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c'era per noioltre la lavagna

29/04/2022

Persone, relazioni, saperi, la scuola per una cittadinanza di pace

di Rosanna Angelelli

Questo il titolo di un convegno organizzato il 21 aprile scorso a cura del Cidi di Pescara  e della rivista insegnare in modalità mista nella biblioteca Falcone e Borsellino di Pescara. Relatori Gloria Calì (Cidi Palermo, insegnante scuola secondaria di I grado, collaboratrice della redazione insegnare), Eleonora Aquilini (Cidi Pisa, insegnante scuola secondaria di II grado, Presidente di DDSC); Valeria Cavarretta (psicoterapeuta, Centro Jonas); Teresa Ascione (Dirigente Scolastica-Istituto comprensivo Pescara 1); Beppe Bagni (Presidente Cidi).

Coordinatrice dell’incontro Mariella Ficocelli, Presidente del Cidi di Pescara. Sua l’introduzione all’articolato tema del convegno: dato l’ambito eminentemente scolastico, con “Persone” il Cidi ha inteso riferirsi innanzitutto a chi tra i giovani patisce un disagio educativo non nuovo, attualmente gravato da due sofferenze intercorrenti: la pandemia da Covid e la guerra in Europa. Ma con “Persone” ci si è inteso riferire anche a quelle figure di adulti, insegnanti e genitori, che a scuola interagiscono reciprocamente in dinamiche educative “al plurale” spesso accidentate, rese ancora più difficili dalla cogenza di domande di senso che bambini-ragazzi-figli pongono sulla qualità degli studi, sul loro futuro, su un loro convincente allineamento educativo verso una “cittadinanza di pace”.

D’altra parte il Cidi di Pescara e la rivista insegnare  studiano da tempo la difficoltà dei percorsi e dei processi educativi e le possibili soluzioni entro un convincente cambiamento della politica scolastica,  in alcune circostanze chiedendo anche il contributo non solo di insegnanti esperti, ma di pedagogisti e di psicologi: lo sforzo non tocca solo la soddisfazione della sfera affettiva e dei bisogni di socialità giovanili, minati indubbiamente dalla segregazione antipandemica e dalla paura della guerra, ma anche la qualità dell’istruzione/educazione alla cittadinanza che soddisfi realmente il compito istituzionale  della scuola pubblica.  In particolare Ficocelli cita: passi di Mario Ambel e Aldo Musciacco tratti dal Dossier 2009 di "insegnare" Ragionando della relazione educativa (a cura di Daniela Casaccia), ed. Ciid, 2009; il dibattito sorto nel convegno del 2018 “La scuola cancellata”, a cura del Cidi di Pescara; la pubblicazione a cura di Mario Ambel, Una scuola per la cittadinanza, PM, 2019.

In riferimento all’oggi, ha precisato Ficocelli, “non si può parlare di pace, di cooperazione, di laboratorialità, se si mantiene nella scuola una struttura di insegnamento rigida e competitiva, fatta di lezioni frontali, compartimentazione dei saperi, obbiettivi programmatici indipendenti dalle condizioni dell’apprendimento, competizione tra colleghi, valutazione numerica angusta e selettiva, entro ambienti troppo affollati e privi di servizi efficienti.

Orientato così il senso del convegno a una riflessione sulla scuola a tutto tondo, ciascun relatore vi ha portato il proprio punto di vista personale, tuttavia reciprocamente coincidente negli snodi più importanti. Tutti hanno concordato infatti sulla necessità di un cambiamento vistoso dei rapporti tra giovani, famiglie e scuola, in grado di trasformare l’identità stessa degli uni e i compiti istituzionali dell’altra.

Si è partiti da una domanda di base: Che cosa significa “relazione educativa”? 

