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29/11/2017

Ius soli e diritti dei minori, crescere in un paese diverso

di Paola Lattaro

Anche Napoli ha voluto far sentire la sua voce, raccogliendo l’invito di Franco Lorenzoni a mobilitarsi in favore dello ius soli nella “Giornata dei Diritti dell’infanzia e dell’Adolescenza”. E così, il 20 novembre, presso la scuola “Bovio-Colletta”, si sono alternati interventi di italiani con la cittadinanza e di italiani senza cittadinanza. 
Perché considerare straniero chi si trova nel nostro paese da quando era piccolo (se non dalla nascita) e qui da noi si è formato ed è cresciuto ? È un delirio che può essere consentito solo da scelte politiche cieche e incapaci di riconoscere diritti naturali. 
Non è stato casuale che l’iniziativa abbia avuto come sede la Bovio-Colletta, una scuola che sorge in un quartiere complesso come quello di San Lorenzo, nei pressi di Porta Capuana, e vanta una percentuale altissima di alunni stranieri (che poi, come detto, stranieri non sono). 

E così, alla presenza di un folto gruppo di bambini e di tanti insegnanti, hanno raccontato le loro storie Djhara Arkan, 24 anni, nata e cresciuta a Castelvolturno figlia di genitori gambiani e priva della cittadinanza, Marinella Rodriguez, venticinquenne napoletana figlia di salvadoregni, anche lei senza cittadinanza italiana e Mohammed Fakir, 22 anni, nato in Marocco e giunto in Italia all’età di 6 anni. Lui la cittadinanza è riuscito ad averla, ma solo da poco.
A presentare i ragazzi e le loro storie, Simonetta Marino, Delegata alle Pari Opportunità del Comune di Napoli che, dopo una rapida introduzione supportata da slide a misura di bambino, spiega ai presenti come funziona oggi la legge in materia di cittadinanza e cosa si prevede per il futuro. La Delegata continua dicendo “Ci sembra quasi normale lottare per avere qualcosa che dovrebbe già appartenere ad una comunità umana: essere riconosciuto all’interno del luogo in cui vive, in cui cresce, in cui entra in relazione con gli altri”.

Interviene Djhara “Io sono un esempio vivente di come funziona la legge in questo Paese. Ho 24 anni, non ho la cittadinanza italiana. L’ho richiesta circa due anni fa e, da allora, non ho avuto più notizie dalla questura, dalla prefettura, da nessuno. Quindi, la mia cittadinanza sta viaggiando da qualche parte in Italia e non so quando avranno intenzione di farmi sapere qualcosa. Viviamo in un paese che automaticamente da un punto di vista giuridico crea cittadini di serie A e di serie B“. 

Rachele Furfaro, dirigente della scuola “Dalla parte dei bambini”, sottolinea l’assurda contraddizione in cui lo stato attuale dei fatti mette noi insegnanti. Da una parte, infatti, siamo chiamati a formare dei cittadini, facendo quindi emergere con forza nel percorso educativo tutto quanto il concetto di cittadino di un Paese porta con sé, ma dall’altra ci troviamo di fronte studenti e studentesse che lo stato italiano non riconosce come suoi cittadini. Eppure, come osserva Antonello Sannino, presidente dell’Arcigay Napoli, “I diritti di cittadinanza degli immigrati, non sono i diritti degli immigrati, ma sono i diritti di ciascuno di noi”. Perché allora, in Italia, sembra sempre che estendere un diritto ad altri significhi automaticamente privare di qualcosa chi questo diritto già lo ha, quando invece, è vero l’esatto contrario? 

Papa Massamba Gueye, della coalizione Sans Papiers e Migranti, a proposito della situazione di chi vive in Italia senza cittadinanza, ma dipende totalmente dal permesso di soggiorno, dice “Il permesso di soggiorno si lega al lavoro e, con la crisi attuale, si rischia la disoccupazione e, di conseguenza, il permesso di soggiorno. Diventiamo, così, una cosa chiamata ‘clandestino’. Io penso che dobbiamo riflettere sulla parola clandestino. Qualcuno che ha un nome, un cognome, una data e un luogo di nascita non può essere un clandestino”. Papa emoziona i bambini quando spiega loro che “L’uomo è la medicina dell’uomo e per questo bisogna porre fine a questa ingiustizia”.

