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tre domande all'autoreoltre la lavagna

02/12/2014

"Per un'idea di scuola" di Massimo Baldacci

a cura di Rosanna Angelelli

Massimo Baldacci, 

Per un’idea di scuola- Istruzione, lavoro e democrazia,

Franco Angeli, Milano 2014,
pp. 152, euro 20.00

Seguono tre domande all'autore

Massimo Baldacci è ordinario di pedagogia generale e prorettore ai processi formativi presso l’Università di Urbino. I suoi campi di studio sono molteplici, dal momento che  in lui l’interesse per le problematiche pedagogiche strettamente legate  all’educazione scolastica coesiste con l’analisi di quei “processi formativi” necessari a operare nella ricerca, nella scuola, nella società.

In questo saggio, l’intento che ha guidato Baldacci alla stesura di una sua idea di scuola, secondo quanto da lui affermato nell’introduzione, è conforme a una pedagogia militante e schierata.

La domanda d’inizio è la seguente: su quale idea di scuola si possono concepire “le politiche scolastiche e il concreto funzionamento del sistema di istruzione”?
Per Baldacci non ci può essere che questa risposta: se la politica, per essere incisiva in un settore istituzionale tanto delicato e importante,  non ha un’idea di fondo, essa “naviga a vista e il sistema scolastico rischia di andare alla deriva” insieme con i percorsi formativi, a loro volta astratti  e scarsamente “operativi”. Non solo, ma questa idea si deve confrontare con la crisi e le rigidità dei tempi: per rinnovare la scuola c’è bisogno di rompere quelle gabbie del pensiero liberista in cui la politica della Destra, a prevalenza  berlusconiana, l’hanno chiusa da quasi vent’anni. A Baldacci appare   illusorio e ingannevole fare modifiche utilitaristiche entro le medesime gabbie, o, se il lettore preferisce, “cornici”, secondo un concetto caro alla cultura di Gregory Bateson, più volte citato nella prima parte del saggio.

Questa diversa idea di scuola concreta, i cui intenti etico-sociali debbono riguardare una effettiva formazione culturale e di cittadinanza, va elaborata in rapporto allo scenario storico-sociale  reale dell’Italia, e con uno sforzo di rinnovamento proveniente da tutte le componenti del nostro Paese: intellettuali accademici, studiosi, insegnanti, forze sociali, sindacati, associazioni professionali, imprenditoriali, culturali. Solo in questo modo l’impegno pedagogico si può qualificare come schierato, progressista, laico e critico, un impegno che ci appare alquanto divergente rispetto al sentire e ai progetti della politica attuale.

Il saggio è diviso in tre parti. Nella prima (“L’idea di scuola come cornice per la formazione”) si riassumono i valori ideali democratici di riferimento (si cita più volte Gramsci), il progetto pedagogico (qui il riferimento è a Dewey) e, per quanto riguarda la storia istituzionale della scuola, le riforme cardinali su cui fu fondato e si è sviluppato il suo profilo nell’Italia moderna. Con l’avvento della Repubblica c’è stato un indubbio disegno riformatore democratico con intenti educativi in esso profondamente radicati, perché richiesti e caldeggiati dalla società italiana e non solo dalle varie politiche governative (si pensi alla riforma della Scuola media unica, un obbiettivo cui aspirarono e cooperarono tante componenti del nostro Paese, compresi i mass media).

A partire dagli anni Novanta, dopo l’ultimo tentativo fallito di riforma complessiva di Luigi Berlinguer,  lo scollamento tra società e politica si è fatto sempre più forte. All’apparenza si è proceduto a riformare, ma sulla base di  iniziative esteriori ed esterne, spesso inventate entro una comparazione superficiale tra l’Italia e un improbabile thatcherismo anglosassone: una velleitaria modernizzazione socio-tecnologica, una risibile visione aziendalistica della scuola che certamente azienda non è (e Baldacci si augura che non lo diventi mai), iniziative anacronistiche di un presunto “ritorno all’ordine”. Tutto questo è miseramente fallito in profondità, ma di tutto questo è rimasta la suggestione, spesso ancora più pericolosa nella sua rigida artificiosità, in concetti quali “personalizzazione” “meritocrazia” “capitale umano”, ecc., estesi con grande leggerezza a complessi processi antropologici e sociali che non hanno a che fare direttamente con la scuola.

