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una recensioneoltre la lavagna

13/11/2013

Malala Yousafzai con Cristina Lamb, "Io sono Malala"

di Rosanna Angelelli

Malala Yousafzai è la ragazza pakistana, di cultura Pashtun, che, nata nello Swat, zona di confine del suo Paese, vi è vissuta fino al 2012, quando, “sparata dai talebani” per aver diffuso idee libertarie sulle donne, è stata trasferita in fin di vita in Inghilterra, si è salvata e vi è rimasta in esilio con la sua famiglia.

Questa è la versione molto semplificata della sua vicenda, accreditata anche dai giornali più noti, in genere con articoli dai titoli a effetto (vedi, per esempio, quello su “la Repubblica” dell’8/09/2013 a firma di Francesca Caferri, intitolato “Pakistan, il carnefice di Malala diventa il nuovo leader dei Talebani”), preannuncianti report per lo più rivolti all’aura di violenza segreta dell’integralismo talebano e alla volatilità della politica di contrasto da parte delle istituzioni governative. Ma in questo modo non si approfondisce la questione se tra i Pashtun pakistani continui ancora, come si spera, quel lavoro svolto per il progresso e le libertà civili da parte di Malala e del padre, ed emerso agli occhi della politica internazionale solo dopo l’attentato (È cronaca che Malala scampata abbia parlato poi di pace e scolarizzazione all’ONU su invito di Ban Ki-moon). E risulta in un certo senso “sospesa” anche l’indagine “affiancata” della seconda firma del libro, cioè della giornalista inglese Cristina Lamb.

È importante questa precisazione, perché dalla storia di Malala si può trarre una nuda verità: che né gli ingenti finanziamenti USA dati al Pakistan per lo sviluppo del Paese; né la potenza militare dispiegata dall’Occidente in Afghanistan, né l’uccisione di Bin Laden sono serviti se non a eliminare, almeno a ridurre la violenza talebana.

Il libro, insomma, andrebbe letto innanzitutto come potente mezzo di “controinformazione” di cronache “pilotate” per lo più verso lo scontato retorico. Tanto per fare un esempio: le pagine sulla cattura e uccisione di Bin Laden ad Abbottabad sono un piccolo capolavoro giornalistico sulla ipocrisia micidiale della politica, della “ragion di stato”, in questo caso del regime militare pakistano. Tutti sapevano del bunker dove abitava Bin Laden con mogli e figli, addirittura una delle mogli aveva partorito nell’ospedale di Abbottabad, ma nessuno ne ha parlato, se non quando… a un certo punto gli americani si sono potuti scatenare nella cattura del terrorista senza neanche avvertire il governo centrale, segnalatosi in seguito in una protesta tardiva e del tutto sterile.

Ma non si pensi che questo silenzio provenga dallo stato di analfabetismo e di sottocultura politica di tanta parte della popolazione pakistana, perché più volte nel libro si sottolinea, se non la consapevolezza politica, la disperazione sociale di tanta popolazione nei confronti della corruzione e delle ingiustizie della politica nazionale e della violenza militare internazionale. Intercettare tutto questo, penso, dovrebbe essere il compito di un’editoria che non sia prevalentemente di maniera.

Ma veniamo al libro, ad alcuni sensi del libro, che lo rendono appropriato a una lettura a scuola: esso appare anzitutto come una narrazione di formazione. Una bambina procede verso la conquista di quell’equilibrio, precario, tra sentimenti, idee, valori e coscienza, necessario alla vita autonoma di ciascuno di noi. La narrazione di questo processo così denso e complesso non è per niente oleografica, edificante, nonostante la cultura d’origine di Malala permetta manifestazioni affettive più esplicite della nostra: lei con i familiari e con la comunità di Mingora, piange, ride, si dispera, frana, si organizza, prega, recita le proteste, non solo con i mezzi della ragione, ma con tutti i sentimenti, proprio tutti, tranne l’odio.

Questo perché Malala è più buona, più “ingenua” rispetto ai giovani occidentali? Perché non è ancora “corrotta” dal consumismo? Per certi aspetti la risposta è affermativa (e ciò potrebbe dar ragione a una vecchia valutazione di Pasolini sui presunti “primitivi”); ma soprattutto si può dire che Malala è ancora mossa da un proposito quasi metastorico, originario della possibilità stessa di vita per qualsiasi individuo: la curiosità ad apprendere da tutto il mondo, il coraggio di entrarvi in contatto, e non soltanto con gli occhi della ragazzina che vuole diventare una donna consapevole, non impaurita, criticamente reattiva. Lei più volte scrive che la cultura deve essere rivolta a tutti, certamente in primo luogo a chi soffre di più del sottosviluppo della coercizione -per lei le donne-, ma tutti devono poter essere acculturati per “capirsi” ed entrare in relazione consapevole con gli altri. Ora, questo entusiasmo per il sapere generalizzato e apertamente critico, per il comunicare con parole e gesti, e il conseguente agire insieme, è davvero insopportabile per chi voglia “irrigidire”, “semplificare” in regole spesso disumane la propria vita e quella degli altri. E questo può accadere dappertutto.

Non è il caso infatti di polemizzare con i talebani: anche noi abbiamo alle spalle secoli di soprusi in nome della fede religiosa e dell’autoritarismo politico, e un presente pieno delle angosce per falsi valori; ogni tanto ne cerchiamo faticosamente le cause, ma tuttavia non riusciamo ancora a districarcene. Anzi, l’amaro è che, come dice Malala, perché un popolo si accorga dei propri errori, un regime militare diventi “generoso”, un’opinione pubblica internazionale si mobiliti pacificamente, occorre il rischio di vita, se non il sacrificio estremo.

