Home - la rivista - oltre la lavagna - Una maestra a tutto tondo

intervistaoltre la lavagna

07/01/2018

Una maestra a tutto tondo

di Claudia Schirru

Enrica Ena: una maestra a tutto tondo

Conosco maestra Enrica da quando è stata mia docente all’università e da sempre mi piace ascoltare le belle parole che usa per raccontare la sua idea di scuola che tutti i giorni porta avanti con convinzione sempre più forte e matura. È un’idea semplice, perché al centro ci sono i bambini, la vera risorsa.

Le chiedo di incontrarci per un aperitivo e scambiare due chiacchiere…  A Iglesias, in cui   entrambe viviamo e insegniamo, si è appena svolta una manifestazione a sostegno del percorso che ha svolto con la classe sulla proposta di legge di cittadinanza e condannato da un’interrogazione parlamentare che chiede l’intervento degli Ispettori nella sua scuola.
Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare con lei di scuola e lo facciamo per ore. Con entusiasmo. L’aperitivo è diventato nel frattempo una cena e la chiacchierata un’intervista che merita di essere letta perché regala tanti spunti di riflessione e soprattutto quell’ottimismo che solo chi è pienamente soddisfatto delle proprie scelte e dei risultati sa trasmettere. 

Cominciamo da una questione generale: che cosa vuol dire, oggi, insegnare?


Non è mai facile dire che scuola si fa, ridurre in poche parole la complessità di tante scelte che si rinnovano ogni giorno e che sono in continua evoluzione. Per questo, al raccontare preferisco sempre aprire l'aula e lasciare all'osservazione diretta. Tra l’altro, a essere sincera, devo dire che mi piace far conoscere il nostro fare scuola attraverso gli occhi degli altri. Mi accorgo che con il tempo per noi è diventato tutto così naturale che forse non siamo capaci di coglierne fino in fondo i tratti distintivi.
Se poi parliamo di clima educativo, che è certamente al primo posto, come fare arrivare ciò che si respira in classe? È davvero difficile. Comunque ci provo.

Quand’è che un insegnante scopre che qualcosa va cambiato e altre cose conservate? Come può far tesoro della propria esperienza per migliorare?

Intanto, devo dire che nel mio passato di insegnante c'era tanto della scuola che faccio oggi, solo che quando cinque anni fa mi sono preparata ad accogliere la nuova prima elementare, ho proprio deciso che era arrivato il momento di fare scelte più decise. Oggi mi piace dire che sono passata dall’evoluzione alla rivoluzione. Sicuramente ha avuto un ruolo importante il fatto che per la prima volta avessi chiuso un intero quinquennio.
Lo sguardo di un insegnante cambia totalmente quando riesce a portare a conclusione un ciclo completo. Acquisisce quello che io chiamo sguardo lungo, quello sguardo che  permette di ragionare non più su ciò che sembra utile oggi, o nell’anno scolastico in corso, ma su ciò che è importante alla fine del quinquennio, del primo ciclo di istruzione, nella vita. Ed è uno dei motivi per cui trovo assurdo che questo avvenga quando si è nella scuola già da tanto tempo.

Quello che so è che c’erano troppe cose della scuola che mi stavano strette, che non mi convincevano proprio più. Così ho deciso di guardarle in faccia una ad una e cercare di fare quanto in mio potere per cambiarle.
Mi ricordo sempre di Elisa, la sorellina di un mio alunno del ciclo precedente. Entrava in prima elementare ed era passata in classe nostra per un saluto. Sembrava un grillo, saltava da una parte all’altra per la gioia di questo suo nuovo inizio alla scuola primaria. Passato qualche mese, come avevo già potuto osservare in tanti bambini, Elisa aveva perso la sua luce e la sua vivacità.
Credo che la scuola non solo non possa permettersi di spegnere la motivazione, ma che debba cavalcarla e farne motore di tutto.

Prima hai fatto cenno al clima educativo: se ne parla molto, ma che cos’è? e come si … costruisce? come si conserva?

Sì, cercando di essere sintetica, posso dire che il mio impegno si è mosso in tre direzioni: il clima educativo, la didattica e la relazione scuola-famiglia.
Prima di tutto volevo impegnarmi perché i bambini a scuola stessero bene, che venissero con piacere, presupposto indispensabile per costruire qualunque altra cosa. Oggi posso affermare che questo risultato è pienamente raggiunto. I bambini entrano a scuola correndo, abbandonano gli zaini con la gioia di ritrovarsi e di ritrovare noi. Non si assentano mai, se non per cause di forza maggiore.
Ho dato molta importanza all’inizio mattinata. Un tempo importante in cui si condivide il programma della giornata, si fanno le riflessioni sul dentro e fuori la scuola – il mondo è sempre con noi – e si mettono sul piatto quelle buone provocazioni che nascono dal contesto e che saranno utili agli apprendimenti (anticipazioni cognitive) e ci regaliamo il tempo per la lettura di un libro.
Mi sono impegnata perché la classe potesse diventare una piccola comunità in cui sentire appartenenza. Per questo ho lavorato per promuovere  le relazioni positive tra compagni – in questo è stato molto importante muoversi con la collaborazione delle famiglie – e per favorire la costruzione di un clima collaborativo, dando spazio al fare insieme e ad atteggiamenti di cura e aiuto dell’altro.

