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una recensioneoltre la lavagna

06/07/2014

Eraldo Affinati, "Elogio del ripetente"

di Rosanna Angelelli

Gli scrutini sono passati, gli esami di III media si sono conclusi, quelli di Stato sono agli sgoccioli, così il libro di Affinati rischia di diventare “inattuale” sia pure per poco: a settembre inizierà il nuovo anno scolastico e con esso si ricomincerà con i problemi dei bocciati e della dispersione.
Sulla copertina del libro un asinello collodiano raglia il nome dell’autore e il titolo; una delicata libellula dettaglia la collana editoriale; il testo è anticipato da una citazione da Le avventure di Pinocchio contro le “schole” e la “Larin Metica”. Insomma tutto è orchestrato in modo da dare ironica leggerezza all’ossimoro del titolo: elogi e non reprimende vanno tributati al ripetente. Considerato di solito una figura se non negativa alquanto difficile, questa sconcertante valorizzazione induce nel lettore perplessità e ripensamenti.
Affinati non è un insegnante buonista, né un nostalgico cultore del sei generalizzato, tra le tante cose che ha scritto e ha fatto ha fondato una scuola per l’insegnamento agli stranieri di italiano come L2 e, come spiega a p. 64, dopo aver fatto due esempi sull’uso generalizzato di droghe da parte dei giovani d’oggi ed essersi confrontato con il proprio vissuto giovanile (né da “guerriero” né da “santo”) “ la vera libertà non vuol dire superare il limite ma, paradossalmente accettarlo”.

Ma che cosa c’entra l’elogio del ripetente con questo invito all’adattamento? È che il ripetente non è né solo un Lucignolo, simpatica preda di quelle piacevoli pulsioni trasgressive e libertarie che nella morale della fiaba lo porteranno a un imbestiamento autodistruttivo, né solo un Pinocchio che sbaglia, e che la scuola-società con occhi di adulto (quasi) giustamente respinge, senza prospettargli facili possibili chance.
Il problema del ripetente reale sta tutto tra quel “quasi” di giustizia e “quella” distanza del sé rispetto all’istituzione. Nella favola questa zona franca è nitidamente separata, nella realtà no, anzi studente e scuola sono entrambi preda di un reciproco sogno impossibile: per Pinocchio quello della libertà assoluta, per la scuola di un facile e felice compito educativo. In questo modo l’insuccesso dell’uno può diventare il limite per l’altra, la distanza, un rigetto istituzionale, la devianza, una dispersione definitiva. Ma se la condizione del ripetente è simmetrica e strettamente legata alle difficoltà della istituzione che lo ha “respinto”, si capisce come lui vada “elogiato” perché testimone significativo di un meccanismo che potrebbe funzionare o no solo con l’empatia o con il rigetto reciproco.

Ad Affinati tuttavia interessa riflettere di più sulla conseguenza che non sull’evento negativo che l’ha provocata: un ripetente per essere tale deve essere stato un bocciato, ma lo scrittore nella sua disamina preferisce partire dal ripetente. Perché l’autore sceglie di saltare un passaggio? Per rendere il dramma meno patetico? Forse, ma possiamo anche ipotizzare che lui abbia fatto così perché è un autentico educatore del recupero.

Questa straordinaria capacità non è certo posseduta da tutti noi insegnanti: ci sono quelli che bocciano (quasi) giustamente, e quelli che fanno recuperare, o che per lo meno ci provano; quelli un po’ furbini che non bocciano “perché tanto ormai il livello è questo, lo [studente] l’abbiamo fatto arrivare fin qui, diamogli una chance…”. Quante volte abbiamo pensato o detto così specie in uno scrutinio di ammissione agli esami, pronti a stracciarci le vesti e a gridare all’ingiustizia se l’interessato, magari per una sua verve o fortuna segreta, è riuscito a strappare una promozione un tantino più consistente di quella del “bravo ragazzo, un po’ limitato, ma tanto studioso!”. Ci sono poi quelli prudenti che non bocciano perché non vogliono grane (atteggiamento spesso caldeggiato da certa Dirigenza Scolastica…), o perché, insicuri, non si sentono tranquilli sulla qualità del lavoro svolto (ce ne sono, e non è detto che siano gli insegnanti meno motivati o meno preparati). In genere tutta questa casistica (e molto di più) ha fatto il successo tragicomico dei film e delle scritture romanzate sulla scuola tanto care a un Paese superficiale (e punitivo) come il nostro.
Chiudo questa parte del ragionamento ricordando che “bocciare” è voce mediata dall’inglese (to) blackball “dare la palla nera”, e da quel gioco italiano, in cui bocciare vuol dire colpire il pallino o la palla dell’avversario, ma talvolta anche la nostra. I suoi sinonimi non sono meno negativi: respinto, scartato, (fam.) trombato. ‖ escluso, estromesso, silurato.

