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27/12/2022

L'imprinting iniziale della differenza di genere

di Rosanna Angelelli

Io sono gemella, di un fratello maschio, e sono nata durante la guerra. Per ignoranza della levatrice che allora, e soprattutto in provincia, controllava la gravidanza delle donne, mia mamma non sapeva di aspettare due figli e quando fui partorita subito dopo mio fratello nacqui inattesa.
Questo imprevisto  si sarebbe potuto rapidamente sdrammatizzare, ma mamma e papà durante la gravidanza come primo figlio avevano desiderato  fortemente un maschio:  il corredino, infatti, era tutto celeste,  tranne qualche capo semplicemente... bianco! Mia nonna acquistò  a fatica e a un prezzo esorbitante (c'erano la guerra e il mercato nero...) della lana rosa e si mise a sferruzzare giorno e notte di buona lena. Evidentemente sarebbe apparsa una eresia mostrare in pubblico una nipotina vestita di celeste... E quando poi si dovette prendere la decisione su chi dei due neonati fosse allattabile al seno fu scelto mio fratello... decisione su cui mia mamma non seppe mai darmi una risposta razionale, anzi,  per lungo tempo mi ingannò dandomi a intendere  che lei avesse allattato entrambi. 

Oggi scrivo tutto questo con equilibrata distanza dal passato remoto, proprio perché le mie tante battaglie per esplicitare la mia unicità con modalità diverse dalle etichette della tradizione  (sarebbe rimasto solo il  nome proprio a puntualizzare l'evoluzione delle tante Rosanne in crescita)  hanno avuto un ragionevole successo personale. Nel frattempo la riflessione culturale, antropologica, sociologica e psicologica sulle dominanze dei ruoli di genere e quindi dei comportamenti tra maschi e femmine è stata, almeno a partire dagli anni Sessanta, molto ampia e sostenuta da convincenti evidenze scientifiche.
Pur essendo la mia  una storia molto situata in una piccola città  di provincia del Centro Italia,  certamente il far vivere con pari diritti o per lo meno senza reticenze una distinzione che non discrimini né l'una né  l'altro dei due bambini significa anche, e soprattutto, che la comunità di vita riconosca e agevoli le azioni, le esperienze  dell'interessata/o in questione.  Anche perché  il riconoscimento riflessivo di noi stessi, dei nostri piaceri e desideri si esercita oltreché  nell'immaginazione di genere nella sua applicazione in esperienze concrete di vita.

Così  il saggio di Elena Belotti Gianini Dalla parte delle Bambine (1973) giunse a un punto della mia riflessione sul femminile assai appropriato, essendo una indagine sull'imprinting iniziale della differenza, vale a dire su quell'approccio diversificato di accoglienza e di inserimento relazionale della "bambina" rispetto al "bambino". E dunque Elena Belotti ci ha fatto riflettere sull'abbigliamento (rigorosamente rosa, niente pantaloncini, ma pizzi e fiocchetti, cuffiette e papaline, borsettine e accessori per i capelli, ecc.), sui giocattoli (bambole in quantità, batterie da cucina e  casette arredate in miniatura, trottole, cerchietti, ecc.), sui giochi ("alle signore", alla mamma, e, se proprio si voleva sgambettare, a palla, al salto della corda, alla campana, a rubabandiera ecc.). Il rispetto di tutto questo armamentario differenziato rispetto al maschile avrebbe dovuto assicurare il mantenimento di un ordine, di una linearità trasmessi dalle società tradizionaliste a ridosso della modernizzazione. Per fortuna non fu così, anche se la nostalgia di questo assetto si riaffaccia da tempo nella contemporaneità.  
Ma Elena Belotti ci faceva riflettere anche sul linguaggio dell' educazione e della comunicazione: quello "Stai composta!" continuo, il non "Fare il maschiaccio", quando giocavo sfrenatamente a rincorrere mio fratello, "Sii rimissiva, sei un femminuccia", quando c'era la gara a chi potesse leggere per primo un nuovo giornalino, l'imparare a salmodiare durante la benedizione con la nonna e le vecchie amiche non sono stati comandamenti veniali. Ripetuti per tanti anni sarebbero serviti a plasmare  identità valoriali diverse, minate da un senso di sotterranea scontentezza, di permanente inadeguatezza dalla parte di "quella" bambina ma anche di "quel" bambino. Fino a esplodere in cieca ribellione dell'una rispetto alla competizione dell'altro. Perché nell'emancipazione delle donne c'è stato e c'è ancora un effetto soglia superabile in un drammatico rovesciamento e rifiuto dei ruoli, pieno di lutto e nostalgia per un Eden fantasmatico che non c'è stato mai a causa della cristallizzazione dei generi.

Dalla parte delle bambine a scuola, uno degli effetti soglia di rottura per la mia generazione è stato l'andare oltre ai 9 anni di istruzione. Non feci in tempo a frequentare la Scuola Media Unica ma ne ho visto il successo dopo, da insegnante alle prime armi: non c'era più l'esame di ammissione, si frequentava in classi miste una scuola pubblica unica, si ridimensionava l'apartheid di genere di certe materie quali Economia domestica versus Applicazioni tecniche.
L'orientamento successivo all'obbligo permetteva scelte paritarie, anche se spesso si continuava a valutare i profili in uscita delle ragazze con criteri "maschilisti", nel senso che di loro si evidenziavano la sensibilità, lo psicologismo, la grazia di scrittura, la sistematicità, mettendo in secondo piano (anche quando era evidente) la curiosità scientifica. Anche qui avanzo il ricordo personale dell'essere stata fortemente avversata dalla famiglia nella scelta di Medicina a favore di Lettere e di non essere riuscita a impormi per paura di un possibile fallimento, se non negli studi, nella professione, ancora saldamente esercitata dagli uomini.

Ma aggiungo ancora un altro fenomeno pubblico positivo per l'emancipazione di genere: l'economia degli anni del "Boom" stava incentivando il lavoro femminile in vari settori produttivi fuori casa e con una forte valorizzazione  di quegli strati sociali poveri o impoveriti dalla guerra, che, con coraggio e sacrificio, animarono la migrazione interna verso le zone industriali del Nord, coinvolgendovi anche le giovani donne. Diventare economicamente indipendenti, o contribuire sostanzialmente al ménage familiare, lavorare alla pari con gli uomini in fabbrica, propugnare la parità dei diritti e l'esercizio dello "Statuto dei Lavoratori" (1970) furono i segnali di un avviato progresso  condiviso. Un progresso che avrebbe alimentato anche quell'impegno civile privato sempre più  necessario per cambiare  la morale pubblica dell'epoca, che sfociò negli anni Settanta nella battaglia sul divorzio (1970) e nella elaborazione del nuovo "Diritto di famiglia" (1975). Perché Elena Belotti sosteneva nel suo saggio anche questo: che non solo il cammino personale, ma anche le scelte di determinate politiche sociali avessero il potere di spazzar via gli aspetti più perversi della divisione di genere, una tesi tuttora condivisa da Chiara Saraceno.

Scrive...

Rosanna Angelelli Di formazione classica, già insegnante di materie letterarie nei licei, è stata per anni redattrice di "insegnare".