Avevo sempre trovato strano che la scuola separasse i bambini in uno dei pochi contesti nei quali si trovano insieme. Così ho messo la collaborazione al centro e per facilitarla ho tolto ogni forma di valutazione esterna, non solo i voti, anche qualunque altra forma. L’unica che è sopravvissuta è l’autovalutazione che richiede una riflessione a parte; anticipo solo che, per affrontare serenamente quella quadrimestrale, facciamo anche i colloqui con i bambini.
Ho evitato costrizioni con le regole e ho cercato di costruirle con loro in risposta ai bisogni della nostra piccola comunità, e facendo in modo che fossero lo strumento per favorire una sempre maggiore autonomia. E ho investito tanto tempo, tutto quello necessario per riflettere su ciò che avveniva. Con la fretta, questo l’ho imparato bene, non si costruisce niente

La variabile tempo – a noi piace dire che navighiamo a vela, una metafora tratta da “Postprogrammazione”, un vecchio libro di Gabriele Boselli – è fondamentale. E non lo è solo a vantaggio degli apprendimenti stabili. Lo è soprattutto nella costruzione della relazione educativa e del clima di classe, e lo è appunto nella costruzione dell’autonomia. Il tempo condiziona tutto. Se abbiamo fretta finiamo per sacrificare lo sguardo su quello che conta e portiamo in classe tensioni. Io, quando entro in classe, non posso dire di non tener conto del tempo, ma non lascio a questo il potere di schiacciarci. Uso il tempo che ci vuole, ecco credo che sia l’unica vera definizione. Certo, il fatto di essere docente prevalente aiuta molto.
L’altra scelta importante che facilita la costruzione di un buon clima educativo è certamente quella di entrare in classe tutti interi. Noi non insegniamo con le parole, lo sappiamo bene. Insegniamo con quello che siamo. Entrare a scuola interi significa avere il coraggio di portare quello che si è completamente e condividere le proprie emozioni. Solo così i bambini si affidano, si sentono sicuri di poter entrare interi a loro volta e non temono di portare in classe le loro emozioni.
Da noi, posso dirlo, questo si respira. Siamo presenti completamente. Abbiamo costruito relazioni vere. Le emozioni sono tutte con noi. Basta assistere anche solo a un nostro inizio mattinata per sentirlo forte.

E poi ... la didattica: che cosa e soprattutto come insegnare? Che cosa è più importante nelle scelte di un docente?

Al centro di tutto ho messo la salvaguardia della motivazione. Mi sono sempre domandata come si faccia a motivare gli studenti in una scuola che dà le risposte subito, prima ancora che uno si sia fatto le domande, perciò ho lavorato in questa direzione. Non solo evitando di dare risposte, ma stimolando la nascita di nuove domande. Perciò mi ritrovo molto nella didattica che prevede la lezione alla fine.

Mi piace che gli apprendimenti partano da quella che io amo definire perturbazione, qualcosa che non solo muove la curiosità, ma mette in discussione le proprie certezze, per poi promuovere un’attività di scoperta diretta che mi piace sia svolta prevalentemente in forma cooperativa. In un secondo momento, si passa alla condivisione dei propri percorsi e alla riflessione sugli apprendimenti e sulle difficoltà incontrate, per riconoscere e superare i propri errori. Un processo metacognitivo importante guidato dall’insegnante che, di fatto, assume il compito di fermare e arricchire gli apprendimenti.
Per questo, mi sono ritrovata molto nella didattica per EAS (Episodi di Apprendimento Situato) che vede la didattica snodarsi attraverso tre fasi: una fase anticipatoria, caratterizzata dal problem setting (che io preferisco chiamare preparatoria per evitare che si faccia confusione, come spesso avviene nella classe capovolta, con quelle pratiche che non fanno altro che spostare la lezione a casa, evitando così di gestire la questione motivazione legata all’anticipazione); una fase operatoria, caratterizzata dal problem solving e dal learning by doing, in cui gli alunni sono invitati a realizzare un artefatto, o comunque a mettersi in gioco seguendo una richiesta; e una fase ristrutturativa, caratterizzata dal reflective learning, che è appunto quella in cui l’insegnante riposiziona quanto appreso e lo arricchisce (la lezione alla fine). 

