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12/11/2015

"Educazione linguistica e innovazione": il seminario LEND-2015 - Parte I

a cura di Rosanna Angelelli

“Educazione Linguistica e Innovazione”, questo il titolo del Seminario Nazionale  LEND tenutosi a Roma il 23-24 ottobre scorso, dove il tema dell’innovazione è stato esaminato sotto tre prospettive:

1) Il curricolo,  da (ri)disegnare come strumento organizzativo dell’apprendimento, o come percorso di senso per alimentare un diverso tempo scuola.
2) Le metodologie, per sviluppare una efficace competenza plurilingue negli odierni contesti multilingui.
3) Gli strumenti, per realizzare l’innovazione curricolare e metodologica.

Sottostanti a queste tematiche si potevano individuare le Indicazioni 2012 e gli articoli della L. 107/2015 sull’educazione linguistica, sebbene (e questo a nostro parere va a merito dello sguardo “decentrato” del LEND) si sono illustrate diffusamente e autonomamente problematiche linguistiche oggetto di studi, di proposte e di esperienze didattiche nazionali e internazionali.

Le relazioni

Il filosofo Salvatore Natoli ha aperto il convegno parlando su “Processi cognitivi e dell’innovazione: contenuti e modi”. Di fronte al “nuovo”, gli strumenti cognitivi (percezione, sensibilità, pensiero) si rimodellano continuamente, ma ciò accade anche quando il “consueto” ci chiede di essere configurato in modo più dinamico, per poter aprire orizzonti di senso di maggiore efficacia. Non è detto che ci sia innovazione solo “in” e “per” contesti diversi dalla tradizione. Si possono scoprire nell’usuale strade e possibilità mai immaginate, in cui le lingue hanno una importanza centrale, innanzitutto a livello cognitivo. Perché, se “il pensiero è linguaggio”, allora “non è del tutto improprio ritenere che si pensa come si parla”.
Non solo, ma il linguaggio è un medium sociale prevalente, perché “sostiene la comunicazione e ne precede gli oggetti”, entrando in un discorso già avviato, dove il parlante appartiene alla “lingua che fa”, in genere la lingua madre. Ma oggi l’innovazione tecnologica, con la sua velocità comunicativa e la complessità dei dati che trasporta, comporta un diverso adattamento di pensiero e di lingua da parte di chi ne usa gli strumenti. Accanto al “fannullone mediatico”, si dispone il “bricoleur”, ma anche l’utente fortemente specializzato e/o creativo. Ed è anche diversa la motivazione dell’apprendimento linguistico: prima si sceglieva di apprendere l’altra lingua rispetto alla materna con finalità soprattutto culturali, oggi ci si trova coinvolti in una logica di appartenenza linguistica prevalentemente strumentale. Questa lingua “di servizio” (che è in genere l’inglese) è usata per comunicare e capirsi in funzione di certe esigenze pratiche (viaggi, transazioni di affari, lavori specifici). È una lingua “piccola”, il cui spessore storico culturale è stato semplificato da un accentuato uso strumentale, tanto che si potrebbe parlare, per l’inglese  di scambio, di una lingua “da età del bronzo”. Inoltre, il suo apprendimento, favorito anche da film, fiction, spot pubblicitari, testi di canzoni, e soprattutto da Internet, avviene per lo più fuori dalla scuola. Intrecciato  con l’impoverimento delle lingue veicolari internazionali (anche lo spagnolo sta subendo un processo semplificato) compare un fenomeno di polilinguismo legato al massiccio movimento migratorio, sia dei popoli che di singoli individui: come salvaguardare allora queste ibridazioni realizzando una sentita e profonda prossimità? “Se si vuole entrare nella profondità della comprensione, la lingua di servizio non basta più”. E “per capire il detto complesso, i retro pensieri, il non detto, si deve approfondire il livello di conoscenza, cosa che non vale solo in ambito psicologico e sociale, ma anche nell’uso specialistico delle lingue: per esempio, in un ambito scientifico, in quello artistico, per non parlare di un lusso quasi perso, quello di leggere i testi letterari nella loro lingua originaria”. Per non parlare, infine, della cancellazione della cultura, assai diversa dalla nostra, di quei popoli che entrano nelle nostre società con il loro inglese “di servizio” in una condizione di rischiosa subalternità.