Goria Calì vi ha risposto con molta chiarezza: “Diciamo subito che cosa “non è”: non è la scuola affettuosa”. Questo requisito toglierebbe spessore alla relazione educativa che “è il terreno, il sistema di confronto e comunicazione in cui avviene il processo essenziale della scuola di realizzazione del suo mandato: l’istruzione per tutte/i. L’insegnante, quindi, così come non può essere “ignorante” della sua disciplina, non può essere “ignorante” di relazione, non chiedersi quale dinamica relazionale si realizza in classe”.
L’apprendimento significativo, che consente a ciascun bambino e bambina di realizzare un percorso di crescita emancipante attraverso i saperi, non avviene in vacuo, ma nel contesto sociale di una classe, di una scuola. “Imparare dai social, dal web, non è apprendere, ma acquisire delle informazioni: l’apprendimento culturale, cioè la costruzione di un sapere “cittadino”, ha una dimensione essenziale nella socialità, che è mezzo ma anche fine dell’apprendimento scolastico”.
L’insegnante non è un erogatore di informazioni, ma un coordinatore di attività di apprendimento, un elemento di un sistema che vive non grazie a un assetto verticistico di reciproche funzioni (“Io insegno, tu impari”). “Grazie alle molte asimmetrie -e qui Calì ha citato un pensiero di Duccio Demetrio- tra adulti e minori sia a vantaggio che a svantaggio degli uni rispetto agli altri, si crea un disequilibrio dinamico generativo di reciproco nutrimento e alimentazione, purché si riesca a riconoscere e a contenere con onestà le reciproche dominanze”.
Se la pandemia e la paura della guerra europea stanno colpendo in modo particolare gli adolescenti che stanno concludendo il triennio della scuola secondaria di I grado (dove Calì insegna), il “faccia a faccia” impedito o coperto sta avendo un effetto di “detonatore” su tutte le latenze dolorose e angosciate precedenti, essendo il contesto scolastico da tempo già fortemente scosso in alcuni dei pilastri portanti.
Da una rilettura del citato Dossier di insegnare del 2009, si possono già individuare le questioni sul disagio e sulla relazione educativa di cui oggi si vive una problematicità ancora più intensa. Sentiamo sempre Calì.Quando si parla di “disagio dei minori” si citano categorie interpretative mutuate dal lessico della chimica: la liquefazione della società, l’evaporazione dei padri… quasi che la crescita personale si possa descrivere (e circoscrivere) in reazioni scontate e ineluttabili, purché i reagenti siano ben dosati e mescolati. In realtà il fenomeno non è riducibile a formule. Per esempio, la crisi valoriale della società e la vanificazione del ruolo educativo della famiglia non sono novità. Da gran tempo i genitori dichiarano le loro difficoltà nel gestire l’orientamento di crescita dei loro figli. Oggi però i genitori manifestano atteggiamenti più dirigistici nei confronti degli insegnanti e una personalizzazione delle loro attese nei confronti dei figli (“Facciamo i compiti”, “Non vorrei che mio figlio sia distratto…”) come se la questione “apprendimento scolastico” li riguardasse in prima persona come “attori” di una relazione educativa prioritaria da far passare ai docenti, e di cui essi dovrebbero tenere conto.  Tutto questo, quando non si fa peggio, cioè si aggredisce, fisicamente o verbalmente l’insegnante che non si conforma ai desiderata.
Gli atteggiamenti direttivi della famiglia sulla scuola non sono segni di forza, e neanche di invadenza, ma di estrema incapacità di guardare il proprio figlio/a immaginando il suo domani. Il figlio o la figlia non vengono visti come soggetti “futuri”, ma schiacciati su un presente, cui si sono tolti tempo e opportunità.

L’altra faccia di questa miopia genitoriale, per così dire, si esprime talvolta in una sessualizzazione precoce di bambini e bambine che dalla fine della primaria vengono proposti come trofei da esibire, episodi da raccontare, anzi, da “postare”, come i vassoi colmi di stuzzichini dell’apericena. I figli (o le figlie) sono “belli”, “bellissimi”, in posa da serissimi influencer.
Il contesto domestico distratto, oppure quello iperprotettivo o ancora quello incondizionatamente esaltante sembrano generare bambini e bambine con un’angoscia interna che a scuola si esprime in un disinteresse agli apprendimenti disciplinari veramente difficile da contrastare.
Quale spazio  dovrebbe dare la scuola a una relazione educativa emancipante? 
L’insegnante che concepisce il proprio lavoro da esperto disciplinare, da severo educatore o da soggetto “asservito” alle richieste della famiglia, non riesce a offrire un’alternativa forte e attraente ai giovani rispetto a una famiglia fragile, o troppo assente o troppo tutelante. La scuola che sprona gli allievi al miglioramento dei risultati, mantenendoli in un contesto competitivo, li costringe a “mostrare” la loro conoscenza o anche la loro competenza separatamente, rispetto all’esperienza di una conoscenza diffusa in una dimensione comunitaria più complessa.
Certamente in un contesto domestico del tutto respingente, deprivato, la scuola rappresenta un’alternativa migliore, un contesto di vita sociale più gratificante e liberatorio.

