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25/02/2021

ITI vs Licei

di Simone Siliani

Io l'ITI, Istituto Tecnico Industriale, l'ho frequentato davvero. Non come Mario Draghi che invece ha frequentato il liceo classico “Massimiliano Massimo” di Roma, scuola privata parificata condotta dai gesuiti. Il presidente Draghi aveva come compagni di classe Luca Cordero di Montezemolo,  Giancarlo e Luigi Abete, Gianni Di Gennaro, Giancarlo Magalli.
I nomi dei miei compagni di classe non ve li dico e non perché siano meno importanti (anche se meno noti), ma perché quello che qui rileva è che nessuno di loro ha proseguito e terminato gli studi universitari. Non perché non ne fossero capaci; al contrario, erano tutti ragazzi intelligenti, straordinari direi, se penso a quanti gradini sociali, difficoltà e pregiudizi hanno dovuto superare per prendere quel diploma, visti i punti di partenza. No, non hanno fatto l'università perché non era previsto che da quella scuola lo si facesse e perché nessun insegnante dell'ITI li portò all'esame di maturità raccomandando il proseguimento degli studi. Infatti, all'ITI ci andavano quelli che non erano “adatti” a studiare. Ma chi lo aveva stabilito così, a priori? I genitori? Gli insegnanti delle scuole medie? E poi, perché una scuola per vocazione e imprinting fondativo, ci impediva di scoprire durante il percorso scolastico che non era vero che eravamo inadatti a studiare?

Così andavano le cose: il liceo “Massimo” di Roma sfornava classe dirigente, razza padrona; l'ITI “Leonardo da Vinci” di Firenze sfornava lavoratori, “aristocrazia operaia” si diceva allora (si era alla fine degli anni '70 e questa “classe in sé” ancora esisteva, per quanto andasse già sfumando).
Lo ammetto, non era la mia scuola: per cinque anni, ogni mattina che Dio mandava in terra, mi sedevo su quei banchi chiedendomi “che ci faccio io qui?”. Non solo o tanto per la mia avversione alle materie tecniche, cosa che mi ha portato, unico nella mia classe, a laurearmi in Lettere quasi per contrappunto a quel quinquennio di formazione tecnica. No, era piuttosto perché. entrato all'ITI. la tua strada era segnata. Non era previsto, non era considerato necessario formarsi una capacità critica, una cultura umana e umanistica, essere colti: era un destino ineluttabile diventare tecnici, qualificati forse, ma programmati per entrare in fabbrica in azienda il prima possibile; a testa bassa, senza levate d'ingegno, ché quelle erano prerogative degli ingegneri che, dopo essere stati nostri docenti, sarebbero diventati i nostri superiori gerarchici al lavoro.

Ecco, questo binario obbligato, da cui non potevi deragliare, scartare di lato, cercare un'altra strada, mi era insopportabile. Per seguire questa strada non dovevi sapere di filosofia, letteratura, storia (fosse anche del lavoro o dell'industria in cui pure avremmo dovuto passare la nostra vita); non il diritto (appena due ore la settimana: non sia mai ci formassimo un'idea dei diritti e dei doveri del cittadino); un po' d'inglese giusto per poter decifrare eventualmente un manuale d'istruzione di un apparecchio elettronico. Tutto quello che era pensiero critico, cultura umanistica, scienza dell'uomo era bandito, non serviva a chi doveva solo saper lavorare. Tecnici, esecutori di un livello appena superiore a chi stava alla catena di montaggio, a cui non serviva il pensiero libero, creativo e critico.