Monica Barni  (Rettrice Università per Stranieri di Siena - LEND Segreteria nazionale) nel suo intervento  “Inserimento di lingue non comunitarie nella scuola italiana: quale innovazione?” in parte corrisponde alle problematiche di Salvatore Natoli, in parte ne apre altre. Dal convegno LEND - 2011 (“Lingue per un Cuore Europeo - Costruzione di una identità plurilingue e pluriculturale dell’Europa nel mondo”)  era emersa una situazione difficile, almeno in Italia, sullo stato della  didattica dell’inglese, di cui va tuttora ampliata l’offerta formativa, dal primo ciclo della primaria fino alla conclusione della secondaria. E va anche potenziata la sua applicazione in scopi e contesti culturali che permettano allo studente, secondo il progetto didattico CLIL, di muoversi in L2 trasversalmente in tutte le discipline del curricolo, in primis in quelle scientifiche. Questo “potenziamento” tuttavia non dovrebbe valere solo per l’inglese, né solo per la seconda lingua straniera (prescritta nelle  Indicazioni del 2012),  bensì per tutte le lingue di ogni studente comprese accanto e oltre alla materna, da qualsiasi parte del mondo egli provenga. Un progetto così ambizioso di arricchimento linguistico dovrebbe comportare il necessario innalzamento delle competenze dei docenti, che dovrebbero essere formati e aggiornati dall’università in una conoscenza specialistica della lingua di livello C2, se si chiede loro di insegnare anche una disciplina curricolare non linguistica in L2. E forse si dovrebbe strutturare in modo più complesso anche il test di valutazione finale dello studente, richiedendogli, per esempio, come accade in Inghilterra, anche una prova orale di livello C1. D’altro lato, in una società plurilingue, pluriculturale e tecnologicamente avanzata, si trarrebbe un notevole vantaggio formativo dall’insegnamento curricolare di più lingue, anche non comunitarie. Questo tipo di plurilinguismo, proprio perché si alimenta di codici culturali diversi dalle lingue della Comunità Europea (del resto di per sé molto numerose e variegate –se ne contano 24, ma sono molte di più-) da un lato contribuirebbe a creare nel Paese accogliente una maggiore apertura mentale verso “altre” culture e una comunicazione più “decentrata”; dall’altro incrementerebbe  nell’ospite accolto l’auto-fiducia, non essendogli cancellato il contesto culturale di provenienza; aumenterebbe infine in tutti i parlanti “quella creatività espressiva nata dal confronto tra sistemi linguistici e culture diversi”.

Anche Frank G. Königs  (Marburg,  Philipps-Universität) nel suo intervento “Vorhandene Ressourcen nutzen! – Aber welche sind das und wie geht das? Curriculare und methodische Aspekte einer Mehrsprachigkeitsdidaktik vom Lerner und für den Lerner” (trad. it. ‟Utilizzare le risorse a disposizione! ma quali e come? Aspetti curricolari e metodologici di una didattica plurilingue a misura di apprendente”) condivide con Barni il fatto che “il plurilinguismo è obiettivo auspicabile nell’insegnamento delle lingue straniere” e che “le conoscenze pregresse nelle lingue straniere vengono generalmente considerate utili ed efficaci per il suo raggiungimento”, ma vanno studiati gli elementi costitutivi dei vari patrimoni linguistici e adattati allo scopo i curricoli scolastici, per il momento ancora mirati a certi percorsi tradizionali. C’è anche bisogno di un cambiamento nell’assetto disciplinare, di cui dovrebbero interessarsi i Dipartimenti di ricerca all’università, e di una maggiore trasversalità nell’apprendimento dei contenuti a scuola, a partire dal segmento primario. In sostanza non si può improvvisare, ma si deve modificare bene ciò che c’è già, per innovare consapevolmente e gradualmente. 

Sulla linea di una innovazione preesistente da lungo tempo, ma da sviluppare in ulteriori forme di apprendimento e di produzione linguistica si è mosso l’intervento di Julián Serrano Heras (Facultad de Educación de Cuenca -UCLM) “Proyectos creativos en TICE”. La laboratorialità creativa in rete (di cui il docente si occupa da tempo) è assai utile alla realizzazione di un progetto plurilingue: la prospettiva pedagogica di una ricerca-azione viene perseguita in forme di creatività multimediale e polilingue, sfruttando tutti i canali comunicativi (radio, video, diapositive, slides, cd, ecc.) ed espressivi. “Gli allievi di lingua madre sono spinti a confrontare i propri elaborati con quelli degli altri apprendenti, associazioni e istituzioni, appartenenti a luoghi diversi e distanti, in una interazione organizzata che non solo sviluppa la socialità, ma crea lingua, scrittura, contenuti nuovi”. “Si costruisce un proprio universo cognitivo attraverso forme di cooperative-learning di sostegno, condivisione, discussione su un progetto comune. Ma c’è anche un altro vantaggio nell’uso creativo e personale, non passivo, della tecnologia: si riempie la distanza, anche linguistica, tra sapere umanistico, poetico, e sapere tecnico-pratico”.

