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una recensioneoltre la lavagna

29/12/2013

Andrea Camilleri e Tullio De Mauro, "La lingua batte dove il dente duole"

di Rosanna Angelelli

La forma dialogica è stata spesso usata nella scrittura divulgativa scientifica per meglio evidenziare il contrasto delle idee e il gioco dei vari punti di vista.
Anche in questo “piccolo” libro, dall’argomento complesso e profondo, gli interlocutori che lo svolgono si esprimono in forma dialogica. Essi non sono fittizi, trattandosi di due notissimi intellettuali italiani viventi: lo scrittore, insegnante e regista teatrale Andrea Camilleri, il linguista, insegnante e scrittore Tullio De Mauro.

Dal titolo, attraente nella sua bizzarria, non si deduce pienamente la complessità dell’argomento trattato: “La lingua batte dove il dente duole” è un modo di dire molto popolare, tratto da una indisposizione fisica (il mal di denti) e in genere usato metaforicamente per attestare l’attenzione insistita di qualcuno su una questione impegnativa e dunque “nevralgica”, a suo modo dolente. In realtà, nel corso del dialogo, articolato in otto sequenze, ciascuna anticipata da citazioni di autori vari (tra cui il poeta vernacolare Ignazio Buttitta, ma anche il patriota  Luigi Settembrini, Don Milani e Italo Calvino) il titolo appare sempre più appropriato. Protagonista del dialogo è la lingua italiana, o meglio l’uso che si fa in Italia del linguaggio verbale naturale in tutte le sue modalità, a partire dai dialetti fino all’espressione più colta (e rarefatta) dell’italiano letterario scritto. I denti che dolgono, perché nascenti o deteriorati, riguardano le criticità, non tutte negative, insorte e insorgenti nell’interazione dei dialetti e della lingua nazionale con le trasformazioni sociali e culturali del nostro Paese. Queste appaiono ai due dialoganti faticose e confuse, rese traballanti dall’aggressiva invadenza dei media e da una politica che non riesce a venire a capo della sostanza dei problemi educativi.

Camilleri e De Mauro sono entrambi sia studiosi che “produttori” di linguaggio creativo, situazione che toglie alla loro discussione le asprezze del contrasto rendendola invece un gioco affabile, a volte piacevolissimo e scherzoso, a volte ironico, spesso ombreggiato da amarezze largamente condivise.
Certe valutazioni “divergono” da una linea comune solo a causa di differenti episodi del loro vissuto e della ricchezza dei punti di vista personali. La tessitura delle cose scambiate è così variegata che lo scrittore diventa linguista mentre il linguista rilancia le proprie analisi formali e i riferimenti storici in raffinati esempi letterari.

Oltre all’età (entrambi sono quasi coetanei), essi condividono anche un altro requisito: nati da famiglie borghesi, sono legati alla cultura dialettale meridionale, sia pure con qualche differenza. Camilleri da bambino non ancora scolarizzato parlava un dialetto girgentino non molto stretto; De Mauro, che sin da piccolo si esprimeva in italiano, avrebbe scoperto più tardi che anche i suoi genitori, laureati, usavano nella loro vita privata il dialetto napoletano. Questo fatto, insieme alla coeva formazione culturale, che si è snodata dagli anni ’25-30 del secolo scorso in poi, permette loro di ricordare un’Italia parlante dialetti ormai scomparsa. Questa trasformazione, senz’altro riduttiva di peculiarità comunicative più “popolari”, è iniziata dopo l’Unità d’Italia per delineare una necessaria “italianità” linguistica nazionale; il fascismo ha continuato nell’opera con intenti aggressivamente nazionalistici, ma l’ossessione antidialettale è purtroppo rimasta anche nella scuola dell’Italia democratica.