Sono nata a Napoli, sono cresciuta qui e ho frequentato le scuole qui“ - adesso a parlare è Marinella Rodriguez, ma “al momento di chiedere la cittadinanza a 18 anni, ho scoperto che i miei genitori, appena arrivati in Italia, non avevano chiesto la residenza, per cui c’è un lasso temporale in cui io non compaio residente in Italia, ma nemmeno nel paese di nascita dei miei genitori. Per questo motivo si rifiutarono di riconoscermi la cittadinanza. Ora potrei richiederla come straniera residente in Italia da 10 anni, ma ci sono vari requisiti di reddito che io attualmente non ho. Fin da piccola non mi sono mai sentita parte del gruppo classe, della vita sociale in generale. Adesso non ho il diritto di voto, per cui, semplicemente vivo in un paese senza poter partecipare attivamente alla sua vita. Io non mi sento una cittadina, mi sento un’occupante. Sui miei documenti c’è scritto che sono salvadoregna. Ma io in Salvador ci sono stata una sola volta nella mia vita”. 

Interviene Fakir, che ha nella voce l’emozione di chi racconta qualcosa di cui porta i segni: “Quando ho notato di essere diverso dai miei compagni? Nel momento in cui, invece di andare a scuola, magari per fare anche il compito quel giorno, dovevo andare ad un appuntamento importante alla questura. Fare ore e ore estenuanti di fila e alla fine ero sempre legato a questo permesso di soggiorno. Quando arrivavano delle opportunità importanti, come scambi culturali all’estero, non sono potuto andare. E questa è la mancanza di una possibilità di crescita formativa. Io mi sento molto, ma molto napoletano e si nota anche dall’accento. Quando vado al nord mi dicono che sono napoletano non marocchino. Da quando ho chiesto la cittadinanza a quando l’ho avuta sono passati 6 anni. Un mio caro amico, italiano, ma senza cittadinanza, è un campione di kick boxing. E’ veramente forte, vorrebbe gareggiare per l’Italia, ma non può farlo perché formalmente non è cittadino italiano. E, allora, chi perde in questa storia? Il mio amico o l’Italia? Penso anche a tutti quei giocatori di calcio bravi che, però, non possono far parte della Nazionale. Che storia assurda!”.

Dovremmo cominciare a pensare che siamo tutti cittadini del mondo. Pensate un mondo che non abbia confini, pensate un mondo in cui i mari siano dei ponti da attraversare da un paese all’altro. Cerchiamo di immaginare al di là di questa realtà greve e ottusa in cui viviamo. Cerchiamo di immaginare delle possibilità infinite in un mondo in cui siamo tutti differenti, ma siamo tutti uguali, abbiamo tutti gli stessi diritti“ - con queste parole Simonetta Marino conclude l’incontro.

La speranza ora è che tutte le iniziative fatte a favore dello ius soli non restino inascoltate dal Parlamento italiano. Ma alla Bovio-Colletta un risultato è stato comunque ottenuto perché i ragazzini e le ragazzine presenti nel pubblico sono andati via con gli occhi e i pensieri pieni di quanto avevano ascoltato.

Ed è stata la loro presenza ad aver reso preziosi, ancora di più e a prescindere dall’esito della mobilitazione di questo periodo, i racconti con cui ci siamo “scontrati”. Da insegnante li ho osservati spesso durante tutta l’iniziativa. Dieci, undici anni di età, attenti, coinvolti, quaderno e penna per prendere appunti. Sui loro volti lo sguardo di chi ascoltava qualcosa di strano. Perché è strano pensare, e per un bambino lo è ancora di più, che chi nasce e cresce nel paese in cui sei nato e cresciuto pure tu, magari la compagna di banco che ha lo stesso tuo accento e con la quale hai quel linguaggio comune che viene dal vivere attraversando le stesse strade, ascoltando le stesse voci, annusando gli stessi odori, non sia, però, italiana come te. Forse i piccoli ascoltatori porteranno con sé questi racconti, nel loro percorso di vita e sapranno farli venir fuori di fronte a ogni diritto negato. 
E allora, il ricordo di queste storie li aiuterà a schierarsi, a scegliere, a prendere posizione perché sentiranno di nuovo la rabbia di Djarha, l’emozione di Mohammed, l’amara lucidità di Marinella, mentre spiegano l’ingiustizia che hanno subito fin da quando erano bambini. Perché il racconto fatto da chi porta dentro di sé i segni di un’ingiustizia è dirompente e vero e ai bambini si deve  verità.

 A volte si pensa di proteggerli ritardando il momento in cui dovranno prendere atto che il mondo che abbiamo costruito per loro è, spesso, profondamente sbagliato. Sono convinta, invece,  che li proteggiamo facendo l’esatto contrario, raccontando e non nascondendo, condividendo.  Solo così, solo rendendo parte integrante del loro percorso di crescita l’urgenza di combattere ogni tipo di ingiustizia, a partire dalla conoscenza dei diritti negati, noi consentiremo ai nostri bambini e alle nostre bambine di costruire, in maniera naturale, gli strumenti che permetteranno loro di essere adulti migliori di noi, incapaci di far finta di niente ogni volta che si scontreranno con qualcosa di evidentemente sbagliato.  Solo così potranno essere loro, in un tempo vicino più di quanto pensiamo, la medicina dell’uomo

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