Capisco. C’è chi teme, di fronte al diffondersi di nuove metodologie didattiche che, come è già avvenuto per altre meno recenti, l’osservanza del metodo faccia perdere di vista i contenuti e la sostanza stessa dei processi di apprendimento.

Se la didattica per EAS è quella nella quale ritrovo di più il mio agire didattico, è anche vero che  credo  non vi sia alcun metodo che possa o debba essere utilizzato in modo rigido e per qualunque situazione. Ciò che mi piace è soprattutto il fatto che sia un dispositivo che aiuta a ripensare l’agire didattico, che spinge l’insegnante a ripensare i percorsi perché siano salvaguardate la motivazione e l’azione dello studente, e in cui la lezione arriva alla fine.
Io, tuttavia, credo che la risorsa gruppo e l’assenza di una valutazione esterna siano la vera forza di una didattica pensata in questo modo. Riportare al centro il costruire rispetto al valutare consente di includere tutti e di valorizzare quelle contaminazioni positive che nel tempo danno effetti oltre ogni attesa.
Purtroppo, e questa è la triste realtà, la scuola, nonostante i grandi maestri ci abbiano mostrato ben altre direzioni, funziona ancora prevalentemente con il dispositivo lezione, esercitazione, verifica in cui, al centro di tutto, sembra essere la rilevazione continua per avere il controllo di ciò (saperi, solo saperi) che uno impara.
Spostare il fuoco sul costruire con tutti cambia necessariamente il modo di fare didattica e porta a scelte diverse. Prima di tutto, avendo bisogno di molto tempo, rende necessario muoversi all’interno di un curricolo breve e procedere per percorsi di senso.

Questa priorità del costruire insieme rispetto al valutare, che sta molto a cuore anche a "insegnare", è certamente… controcorrente. Oggi nella scuola tutto appare condizionato dalla necessità di valutare, rendicontare, certificare… Sembra che la scuola metta in atto più vincoli che motivazioni intrinseche...

C’è un aspetto che ritengo fondamentale nel mio fare scuola ed è quello che io chiamo il coraggio di liberare, un coraggio che mi rendo conto essere per tanti una conquista davvero difficile.

Penso sempre a una quinta elementare nella quale sono entrata per insegnare matematica circa dieci anni fa. Ricordo che rimasi sconvolta. I bambini non facevano niente se non indirizzati completamente. Chiedevano di continuo che colore avrebbe dovuto avere la penna, quanti quadretti dall’alto, quanti a sinistra, quanti a destra… Purtroppo, mi resi conto in fretta che non si trattava di un caso isolato.
Ci lamentiamo di avere dei giovani completamente dipendenti, eppure non concediamo loro le libertà che contano. A scuola i bambini devono chiedere il permesso per andare in bagno, in molti casi anche per buttare la carta nel cestino.

Io credo in una scuola in cui si costruisce una crescente autonomia che passi prima di tutto dalla gestione di  ciò che riguarda la vita della classe-comunità per poi creare i presupposti per fare da soli. Nello specifico del lavoro, penso a una fase operatoria in cui, una volta lavorato sugli aspetti organizzativi, la palla passa davvero agli studenti. È un momento importante, fondamentale. E noi dobbiamo imparare ad aspettare, lasciare che incontrino serenamente l’errore, che si sporchino le mani.
Forse il punto è solo questo: dobbiamo fidarci di più della loro intelligenza.

Immagino dunque cha anche le consegne che dai ai bambini siano coerenti e in linea con il coraggio di liberare e con l’ormai sopraggiunta autonomia di lavoro…  

Quando guardo la mia classe, oggi, osservo qualcosa che non avrei mai immaginato di vedere. Qualcosa che è assolutamente oltre quanto io avrei potuto costruire. Vedo una capacità di ideare, organizzarsi, collaborare, costruire che è veramente oltre e vedo mettere in gioco conoscenze che in molti casi io stessa non possiedo.
Credo che sia proprio l’effetto di non avere avuto paura di liberare, di avere lasciato che loro mettessero in comune le loro conoscenze e capacità e credo che tanto abbiano fatto quelle che noi chiamiamo consegne aperte. Si tratta di quelle consegne che provocano i bambini con delle richieste che possono riguardare qualunque tema – l’ultima era riferita ai Principi fondamentali della Costituzione – in cui sono loro a decidere il modo in cui affrontare il lavoro per poi condividerlo con la classe.
Se quando erano piccoli si trattava di piccole consegne, queste, crescendo, sono diventate sempre più importanti.
Il mio compito è stato quello di aiutarli a riflettere su quanto realizzato, valorizzare man mano gli aspetti interessanti e farli rimbalzare sulla classe, così da vedere crescere i lavori di tutti.
Oggi – arrivati in quinta elementare – è sempre più comune osservare i bambini andare oltre le consegne aperte con proposte tutte loro che portano in classe o che osserviamo nascere anche durante le nostre lunghe ricreazioni. Io credo che queste siano le competenze che si manifestano.