“Di questa vicenda fa parte la tendenza a separare la formazione dei ceti dirigenti da quella dei ceti subalterni, così da mantenere rapporti di potere gerarchici e privilegi sociali” (p. 20) e, in generale “si è mantenuto e perdura questo conflitto tra una tendenza a gerarchizzare la formazione e una tendenza verso un progresso culturale di massa”, con forme di selezione perseguite e realizzate attraverso “dimensioni curricolari, didattiche e istituzionali”, di cui l’evasione dall’obbligo, la canalizzazione precoce, le bocciature, un insegnamento poco rigoroso sono gli aspetti più vistosi.

Nella II parte del libro (“Lineamenti dell’idea di scuola”) si discutono i due paradigmi economico-politici della formazione: il primo, quello del “capitale umano”, “volto essenzialmente alla preparazione di produttori efficienti”; il secondo, riferito allo “sviluppo umano”, è teso “all’espansione delle libertà sostanziali dei cittadini.”

Nella III parte (“Dall’dea di scuola a un paradigma di scuola”), si raccolgono i dati man mano in precedenza ricavati  per delineare i punti nodali e di passaggio, i principi, dell’ idea di scuola. Essi vengono accuratamente elencati nel paragrafo 12 (p. 142 segg.) e partono dal compito fondamentale della scuola come comunità democratica: istruire ed educare “attraverso l’istruzione”. Tanto è vero questo che la scuola dell’obbligo deve “garantire un’alfabetizzazione forte” tenendo unito l’asse culturale umanistico con quello tecnologico-scientifico. L’obbiettivo è di formare non solo il futuro lavoratore, ma l’uomo completo, insieme cittadino e produttore. Da qui i tempi lunghi dell’obbligo scolastico che dovrebbe  iniziare almeno “dall’ultimo anno della scuola dell’infanzia… fino ai 16 anni”, dove la “individualizzazione” delle conoscenze e delle competenze di cittadinanza si integrino alla “personalizzazione”, cioè allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno studente.

Il saggio si conclude con l’enunciazione di due principi riguardo la questione delicatissima del merito: il primo deve “privilegiare l’uguaglianza delle opportunità”, essendo noto quanto taluni ambienti sociali ostacolino e addirittura impediscano l’esplicitazione delle potenzialità non solo del singolo studente, ma anche del gruppo scuola di appartenenza; il secondo si rivolge all’alta formazione (universitaria e postuniversitaria) che “non deve essere ostaggio di privilegi acquisiti o logiche nepotistiche”.

Auguriamo a tutti noi il successo innanzitutto civile di questa idea di scuola di cui c'è davvero bisogno!


 

Tre domande all'autore 
Risponde Massimo Baldacci


Lei cita come ultimi esempi di un progetto riformatore complessivo la riforma di Luigi Berlinguer e quella di Letizia Moratti, entrambi solo in minima parte realizzati: come mai questa difficoltà sia da sinistra che da destra di realizzare un cambiamento su un’idea “forte” di scuola? I loro progetti si sono impediti a vicenda, o davvero la società italiana non è più in grado di esprimere un’idea forte di scuola… e forse la scuola un’idea forte di sé?

Credo che sulla difficoltà di esprimere un’idea di scuola nel senso forte del termine tendano a pesare due differenti fattori. Da un lato, rispetto a un’epoca complessa e in transizione come quella che stiamo attraversando, mettere a punto un’idea di scuola all’altezza dei tempi è indubbiamente difficile. Richiede un’analisi storico-sociale-culturale di ampio respiro, ma non basta. Non si può concepire un’idea di scuola in astratto, senza tenere conto della scuola che abbiamo. Perciò, si tratta di pensare i nuovi scenari formativi, ma anche di rielaborare criticamente l’attuale modello di scuola senza prescindere da esso. Detto alla buona, non basta capire di quale scuola ci sarebbe bisogno, occorre anche comprendere quale scuola possiamo avere, tenendo conto che il cambiamento di un’istituzione come quella scolastica è un processo che ha le sue esigenze interne. Dovendo tenere in equilibrio queste esigenze contrastanti di cambiamento e di continuità, la messa a punto di un’idea di scuola è un’operazione intrinsecamente difficile, il cui esito è sempre contestabile. Perciò, essa dovrebbe essere il frutto ampiamente condiviso di un processo partecipato, al quale contribuiscano vari tipi di soggetti. E qui interviene il secondo fattore. Il tendenziale bipolarismo che ha fino a ora caratterizzato la seconda repubblica ha fatto della scuola un terreno di scontro ideologico, ma questo è per certi versi inevitabile. Il fatto aggiuntivo è stata la scarsa propensione a ricercare soluzioni condivise attraverso compromessi di elevato livello, capaci di raccogliere un ampio consenso parlamentare. Si è preferito cercare di imporre soluzioni di parte a colpi di maggioranza, col risultato che l’alternanza di governo si è tramutata nella volatilità dei progetti per la scuola, portando a rinunciare a un’idea di scuola organica, come si è visto chiaramente a partire dal ministro Gelmini. Ma ciò non toglie che mettere a punto un’idea di scuola sia necessario sia in sede politica, sia in sede di pratica formativa. 