Naturalmente gli splendidi ragazzi della mia classe si sono, ciascuno a suo modo, ribellati e si sono costruiti una incredibile esperienza umana di gruppo, ciò che l'ITI aveva programmaticamente espulso dai curricula scolastici, dal nostro orizzonte di vita. Ci siamo ripresi, di forza e teneramente (anche se non senza dolori, frustrazioni, sofferenze, perdite) ciò che la scuola ci negava. E, come tutti i ragazzi che magari andavano al liceo “Massimo”, abbiamo volato alto (uno di noi è diventato capo squadriglia delle Frecce Tricolore!) e abbiamo evitato le trappole disseminate sulla nostra strada. “Non ci avrete mai”, abbiamo urlato in quelle aule e fuori per la strada, dove qualcuno di noi scopriva segretamente la poesia o i filosofi maledetti. Ma infine ci hanno presi e inscatolati e molti di noi hanno dovuto fare quello per cui l'ITI ci aveva programmati.

Quest'anno saranno quaranta estati da quando sono uscito dall'ITI, venduto i libri di elettronica, elettrotecnica e tecnologia e iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Suppongo che tante cose siano cambiate dall'ITI di quegli anni all'ITIS di cui ha magnificato le sorti progressive Mario Draghi in Parlamento, ma mi sembra che una cosa sia rimasta uguale: l'essere una scuola a senso unico, concepita e costruita per fornire mano d'opera specializzata all'impresa. Se non fosse un termine ormai effettivamente desueto, la direi classista, da cui non uscirà mai classe dirigente per il paese, bensì uomini e donne che devono saper eseguire bene un lavoro. Non c'è niente di male, s'intenda, nell'essere buoni tecnici e nel lavorare in azienda, ma ve n'è eccome nel non avere un'altra possibilità. Perché un buon tecnico non deve avere le basi di un sapere umanistico? Perché la loro vita deve essere così predeterminata? Dai licei classici escono buoni medici, ottimi economisti, grandi giuristi, persino fisici, chimici e matematici: perché non dagli Istituti Tecnici? Perché questi sono concepiti per impedire questi esiti. Oggi come quaranta anni fa. E oggi come allora è ancora l'estrazione sociale della tua famiglia che determina che tu ti iscriva al liceo o all'ITIS; quel giorno a 14 anni, si decide la tua vita.

Allora, benissimo trovare 1,5 miliardi di euro per potenziare gli ITIS, ma se ne trovino almeno altrettanti per abbattere gli odiosi e dannosi muri che separano la cultura e la formazione umanistica da quella tecnica. Quando vedrò i nipoti di Draghi iscriversi all'ITIS allora potrò credere alle sue parole pronunciate in Senato. E i miei meravigliosi compagni dell'ITI “Leonardo da Vinci” di Firenze troveranno finalmente pace.

 


Immagine a lato del titolo: dalla pagina MIUR, Scegliere il persorso di scuola superiore

Si è riaccesa l'attenzione, anche in virtù del discorso del Presidente Draghi in Senato, attorno agli Istituti Tecnici Industriali Statali.

Si tratta di una questione assai seria e complicata, che incrocia i rapporti fra scuola e mondo del lavoro; rapporti quanto mai delicati in un momento come questo, pressato fra contrasto all'emergenza pandemica e alle sue conseguenze sociali, da un lato, e prospettive per un cambiamento si spera positivo delle strategie formative e delle dinamiche occupazionali, dall'altro.

Sarebbe interessante, al riguardo, aprire un confronto di opinioni. Proviamo a sollecitarlo pubblicando una testimonianza di natura autobiografica, tratta dal n. 389 di Cultura Commestibile, che evidenzia alcune problematicità del rapporto fra persorsi scolastici individali e collettivi, scelte e destini di vita, stratificazioni sociali e sviluppo del paese.
Saremmo lieti di ricevere e raccogliere altre testimonianze, riflessioni e proposte.

La questione dell'innalzamento dell'obbligo, delle scelte per il proprio futuro e della natura delle scuole superiori è sempre aperta e in gran parte irrisolta nel nostro paese. E la ripropongono in tutta la sua problematicità anche le reinsorgenti ipotesi di accorciamento della secondaria di secondo grado e di intrecci o alternative non sempre convincenti con la formazione professionale regionale.