Però va corretto l’equivoco, altrettanto vivo, che si possa rinchiudere i dialetti dentro una rigidità auto-conservativa, dal momento che essi hanno dato voce a società arcaiche quasi del tutto scomparse. Il dialetto, o per meglio dire, i “dialetti” di ciascun parlante -più volte Camilleri e De Mauro ribadiscono la varietà dell’uso individuale di una qualsiasi lingua, e quindi anche di ogni dialetto- si differenziano dalle lingue nazionali soprattutto per l’area più ristretta dei loro parlanti, ma non si sottraggono certo alle trasformazioni storiche, sociali e culturali come avviene per i più grandi sistemi linguistici. Dai ricordi autobiografici del loro modo d’uso espressivo, Camilleri e De Mauro riconoscono ai dialetti grande immediatezza emotiva e comunicativa, senza però cadere nell’elogio scontato di una loro presunta supremazia in quanto “primitivi” vocali della lingua nazionale.  Anzi, Camilleri, tutto preso a rintracciare i valori di ritmo e di suono del “suo” dialetto-bambino e a evidenziare le difficoltà tuttora presenti nella sua pratica di scrittore nel ritradurlo con le pertinenze dell’italiano letterario, dà il destro a De Mauro per soffermarsi, come storico della lingua, sulla formazione e sullo sviluppo dell’italiano. Se la lingua, come dice Camilleri “ci fa raggiungere scopi comuni”, De Mauro segnala subito dopo un vistoso paradosso dell’italiano: esso “esiste”, ma la sua vocalità come lingua di scambio di parola è molto labile. 

Nonostante si conosca la storia del suo sviluppo dai dialetti, innanzitutto quelli latini, e sia stato fissato il suo profilo in certe sue strutture logiche e in certo suo lessico da una formalizzazione secolare, l’italiano è reperibile soprattutto negli esempi di lingua scritta di area toscana e per di più eminentemente letteraria. È dunque una lingua fortemente specialistica e artificiosa: priva per tanti secoli di parlanti appartenenti a un vasto territorio unitario che si potesse denominare “nazione”, essa tuttavia è riuscita miracolosamente attraverso la letteratura a “tener luogo di patria e di tutto”, come disse Luigi Settembrini. Ed è tuttora una fatica sia apprenderne l’uso sia tutelarne la sua siderale e sublime specificità. Così è diventata una lingua duramente attaccata dagli “idiotismi” della modernità, dalla superficialità della cultura ufficiale e della politica scolastica nazionale, ma d’altronde, come lingua d’uso corrente, non è un dramma che non riesca a mantenere i caratteri di astratta e monumentale marmoreità di certe sue scritture. Invece è un dramma la difficoltà che trova un’alta percentuale di italiani a cogliere i significati specifici di testi scritti di carattere specialistico, tecnico-scientifico e a produrre sintesi, schede, testi argomentati. Se, come osserva De Mauro citando dati Istat, “oggi l’italiano è nella sostanza un bene comune” - acquisizione cui hanno concorso nel passato una certa scuola (alla don Milani) e i mass media, tra cui la televisione (che fu) del maestro Manzi - il rapporto tra l’informazione scritta e la letteratura è ancora insoddisfacente. Indicatori interessanti delle variazioni d’uso sono il passaggio delle definizioni dal concreto all’astratto in una generalizzazione che, se eccessiva, dà luogo alla genericità e alla banalizzazione, la pesante sciatteria del lessico politico e giuridico, l’oscurità di quello economico, fenomeni ben noti e ancora una volta amaramente segnalati da De Mauro.

Nell’ottava sezione (Epilogo) chiosata da una efficace citazione di Umberto Eco (“La lingua va dove vuole, ma è sensibile ai suggerimenti della letteratura”), l’amarezza e il pessimismo condivisi nel corso del dialogo si stemperano nell’auspicio da parte di De Mauro di un ordito sociale, di una “cultura dei mestieri”, per dirla con Sciascia, che ridia raffinatezza ai dialetti e nuova stoffa anche all’italiano, mentre da parte di Camilleri il meticciato linguistico a opera di quella popolazione “in cammino” nel nostro Paese, extracomunitari e migranti, potrebbe dare all’italiano letterario esiti di scrittura innovativa e creativa, “una nuova linfa che ringiovanisce la parola”.

 

Andrea Camilleri, Tullio De Mauro, 2013, La lingua batte dove il dente duole, Editori Laterza, Roma-Bari, pp. 125, euro 14.00