennariello, operetta pedagogica, indirizzata a un ipotetico ragazzo napoletano, alla quale Pasolini era intento ancora nell’ultimo mese di vita. Ognuna di queste esperienze ha insegnato qualcosa, è stato un terreno di un’unica ricerca, ed è, dunque, dei risultati di quest’unica ricerca e sulla sua possibile applicazione che Tredicine riferisce. Proprio a iniziare dal Gennariello che in qualche modo ripercorre tutta l’esperienza pasoliniana: «Viaggio che cominciamo dalla fine...» (p. 19).

«Gennariello, destinatario muto del trattato, figlio di Napoli l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio e per di più con tradizioni culturali non strettamente italiane, diviene il simbolo di quello sforzo titanico proprio di chiunque si erga a baluardo di ogni massificante certezza: la sua vitalità opposta alla luce spenta dei suoi quei coetanei, giovani infelici. [...]  Tutta la pedagogia pasoliniana tende a preservare la forza del dubbio, lo strappo dato dai contrasti; questo clima rimette in discussione le granitiche sicurezze della nostra appartenenza culturale, geografica» (p.20).

Opera, questa sì a differenza di Petrolio, rimasta incompiuta, eppure già ricca di molti spunti sui processi di formazione giovanile, in particolare per quell’osservazione che oggi sembra quasi profetica sulla provenienza dei valori giovanili: prima che nella scuola, negli amici, nella televisione e nei genitori -scrive Pasolini- l’origine delle nostre idee sta nel linguaggio delle cose, nei “discorsi di cose”.

"Non mi stancherò mai di ripeterlo: io, nel parlarti, potrò forse avere la forza di dimenticare, o di voler dimenticare, ciò che mi è stato insegnato con le parole. Ma non potrò mai dimenticare ciò che mi è stato insegnato con le cose. Quindi nell’ambito delle cose, è un vero abisso che ci divide, ossia uno dei più profondi salti di generazione che la storia ricordi. Ciò che le cose con il loro linguaggio hanno insegnato a me, è assolutamente diverso da ciò che le cose con il loro linguaggio hanno insegnato a te." [2].

Su un altro tratto del percorso pasoliniano Tredicine, proprio per la sua esperienza di insegnante, è quasi costretta a fermarsi. L’opera, Il padre selvaggio, è forse meno nota ai pedagogisti, ma la sua attualità è evidente. La storia è poca cosa: i tentativi, i fallimenti, e a suo modo il successo, di un professore bianco alle prese in Africa con una classe di giovani. Professore democratico, anticolonialista, ma a suo modo incapace di vedere l’Altro come un Io-Altro, e non un Altro-Io, incapace di vedere l’Altro come chiedeva il celebre verso rimboldiano: «Je est un autre». I tentativi di acculturazione del professore democratico falliranno finché Davidson non comincerà a scrivere della sua Africa. «scrivere è il primo passo verso la guarigione: con questa speranza Davidson riprende a vagare, solo, in compagnia della sua voce interiore che continua a sussurrargli altri versi ...» (p. 58).

Restituire la parola è stato il compito che l’Autrice si è prefissa nelle classi della periferia romana frequentate dai tanti Gennariello e Davidson, da bambini rom e da figli di immigrati. Dal libro-programma di Ivan Illich, La convivialità (1973), Pasolini aveva tratto una delle sue più note provocazioni: abolire la scuola media dell’obbligo («metafora - aveva presto aggiunto - di una radicale riforma»,  29 ottobre 1975, [3]). Quella riforma è in larga parte ancora attesa. Certo la scuola è cambiata, è cambiato tutto il processo di trasmissione del sapere, sono cambiati i ragazzi e gli insegnanti, ma un ragionare sistematico, un investimento intellettuale, un movimento di rinascita sui e dei processi di istruzione non si è ancora dato. Il mondo della scuola è cambiato per la forza delle cose e per la buona volontà di alcuni, pochi o molti che siano. Per evidenti ragioni la vecchia cultura identitaria è passata a miglior vita e si è portata con sé versi di poeti insignificanti, elenchi di fiumi dell’Asia e e di eccezioni di declinazioni latine; il mondo si è improvvisamente allargato e riempito di nuove “parole”, comunicare è diventato più difficile e i silenzi sempre più frequenti. Bisogna imparare a mettere da parte le politiche securitarie, e cercare di capire i silenzi dei tanti Gennariello, senza illusioni e senza demagogie. Senza pensare che sia comodo e facile: insegnare e apprendere sono mestieri difficili e non separabili. «Pasolini abitua a indagare cosa c’è sotto le formulette risolutive, seguendo indizi che consentano di decifrare la realtà, evitando il perpetrarsi della pericolosa invenzione dell’altro: con le sue opere sotto il braccio possiamo imparare a guardare e a sentire in modo diverso» (p.119).

 

1. F.​ Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, (1872), ed. it. Adelphi, Milano, 1975.
2. P.P. Pasolini, (aggi sulla Politica e sulla Società, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1999, p. 374.
3. Id., p. 697.

 

Antonella Tredicine, Pier Paolo Pasolini, “scolaro dello scandalo”, Verona, Ombre corte, 2015​,  pp.135, euro 13,00

 

Scrive...

Alberto M. Sobrero Docente di Antropologia culturale presso l'Università di Roma "La Sapienza", ha operato in contesti diversi per conto del Dipartimento per la cooperazione e lo sviluppo e per la FAO.