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31/10/2016

Boris Pahor, "Quello che ho da dirvi..."

di Paolo Citran

Boris Pahor, scrittore triestino, classe 2013, autore di Necropoli, in cui tratta della sua reclusione in campo di concentramento, cittadino italiano di nazionalità slovena, come tiene a precisare nei suoi ancora frequenti e lucidi interventi in incontri pubblici, con ricordi ed esperienze di un ultracentenario, s’incontra più volte con un gruppo di studenti diciottenni e alcuni insegnanti del Liceo Scientifico “Luigi Magrini” e del’I.T.C.G. “Giuseppe Marchetti” di Gemona del Friuli. Nelle risultanti conversazioni, riportate nel volumetto, “la voce dei giovani ha chiesto, sollecitato, stimolato le risposte del ‘grande vecchio'". Pahor, come fosse un libro prezioso,  si è fatto sfogliare, dando vita a una fitta trama di storie, a un interminabile flusso di coscienza senza concedersi silenzi né reticenze. Ha toccato i temi più eterogenei, quali l’identità, la lingua, la scrittura, la vita, la guerra l’anima, le donne.

Ne è uscito "un libro dall’alto valore civile, etico e umano” (per citare il risvolto di copertina). Si tratta di una testimonianza  di una rara esperienza di vita, in una situazione in tutti i sensi di frontiera , con tutti i contrasti delle condizioni in cui si trovano complesse mescolanze culturali, etniche, linguistiche, ideologico-politiche.
Pahor ricorda il suo contrastato curriculum scolastico avverso agli sloveni d’Italia nel periodo fascista: il passaggio  forzato dalla scuola elementare di  lingua slovena a quella in lingua italiana (“l’Italia liberale aveva dato agli sloveni quattro classi elementari, ma appena salì al governo Mussolini tolse tutto con la legge Gentile. Fu un genocidio culturale”), il fallimento della frequenza del Biennio commerciale per motivi linguistici, e poi la frequenza a  Lubiana del Liceo da seminarista senza vocazione e l’esame di maturità svolto in Libia durante il servizio militare; ricorda ancora  il passaggio di Trieste dall’impero austro-ungarico all’Italia e al regime fascista, preannunciato  dall'incendio della Narodnij  dom, la Casa della Cultura triestina degli Sloveni, ad opera delle squadre di camice nere, evento simbolico di cui Pahor ha vivida memoria.

Lo scrittore parla altresì del mix culturale presente nella sua Trieste: “Italiani veri e propri a Trieste non ce ne sono. A Trieste siamo tutti misti, io dico scherzando che siamo tutti bastardi , anche se alcuni di noi hanno scelto e sviluppato la cultura italiana”. E lo stesso vale per la regione Friuli Venezia Giulia, in cui vivono friulani, italiani, sloveni e tedeschi. Ma Pahor precisa con forza la differenza tra “coscienza nazionale” (considerata positivamente) e  “nazionalismo” (del tutto rifiutato).
Nel libro si trova una molteplicità di riferimenti legati alla convivenza pacifica tra parlanti lingue diverse. Interessante il ricordo, durante il ventennio fascista, dell’italianizzazione di nomi e  cognomi (“A me hanno cambiato il nome di un figlio”). A  Trieste tra i cognomi “trasformati dal fascismo”, dice il vecchio scrittore, “la maggioranza è slovena ma vi sono anche nomi croati e qualche tedesco, greco, ceco”.
E ancora si ricordano la prima e la seconda guerra mondiale, la liberazione  di Trieste da parte delle truppe jugoslave di Tito, il campo di concentramento dell’isola Calva, Goti Olok, “un campo di concentramento comunista per gli stalinisti”. “Anche il popolo sloveno dopo il ’45 si comportò male. Quando il partito comunista prese il potere, il Comitato centrale, attraverso la polizia politica,  fece sparire della gente, in molti vennero gettati nelle foibe”.

Ma non sempre lo scrittore guarda al passato. Guardando al futuro, egli sfiora l’utopia: “Bisognerebbe trovare il modo di avere un governatore mondiale, qualcuno che possa gestire la Terra”. E poi c’è l’amore per i libri, la grande biblioteca di Prosecco, presso Trieste nella casa dello scrittore, dove  studenti e professori lo incontrano. Un capitolo del libro è dedicato all’ universo femminile: Pahor esorta le ragazze a non essere solo “brave mogli”, ma ad “occupare i posti chiave nella società”.

Come è evidente in queste citazioni, si può trovare nel libro un’esperienza didattica attraverso la trattazione di temi di grande interesse, di un mondo antico eppur vivo e vivace, espressi in un linguaggio piano, vicino al parlato. Consigliabile senz’altro come lettura per studentesse e studenti della secondaria di primo come di secondo grado.

Boris Pahor,  Quello che ho da dirvi. Dialogo tra generazioni lontane un secolo, Nuova  Dimensione, Portogruaro, 2015, pp.112, € 12.50.