Avendo individuato che l’intenzione del recupero è centrale, capiamo anche un altro aspetto dell’elogio del ripetente: le sue indubbie caratteristiche di devianza e di “originalità”, per essere capite, vanno osservate dall’insegnante che lo ri-accoglie con occhi altrettanto deviati e originali. Non si può in sostanza far recuperare qualcuno utilizzando lo stesso armamentario relazionale e didattico che ha contribuito al suo fallimento.
Il ripetente smaschera dunque le magagne, le incongruenze e le incompletezze della scuola, ma anche le debolezze dell’insegnante. Senza voler fare le colpe alla fallibilità umana, la prima scoperta dolorosa che un insegnante fa di fronte alla difficoltà di un recupero, di un qualsiasi recupero, è della fragilità della propria presunta onnipotenza. Questo accade soprattutto se l’insegnante quando era studente non ha avuto grossi problemi nell’apprendimento e nella sua maturazione psicologica. In sostanza, il ripetente per essere aiutato a superare il disagio di una bocciatura richiede una messa in discussione continua della formazione e del vissuto dell’insegnante che ha a che fare con lui.

L’insegnante si trova in classe uno sconosciuto - in genere non è stato lui a bocciarlo- e deve prendere misure di accoglienza e di decifrazione di un “passato senza storia” in modo spesso improvvisato e intuitivo. E non è detto che la nuova relazione che si vorrebbe instaurare riesca. Perché, come spiega bene Affinati (p. 16 e  segg.), la famiglia, il contesto affettivo e sociale del ripetente compaiono al secondo posto tra le cause di ciò che non ha funzionato “prima”. Al primo sono i rapporti con i professori: “Ci avevano preso di mira e noi abbiamo reagito” (rigando l’auto dell’insegnante o facendogli un gavettone). “Spero di riconquistare la fiducia dei miei genitori”, a un certo punto dice un ragazzo, sostenuto anche da un suo amico.
Ma come sono i genitori? Anche qui Affinati si confronta e li confronta con la propria esperienza: “Fino a qualche tempo fa incontravo signori di mezza età che si sedevano compunti e fiduciosi di fronte a me, pronti ad ascoltarmi; non credo fossero migliori di quelli venuti dopo, ma sembravano (mio è il corsivo) più sereni…” (p. 18) e ancora: “Oggi i genitori degli studenti sono ragazze fragili col trucco troppo vistoso e i vestiti non appropriati, giovanotti ricoperti di tatuaggi, commesse dall’aria scarmigliata, operai in tuta… hanno le facce stanche, l’aria indaffarata, lo sguardo spento. Molto spesso litigano davanti al figlio formulando la classica frase dell’educazione sbagliata. «Di cosa ti puoi lamentare? Non ti abbiamo fatto mancare niente!»”.
Sono descrizioni e interazioni molto comuni, addirittura banali, come è dolorosamente scontata l’escalation punitivo-difensiva (di se stesso, del suo ruolo, della dignità del suo lavoro) da parte del prof incapace di sbloccare un comportamento negativo: la nota; la sospensione; l’autoesclusione (del ripetente); la propria come adulto educatore.

Ma come si fa? Come si fa a evitare il chiasso del cambio dell’ora e l’ingresso in una classe convulsa? Si grida a nostra volta? Si sbatte via il registro? Affinati dice che non esistono metodi risolutivi, che dipende dal carattere dell’insegnante, dalla sua sensibilità, dall’educazione ricevuta e dalle reazioni elaborate nel corso degli anni, dal modo anche di guardare dritto negli occhi… E che va trasformata l’ipocrisia del presunto distacco del ruolo in “esperienza conoscitiva”, si deve “tirar fuori, prima ancora che gli artigli”, se stessi, muovere la sfera radicale dell’a-tu-per-tu, saper dire di no, perché “oggi i ragazzi sono lasciati nel vuoto dialettico, privi di ostacoli da superare” (ma penso che la situazione oggi sia ancora più grave, guidata com’è da una scuola smarrita e confusa e dall’assenza di convincenti motivazioni allo studio). Gli insegnanti restano per lo più gli unici adulti che li richiamano ai “valori della serietà, del rigore e della concentrazione in una società che punta sulla bellezza, sulla sanità e sulla ricchezza. Due solitudini lancinanti.” (p. 25).

Bisogna aprire le maglie della didattica, chiarirsi sui criteri di valutazione, sulla laboratorialità, sui contenuti programmatici, sulle cognizioni psicologiche ecc., ma a mio parere bisogna anche gridare forte e chiaro il dolore di una professione che ha in sé un alto (ma sottaciuto) livello di burn out.

 

 

Eraldo Affinati, Elogio del ripetente, Mondadori, Milano, 2013, pagg. 150, euro 10.