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una recensioneoltre la lavagna

19/04/2024

Un apologo dell'oppressione: "La luna nelle baracche" di Alberto Manzi

di M. Gloria Calì

Alberto Manzi è uno di quei personaggi che la narrazione diffusa ha trasformato in un “santino”, bello da ammirare per la sua celebre azione di alfabetizzazione televisiva del “Non è mai troppo tardi”. Solitamente questa dichiarazione è accompagnata da un elenco di numeri: un milione e mezzo di persone che, seguendo la trasmissione, hanno conseguito la licenza elementare; 72 i paesi che hanno riprodotto il “format”; un premio in Giappone.

Si parla molto meno della disobbedienza di Alberto Manzi alla circolare Falcucci del 1981, che imponeva l’uso dei giudizi nella scuola primaria; il maestro si fece fare un timbro che lasciava impresso sulla scheda di valutazione: “fa quel che può; quel che non può non fa”. Egli, ostile a qualunque etichettatura dei suoi alunni, a qualsiasi classificazione che li rendesse “diversi” gli uni agli altri, competitori per il premio del giudizio più alto, ha formulato, con quel timbro, una sintesi valutativa che fotografa semplicemente la realtà evidente per tutti. Chissà quanto protesterebbe, oggi, davanti a tutte le pratiche scolastiche che accentuano disuguaglianze e creano scale di valore tra le persone. 

Un uomo dalla professionalità radicale, che si oppose al suo direttore, con quella scelta del timbro anziché le pagelle piene di “ottimo” o “sufficiente” (vi ricorda qualcosa? Oggi, nel 2024, il ritorno al giudizio schematico ripropone le stesse etichette e le stesse assurdità valutative). Il maestro che scrisse al ministro Gonella una lettera nella quale diceva, senza mezzi termini: “Lei dà agli uomini dai quali dipende la fortuna e il destino della Nazione uno stipendio da fame”.

Il maestro Manzi è stato un intellettuale dalle molteplici esperienze: ha cominciato a lavorare come insegnante nel carcere minorile “A. Gabelli” di Roma e lì ha organizzato la scrittura e la pubblicazione di un giornale, perché ha capito che il suo lavoro aveva lo scopo di liberare le persone dalle catene dell’ignoranza, prima che dalle sbarre della galera.
Durante le estati libere dall’insegnamento, per oltre trent’anni, è andato nei paesi della foresta amazzonica a insegnare a leggere e scrivere agli Indios. Un’operazione disperata eppure tenace di emancipazione da un’oppressione di origine coloniale, che si è replicata nel tempo attraverso la sistematica mortificazione della dignità di uomini, donne, bambini e bambine, resi completamente sottomessi ai padroni.

Questa dinamica è al centro del romanzo La luna nelle baracche, pubblicato per la prima volta nel 1974 e riedito ad Aprile da “Edizioni di Storia e Letteratura”. Il testo, tradotto in molte lingue e insignito da un premio letterario in Germania, racconta la storia di un villaggio di campesinos in America Latina. Gli uomini e le donne che lo abitano sono stati del tutto privati di ogni capacità decisionale e, in preda ad una sorta di depressione esistenziale, mostrano paura nei confronti del padrone della terra, quando questi assume il volto crudele dello sfruttamento, e gratitudine per i doni elargiti e per i periodi di pausa dal lavoro. Gli uomini costretti a lavorare a ritmi disumani vengono resi dipendenti dalla coca, che, somministrata quotidianamente dai soprastanti, non fa sentire la fatica né il dolore fisico del lavoro nei campi.

Chi alza la testa, o, almeno, prova ad argomentare, viene punito con violenza fisica e anche psicologica e si trova ad impotente ad assistere al proprio annientamento. Nel villaggio, Pedro è l’unico giovane che ha imparato a leggere e scrivere, e questo lo rende un soggetto da tenere d’occhio, potenzialmente pericoloso perché pensa e parla troppo. Pedro rifiuta la dose quotidiana di coca, intuisce che, se vuole veramente organizzare una ribellione, devo organizzarla in massa e non in solitudine. E’ il simbolo della resistenza di un popolo che vive in situazioni disumane, e che riesce solo a intravedere la propria dignità, senza poterla realizzare attraverso il quotidiano.  

Il tutto è raccontato con una lingua che dà forma alle anime, prima che alle scene del racconto, che conduce il lettore al cospetto dei luoghi della miseria: una lingua sorvegliata e semplice, senza ostacoli.

Sta al lettore, una volta finito il romanzo, lasciare entrare nella propria coscienza il dramma della sottomissione di un essere umano ad un altro, giacché “La luna nelle baracche” è un apologo esteso, una storia emblematica di una situazione che ha una connotazione specifica nel tempo e nella geografia, ma rappresenta tutte quelle dinamiche in cui un’egemonia economica e produttiva schiaccia nel proprio ingranaggio gli uomini e le donne privandole non tanto e non solo del sostentamento materiale, ma anche della consapevolezza di sé.

Manzi ci consegna una denuncia della dinamica, mai superata dalla civiltà, tra oppressi e oppressori, tra sfruttati e sfruttatori, componendo la sua fisionomia complessa, di intellettuale forse individualista ma certamente profondamente coerente nello smascherare le disuguaglianze costruite e mantenute ad arte e nel cercare, fino alla fine, di non contribuire ad alimentarle.

“Non è mai troppo tardi” per seguirne le tracce.

Alberto Manzi

"La luna nelle baracche"

 

Edizioni di storia e letteratura, 2024

pp. 132, euro 16,00

Scrive...

M. Gloria Calì Insegnante di lettere alla media da oltre 20 anni, si occupa di curricolo, discipline, trasversalità, con particolare attenzione alle questioni della didattica del paesaggio. Direttrice di "insegnare".