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una recensioneoltre la lavagna

26/08/2018

Giovanni Floris, "Ultimo banco"

di M. Gloria Calì

Tutti coloro che scrivono di scuola (giornalisti, psicanalisti, economisti… ) a un certo punto, quasi trascinati da un ineluttabile impulso introspettivo, tirano fuori  un ricordo personale, un episodio determinante, prevalentemente di segno negativo, per la formazione della loro personalità, che ce li mostra nella fase “scolastica” della loro esistenza.
Giovanni Floris, nel suo “Ultimo banco”, non fa eccezione, ma gli perdoniamo volentieri lo scivolone nell’”io”, per altro piacevole da leggere, per tanti motivi, primo tra tutti per il fatto di essere figlio di una professoressa, di quelle che studiano, per sé e per i loro alunni.

Altro buon motivo per comprendere la parentesi autobiografica è che l’autore parla di sé solo come di uno dei tantissimi esempi di rapporto tra cittadino e scuola, e, soprattutto, solo dopo aver parlato di scuola  con tantissime persone ad essa appartenenti: non solo insegnanti, che sono comunemente santificati o demonizzati dall’opinione pubblica a seconda dell’ondata di cronaca, ma anche presidi e vicepresidi, insegnanti di sostegno. Incontri e dialoghi che diventano importantissimi nel costruire il quadro complessivo perché servono per fornire al lettore, che conosce la scuola “dal di fuori”, un’apertura sulla realtà professionale indubbiamente sincera, pur nella parzialità inevitabile del punto di vista. Per evitare questa parzialità, Floris avrebbe potuto rifugiarsi nei dati e nelle statistiche e sarebbe stato pure da aspettarselo da un buon giornalista d’inchiesta come lui, e in effetti nel libro i numeri ci sono, ma essi non sono invadenti dato che il libro non è un report, un commento ai dati; i numeri, pur presenti, lasciano uno spazio significativo alle percezioni e, soprattutto, a ciò che della scuola costituisce il fattore-motore non misurabile: le relazioni.

La scuola ha una responsabilità potenziale enorme, insita nella sua stessa natura: cambiare i destini dei cittadini, e quindi della società intera. Questa potenzialità è di fatto inespressa, anzi spesso l’effetto reale è contrario, e qua Floris non fa sconti alla scuola e ragiona sostenendosi con le cifre, che, come dicevamo sopra, lui usa con parsimonia, ma per questo aspetto parlano chiaramente: i destini degli studenti sono spesso “segnati” dalle origini familiari, che condizionano il successo formativo. Floris ha chiare le idee sul fatto che la scuola deve dare “uguaglianza di partenza”, come dice l’autore; il suo compito di base è quello di “metterti davanti la vertiginosa infinità delle strade possibili, che la famiglia d’origine non è in grado di mostrarti”.

Il testo si dipana attraverso tutti i must del discorso, pubblico, pubblicistico e giornalistico sulla scuola: il digitale, il bullismo, l’inclusione… senza mai scadere nel didascalico, nel personale o, peggio nell’opinionistico. Per ogni tematica, l’autore espone il problema, ne evidenzia gli aspetti importanti, fornisce esempi emblematici o estremi, dice la sua senza perdere mai di vista il centro del suo ragionamento, cioè la dinamica fondamentale tra funzionamento del sistema scuola e funzionamento dello Stato.
Singolare evidenza, a questo riguardo, viene data al “clima delle aule”, scolastiche e/o parlamentari, giacchè Floris evidenzia come entrambe siano affette da mali perniciosi e corrosivi: la semplificazione dei ragionamenti e delle narrazioni, la violenza, il disprezzo dell’autorità così come della conoscenza  nelle relazioni e nelle scelte, prima che nelle dinamiche economiche. Tra società e scuola, non c’è un colpevole originario cui attribuire  l’inquinamento  che caratterizza negli ultimi tempi quel “clima d’aula”, sia che si tratti di una qualsiasi III C o di Palazzo Madama. La crisi, secondo Floris, è maturata nei “decenni di sprechi” che l’Italia ha attraversato, e che hanno logorato la tenuta culturale e sociale del paese.

In sostanza, per Floris non è concepibile parlare di Stato italiano senza fare riferimento alla scuola italiana: essa è l’unico luogo che permetta una relazione positiva tra la conoscenza e chi deve condividerla, acquisirla e accrescerla. Da ciò lo straordinario potere politico che l’autore attribuisce alla scuola: se la conoscenza è ciò che permette alle persone di “diventare se stesse”, di agire e di scegliere, essa è uno strumento politico e chi governa deve perciò rispettare e proteggere il luogo di coltivazione della conoscenza  e il suo ruolo. D’altro canto, chi lavora nella scuola, sostiene Floris, prima di chiedere il riconoscimento economico del proprio lavoro, come se avesse una misura quantificabile, deve chiedere a se stesso la “competenza”.

Un ultimo, essenziale, motivo che rende adatto a questo libro il termine “rispettoso” è il fatto che non dà ricette né modelli, soprattutto non dice come dev’essere il docente, o il genitore, o “la scuola”, cioè la singola istituzione. Piuttosto che dare soluzioni, Floris preferisce far parlare i fatti, e tra questi gli sforzi degli insegnanti per far bene il proprio lavoro o per scansarsi dalle complicazioni, i comportamenti dei genitori verso la vita scolastica dei propri figli, evidenziando stereotipi ma anche molte distorsioni. La direzione positiva che costituisce il suo slancio di speranza emerge quasi alla fine del libro e non riguarda, sorprendentemente, un piano di riforme strutturali, o di assetti organizzativi, o di approcci individuali della scuola o dei suoi operatori. La sua proposta è una rivoluzione, in cui scuola e non-scuola siano una cosa sola. “Dobbiamo alzarci, prendere i libri e i quaderni. […] Tocca impegnarsi. Ma studiare è meglio di non studiare, sapere è meglio di non sapere”.
 

 

Giovanni Floris,
Ultimo banco. Perché insegnanti e studenti possono salvare l'Italia,
Solferino, 2018, pp. 208, Euro 15 (epub  € 8,5)