François Mangenot, (Université Stendhal de Grenoble 3) nel suo intervento  “Apprendre avec les technologies: entre effets de mode et réelle innovation” cerca di smascherare taluni trionfalismi nei confronti delle TIC, dei loro utenti e dei loro intenti pedagogici. Da una breve storia delle tecnologie educative emergono da una parte le esagerazioni e le false promesse che hanno sostenuto la loro superficiale diffusione, ma  dall’altra alcune innovazioni pedagogiche sul futuro delle lingue. Le tecnologie vengono spesso viste come strumenti di moda o di necessità, in una valutazione che deforma anche le loro potenzialità più ampie. “Per esempio, c’è stata una bolla dello e-learning soprattutto negli USA, legata prevalentemente all’esplosione economica e finanziaria, mentre si è molto esagerato sul mito delle competenze dei nativi digitali ritenute superiori a quelle degli adulti”. In realtà “i contributi Internet per l'insegnamento/ apprendimento delle lingue, non dipendono tanto dalle caratteristiche dello strumento (velocità delle connessioni, multitasking mediatico ecc.) quanto dalla  progettazione dei contenuti da processare e/o raggiungere per lo studio e la comparazione”. Lo scenario pedagogico moderno deve senz’altro tendere all’integrazione e al plurilinguismo, ma “a partire da un approccio focalizzato sul compito”. Inoltre, l'unità classificatoria denominata "risorsa" non è fatta solo da ciò che abbiamo trovato su internet (contenuti, "pagine" e siti web, canali di comunicazione vari), ma “cerca anche di prendere in considerazione, in modo distintivo, l'attività del maestro e quella del discente”.
Per meglio evidenziare le potenzialità dello e-learnig Mangenot cita l’esperimento in corso di un particolare progetto di insegnamento/apprendimento online inaugurato da John Daniel (2012), e chiamato MOOCs (Massive Open Online Courses), cui anche l’università francese sta partecipando. I corsi sono gratuiti e l’apprendimento è continuo, i contenuti sono “aperti”, nel senso che non sono prestabiliti. Si tratta  di aiutare alla comprensione/produzione  gli utenti, senza far prevalere gli interessi di carattere commerciale. Gli studenti lavorano e cooperano insieme (peer education) aiutandosi reciprocamente, l’assegnazione dei compiti è progressiva, il coinvolgimento degli insegnanti minimo, mentre vi partecipano comunità di professionisti, e ci si può collegare a portali interattivi come fb, instagram ecc. “È un progetto nato da una visione descolarizzata dell’apprendimento (Illich) e dalla cultura del connessionismo (Varela)”. Si sta andando verso una classe universale, senza la centralità degli insegnanti (cfr. Daphne Roller, Computer Science Department, Stanford univ. ,2012), e verso un apprendimento digitalizzato di contenuti di lingua liberi dalle strategie disciplinari tradizionali e reperibili entro appositi scenari digitali per “scoprirli, apprenderli e riusarli” a seconda delle esigenze degli utenti.

James E. Purpura (Teachers College, Columbia University) parla di  “Innovations in the development of language assessments: Incorporating learning in scenario-based language assessments” soffermandosi sulle conseguenze che il cambiamento sociale, economico e il potere tecnologico hanno comportato nella formazione delle competenze necessarie non solo al mondo della ricerca ma a quello del lavoro e della vita quotidiana: oggi si ha bisogno di dare maggiore spessore alle competenze-base di ascolto e di letto-scrittura, con risposte idonee e con modalità molteplici dinanzi alla larga messe di informazioni provenienti da fonti diverse. Le tecnologie d’uso, che servono anche a mantenere le relazioni e a collaborare con soggetti sparsi  in tutto il mondo, spesso comunicano in contesti digitali in L2, e per dare soddisfazione a questi scambi per prima cosa si debbono ripensare i costrutti necessari a misurare i percorsi di accertamento dei livelli conseguiti, che devono essere più vasti e profondi. In genere, i percorsi di valutazione in uso misurano abilità generali astratte, con prove su come si è organizzato un contenuto o sulle caratteristiche grammaticali della lingua, senza intervenire sulla qualità di che cosa si è espresso. La conoscenza del tema o del contesto di solito non  fa parte della prova d’esame. Anche gli obbiettivi di senso richiesti sono spesso generici, dal momento che non corrispondono alla vita reale e ai contesti d’uso della lingua. Invece, per organizzare una valutazione che misuri negli esaminati abilità integrate e compiti inerenti a un contesto specifico, abbiamo bisogno di far percorrere agli studenti i passi di uno scenario complesso e radicato nella realtà. Il programma SBLA permette di verificare le abilità che si presumono necessarie ad acquisire un livello superiore di competenze integrate, il processo di conoscenza specifica intercorso, l’effetto di feedback, la disponibilità ad azioni di rinforzo (cfr.Turner & Purpura, 2014). Come esempio viene illustrato un esercizio sulla scelta tra due proposte per un viaggio di istruzione all’estero.