Nel cap. 11 lei, citando anche Marx, considera che il rapporto tra la distribuzione del prodotto sociale e gli stessi mezzi di produzione siano in reciproca dialettica, e precisa che nell’economia attuale “il cosiddetto capitale umano è diventato il principale fattore produttivo”, da cui deriva il problema delle distribuzioni delle competenze, “ossia della loro formazione nel corso del curricolo scolastico e universitario”. In che misura ritiene che la scuola sia riuscita ad assumere e rielaborare una idea e una pratica non aziendalista delle “competenze”, così come spesso anche i documenti europei ci invitano a fare?

Ritengo che la scuola abbia mostrato una sana diffidenza verso una interpretazione meramente aziendalista delle competenze. Ovviamente, sarebbe errato e  anacronistico sostenere che la scuola non deve preoccuparsi della formazione dei futuri lavoratori, per limitarsi a celebrare un sapere formale e retorico. Ma di competenze non si deve parlare soltanto a proposito della formazione del produttore, ma anche e soprattutto in relazione all’educazione del cittadino. Soltanto legando la questione delle competenze a un orizzonte di finalità educative adeguamentente articolato, si può impedire un approccio riduttivo e strumentale alla loro formazione. Inoltre,il costrutto della competenza non è stato adeguatamente chiarito, e anche questo ha contribuito a favorirne versioni riduttive, che si prestano a un funzionalismo economicista di basso livello. Basta pensare alla tendenza a presentare le competenze come legate al mero saper fare, o al massimo come una connessione tra il sapere e il saper fare, lasciando solitamente fuori il saper pensare, che va invece visto come ingrediente fondamentale di competenze di profilo elevato, come quelle che dobbiamo richiedere alla scuola.

Nel libro sono ampiamente discusse quelle finalità dell’educazione che nel suo Trattato di Pedagogia generale (Carocci, 2012) sono definite come “formazione dell’uomo, del produttore  e del cittadino” e che ricorrono anche nel titolo di questo volume. Quali novità, secondo lei, apporta la “Buona scuola” proposta dal Premier nella complessa dialettica fra queste finalità? La scuola è consapevole della posta in gioco?

Il documento sulla Buona scuola ha avuto il merito di riattivare il dibattito sociale sulla scuola, ma mi pare soffrire di almeno due limiti.
In primo luogo, non si parte da un’idea organica e unitaria. Perciò, il documento ha la struttura di un conglomerato, è fatto di pezzi tenuti insieme con un collante velatamente ideologico (un economicismo di sapore neoliberista). Ovviamente, ciò non impedisce che vi siano dentro anche cose apprezzabili.
In secondo luogo, l’impianto mi pare unilaterale. Si dà molto spazio al rapporto col mondo del lavoro e alla formazione dei futuri produttori (e questo è sicuramente condivisibile). Ma non si dà pari attenzione al nesso scuola/democrazia, e quindi alla formazione dei nuovi cittadini, in grado di partecipare consapevolmente, con autonomia e spirito critico, ai processi storico-politici della propria epoca. Potrei aggiungere che il rapporto scuola/lavoro mi sembra impostato in maniera troppo diretta e meccanica, mentre il problema è quello di concepire le forme di mediazione necessarie tra queste sfere d’esperienza.
Sinceramente, la parte riflessiva della scuola militante, che si esprime nell’associazionismo degli insegnanti, mi sembra molto più consapevole della posta in gioco.

Tre domande all'autore
Tre domande all'autore raccoglie, attorno a un libro significativo, una recensione e una breve intervista all'autore su alcune questioni che insegnare ritiene di particolare importanza e rilievo fra quelle affrontate nel volume.


L'immagine: Giorgio Vasari, Sei poeti toscani (1544). Minneapolis Institute of Arts, USA.