Cooperazione e autonomia, crescere individualmente e “sortirne insieme”, rispettare i singoli e coltivare il gruppo: è su questi crinali che va costruita oggi una scuola che sia comunità? Prima facevi cenno alle famiglie: molti insegnanti oggi lamentano il fatto che la domanda delle famiglie sia in realtà assai conservativa, tradizionale, che tenda a premiare i bisogni individuali più che collaborazione.

Sì, l’altro aspetto sul quale ho lavorato molto in questi anni è la costruzione di una solida alleanza educativa con le famiglie, e posso dire che oggi siamo una bella squadra.

A spingermi in questa direzione, anche in questo caso, è stato ciò che osservavo: una relazione scuola-famiglia sempre più complessa, in cui era ormai assente qualunque forma di riconoscimento, che, inevitabilmente, si ripercuoteva nella costruzione del rapporto degli studenti con la scuola e i propri insegnanti.
Ho desiderato che i genitori potessero riconoscere di nuovo la scuola come importante istituzione educativa capace di dialogare con famiglia, conoscere e riconoscere la professionalità degli insegnanti, sentire fiducia e ritrovare la serenità di affidare i propri figli alla scuola.
Questo nel mio caso era ancora più importante: nessun cambiamento è possibile da soli. Una scuola come quella che volevo proporre io avrebbe tolto tante sicurezze, prima fra tutte quella che viene da un programma sviluppato perlopiù in modo lineare, strettamente agganciato al libro di testo e riscontrabile nelle pagine di quaderno.

Perciò mi sono mossa a più livelli: promuovendo prima di tutto situazioni di ascolto reciproco e autentico, così da potersi conoscere, costruire rispetto e condividere le scelte educative. Garantendo un’informazione puntuale sulle scelte didattiche e sui metodi proposti, documentando, laddove necessario, con gli studi di riferimento (penso per esempio al lavoro svolto in prima elementare con la letto-scrittura e il calcolo). Tutto questo rinforzato da un blog di classe, aperto con lo scopo di consentire una documentazione continua e il dialogo. Nel nostro blog è presente uno spazio importante – L’altro sguardo – che ha il compito di raccogliere proprio il punto di vista delle famiglie.

Tra tutte le azioni, la più importante è certamente stata l’iniziativa Aula aperta, quella grazie alla quale, tutti gli anni, alla fine del primo quadrimestre, le famiglie possono partecipare a una normale mattinata scolastica. I genitori si iscrivono – massimo tre/quattro al giorno – assistono all’apertura della mattinata e poi osservano i gruppi alle prese con le loro attività. Sin dalla prima elementare hanno partecipato sempre tutte le famiglie offrendoci delle restituzioni molto interessanti.
Certo è che una buona alleanza non si costruisce una volta per tutte: negli anni è stato necessario ritrovarsi per rinnovare gli impegni presi, per gestire nuovi problemi, per fare nuove scelte. In alcuni casi abbiamo anche perso dei pezzi. Aspetto doloroso, ma inevitabile. Credere nell’alleanza educativa significa anche accettare questo: non posso esserci più, faccio scelte diverse.

Torniamo, allora, alla domanda iniziale: Se dovessi dirci qual è per te la caratteristica più importante di un docente, per fare scuola, oggi?

Sicuramente l’essere riflessivo. Io forse lo sono troppo. Non sono mai soddisfatta e sono ipercritica. Vivo nella ricerca continua di nuove strade, sia per rispondere alla complessità dei bisogni, sia per offrire opportunità capaci di valorizzare sempre di più le potenzialità dei bambini.Se è vero che la formazione conta - per me è stato fondamentale conoscere tutte le grandi figure di maestri - credo che tutto si giochi soprattutto nel leggere di continuo ciò che avviene in contesto, nell’attenzione alle risposte dei bambini; e non mi riferisco solo agli aspetti legati all’apprendimento.
A questo, non posso non ripetere quanto ho già detto: l’essere presente completamente. 

 

Immagini


Le immagini sono tratte da "Cosa c'è di nuovo in classe", il blog che raccoglie le esperienze di Enrica Ena e dei suoi allievi e dove è possibile leggere  anche "Ai genitori che devono iscrivere i propri figli in prima", una lettera-appello scritta per informare quale tipo di scuola incontrerà chi iscriverà i figli nella sua scuola.