Per finire, Luciano Mariani (LEND Milano) nella sua relazione “Educazione linguistica e nuovi ambienti di apprendimento: tra “vecchie” e “nuove” alfabetizzazioni” considera che è avvenuto all’interno della relazione educativa un mutamento del rapporto tra studente e insegnante. Dalla centralità dell’insegnante ex cathedra, a quella dell’alunno nella pedagogia democatica si è arrivati a una sorta di intreccio a tre, in cui il terzo nodo è la “cosa” che succede durante lo scambio educativo. Nella odierna relazione educativa il sapere gira e rigira dinamicamente aprendosi a prospettive di conoscenza “aperta” e mutevole, cui il computer non è estraneo, anzi spesso ne diventa l’idoneo catalizzatore.
“A questo hanno contribuito due fenomeni: 1) un apprendimento sempre più sostenuto fuori dalla scuola; 2) un cambiamento dell’ambiente scolastico sempre più spesso collegato in rete. Il traît d’union dei due fenomeni è una motivazione forte allo scoprire, all’apprendere, al riusare, perché sono cambiati anche i profili di apprendimento e con essi i comportamenti”. Sull’uso delle tecnologie si sta sfatando l’opinione di una differenziazione in agibilità e abilità tra i nativi digitali e gli “immigrati” adulti. “Le differenze di livello non sono più generazionali, ma individuali e riguardano: esperienze e livelli educativi diversi; il mutamento del genere; il possesso di strumenti aggiornati e di connessioni efficaci ecc.” In questa situazione c’è un però: “gli studenti non sono a loro agio nello sfruttare le tecnologie ai fini dell’apprendimento”. Da una ricerca americana si traggono tre categorie di comportamento:1) lo studente hanging out, che ciondola, sempre connesso ai suoi pari, in luoghi virtuali dove realizza o negozia in un processo ipersociale un proprio senso del sé (che dà origine a nuove norme sociali); 2) il massing around, che armeggia per tentativi ed errori, ma con un limitato investimento personale, per lo più emotivo, ma comunque autodiretto; 3) il geeking out, che con una curiosità fanatica (è un esperto tra pari) si getta nella produzione di conoscenze di suo interesse per alimentare reti di comunità. “Al centro delle attività in rete gli scopi sono reali e per pubblici reali; l’apprendimento avviene per problemi e progetti; il rapporto non è autoritario perché il feedback è centrato sui prodotti ed è immediato”. E se “tutto questo è distante da una certa quotidianità della vita scolastica, non lo è dai principi pedagogici profondi” . E qui Mariani si riferisce a John Dewey, alla sua pedagogia della ricerca che si traduce in azione, in fare, e dove  gli strumenti utilizzati devono essere inquadrati in una cornice di senso. A questo fine allora vanno indirizzati e addestrati gli studenti: dal momento che essi hanno una percezione intuitiva degli scopi a cui gli strumenti tecnologici possono servire, un approccio cognitivo diverso li dovrebbe  rendere ancor più consapevoli dell’architettura di internet e della sua “grammatica” d’uso, per una comunicazione in rete e per la rete sempre più mirata e motivata. E se cambia l’approccio metacognitivo, cambia anche l’uso stesso del mezzo espressivo: ci si muove su codici diversi, ma si continua ancora a interagire molto in lingua. Si tratterà allora di lavorare meglio sui testi da reperirsi in rete, selezionandoli e parafrasandoli in modo più analitico;  confrontandoli con altri testi; imparando a scoprire la loro identità specifica e la loro provenienza; distanziandosi e differenziandosi consapevolmente tra i vari apporti senza limitarsi ad attraversarli frettolosamente. Ma si tratta anche di produrre testi “nuovi”, creandoli per pezzi e  montandoli con la collaborazione di tutta una comunità, perché “si tratta di individuare in modo critico ciò che si vorrebbe che succedesse nel futuro della nostra conoscenza e della nostra vita”.

Segue ....