Ma poi, può anche succedere che i riflettori si spengano e che tutto ritorni nell’ombra… e ciò che è “talebano” continui nel suo primo piano di successo.

Realtà “primitiva”, dunque? Tutt’altro: il libro sfata subito un luogo comune. Il padre di Malala è colto, fa politica attiva, è sostenitore del progetto “laico” di Benazir Buttho (una delle grandi donne orientali eliminate con la violenza), adora figli e moglie, in particolare è fortissimo il suo legame con Malala. Che non è solo legame del cuore, ma della mente, ed è espresso in modo polilingue: in pashtu, in urdu, in inglese (e qui per entrare un po’ meglio nella comprensione del Pakistan, occorrerebbe un po’ di conoscenza storica del Paese, di cui comunque il libro, accuratissimo, offre fatti e una efficace tavola sinottica).

Né il territorio in cui vive Malala è riarso e ostile come il Sachel, il Sudan, parti della Somalia. È una zona montuosa verde e fiorente, “abitata” dalle tracce delle culture più varie, dal ricordo di Alessandro Magno alle testimonianze in pietra degli Stupa buddisti, scalpellati anche lì dai fanatici. E nel libro c’è anche l’orgoglio politico-religioso di un Pakistan riconosciuto primo stato islamico in Asia…

Per poter essere all’altezza di un libro di questo spessore, c’è dunque bisogno di dare più spessore alla nostra cultura occidentale, e così anche quei ragazzi, che troviamo sempre più spesso nelle nostre scuole e che etichettiamo semplicemente come indiani, pakistani, cinesi, tunisini, potrebbero riavere un loro contesto “storico”, tanto più che le loro “radici” (come quelle di tutti) sono estremamente complesse, mai semplificate all’unità

Il papà di Malala è un insegnante a cui a un certo punto riesce dopo mille sacrifici (ai nostri occhi inenarrabili) di aprire la “sua” scuola. È una scuola privata, e già a qualcuno questo potrebbe fare arricciare il naso: eh però, una scuola privata… Sì, il privato in Pakistan è più opportuno, proprio perché una scuola statale, governata dai principi di una problematica situazione politica e culturale, specie in una zona di frontiera come lo Swat, (tra Afghanistan, Tagikistan e Cina), potrebbe essere sovrastata dalla discriminazione e dal fanatismo religioso. E di fatto accade che anche la scuola di Ziauddin venga chiusa e saccheggiata.

Come reagisce Malala alla cultura della sua gente? Qui mi viene in mente il film toccante di Pascal Plisson, “Vado a scuola” (se ne parla, per esempio, nell'articolo "Vado a scuola: un film da vedere soprattutto per le scuole", nel "Blog scuola" di IO Donna del "Corriere della sera"), per l’altissima motivazione dei suoi giovani protagonisti ad affrontare peripezie e sacrifici pur di… andare a scuola! Genti in cammino, si potrebbero commentare così i protagonisti del film, ma è un cammino, per fortuna, già stratificato. Nel film c’è una ragazzina islamica, che se le circostanze la assisteranno, sta già configurando la sua vita in modo diverso dalle sue sorelle appena più grandi.

Per Malala, addirittura, si può parlare di una situazione “da erede soggettivamente reattivo” alla cultura del proprio Paese e della propria famiglia, secondo il senso che è stato dato al concetto da Massimo Recalcati in Il complesso di Telemaco (Milano, Feltrinelli, 2013). Certamente, nel caso di Malala non c’è il tramonto della figura paterna, come invece  viene individuato da Recalcati per la nostra cultura contemporanea, ma si sarebbe potuto presentare alla scelta di vita della ragazzina il rischio dell’ereditare una tradizione, un passato stratificato da nostalgie, compressioni, rinunce (quando non umiliazioni); e allora il presente sarebbe potuto diventare aggressivo, pieno di violente rivendicazioni, insomma un presente “talebano”. Malala, invece, “canta” la sua protesta, la scrive e la recita, sulla scia del dire teatralizzato più sentito della sua gente; il velo bianco di Benazir le avvolge morbido e benefico la testa da invalida scampata alla morte; la sua “femminilità” si è soggettivata attraverso la lente di ingrandimento della fatica della mamma: una donna analfabeta, piena di fervore religioso, ma anche di desiderio di “città”, di timida (ma non per questo meno intensa) condivisione degli intenti della figlia. Pensate, il giorno dell’attentato, questa mamma si era recata a scuola per il suo “primo giorno di scuola”.

 

Per saperne di più

Il sito The Malala Fund e la relativa pagina su Facebook

Il servizio del Corriere TV sul discorso di Malala all'ONU il 12 luglio 2013,  giorno in cui ha compiuto 16 anni

"Cari fratelli e sorelle, io non sono contro nessuno. Né sono qui a parlare in termini di vendetta personale contro i talebani o qualsiasi altro gruppo terroristico. Sono qui a parlare per il diritto all'istruzione per tutti i bambini. Voglio un'istruzione per i figli e le figlie dei talebani e di tutti i terroristi e gli estremisti. Non odio nemmeno il talebano che mi ha sparato."

(Dal discorso tenuto da Malala all'ONU; testo integrale del discorso, tratto dal sito di "Famiglia cristiana")