Gli insegnanti quindi dovrebbero accogliere studenti e studentesse così come essi ci arrivano, esercitando quella che Antonino Ferro, citato da Eleonora Aquilini in un suo articolo nel Dossier 2009, chiama “benevolenza”. L’atteggiamento del docente che vuole costruire relazioni per gli apprendimenti non può chiedere agli alunni di dimostrare di meritare la stima degli adulti; ma dovrebbe dare per scontato che tutti sono “soggetti in apprendimento”, cioè in miglioramento. Ciascuno con il proprio carico di angosce, di solitudini o di confusioni, ma tutti “in apprendimento”. La prima condizione di questo è l’esistenza della classe, che non è una somma di individui, ma una comunità in cui non può vigere un sistema di competizione, di schieramenti e di tentativi di superamento di qualcun altro.
In questo sistema dinamico, l’insegnante ha un’indubbia funzione di “garante di una pace operosa”, in cui l’equilibrio è fondato sulla “benevolenza”, sulla chiara percezione da parte di tutti, compreso l’insegnante, che ciascuno ha posto, dignità e si integra con il processo culturale degli altri.
Un altro aspetto problematico riguarda la relazione tra il disagio di bambini e bambine e le discipline. Ovvero, quanto e come i contesti “esterni” alla scuola, che coinvolgono il vissuto dei bambini devono diventare oggetto di apprendimento?
Una questione spinosa questa, che ha una ricaduta nella normativa vigente sull’educazione civica o nella recente proposta di legge sulle competenze non cognitive, e non può essere affrontata senza porsi il problema della valutazione. La valutazione, infatti, è la struttura relazionale più forte, più complicata e più “parlante” anche se spesso si presta a pericolosi fraintendimenti. La valutazione misurativa è certamente “nemica della pace degli apprendimenti”: negativa o positiva, priva l’alunno della sua fisionomia individuale e lo distrae dal suo processo di apprendimento, trasforma la relazione educativa, anzi, l’alleanza educativa tra docente e alunni, in una sudditanza del tutto pericolosa. 
Se durante il triennio delle medie l’insegnante professionalmente onesto punta a creare competenze culturali per la cittadinanza, attraverso i saperi agiti, a partire dal “leggere, scrivere, far di conto” (come diceva Tullio De Mauro), bisogna aspettarsi che gli alunni e le alunne per primi portino in classe le domande sull’attualità, le paure, i dubbi, le richieste di spiegazione… Anzi: è un bene che lo facciano: vuol dire che intuiscono una debolezza informativa nelle fonti scomposte e destrutturate del web cui accedono o nelle chiacchiere del “dicono che”, e riconoscono nei docenti una possibilità di orientamento.
Allora occorre una costante riflessione progettuale su come “usare” il delicato e complesso ambito del personale, su come raccontare “il mondo fuori dal cancello della scuola”. Bisogna avere ben chiaro chi sono gli studenti e studentesse e che cosa diventano quando sono insieme in classe; che cosa intercetta i loro modi di conoscere e che cosa è utile per far sviluppare in loro, con gradualità, prima gli strumenti culturali per leggere e capire, poi per capire ed interpretare, infine per avere una posizione critica. Bisogna che l’insegnante sappia rinunciare a qualche argomento, a qualche costruzione “di realtà” che sembra qualitativo e invece è solo distraente. Fin qui il densissimo intervento di Gloria Calì.

Da parte di Eleonora Aquilini (“Storie di adolescenti che imparano”), si è puntualizzato il concetto, tratto da un pensiero di Jean Lèon Jaurés, secondo cui si insegna e si può insegnare “solo quello che si è”, nel senso che sono le nostre esperienze a plasmarci e su di esse si basa il nostro insegnamento. L’insegnante, oltre a conoscere bene la propria disciplina e a saper applicare le teorie pedagogiche adatte agli apprendimenti specifici e all’età degli allievi, deve “imparare a gestire e riparare sentimenti con la sua esperienza” (la citazione è da Marco Rossi Doria). Nella buona sostanza, per Aquilini è importante che l’insegnante non si fermi alla fattualità di un approccio empatico guidato da un protocollo, da un programma pre-stabilito, ma che si sposti nel “dove” e nel “quando” dell’apprendimento esperienziale percettivo-riflessivo peculiare di qualsiasi soggetto. Perché “ogni bambino è traboccante di dati, di doti, che sono tipiche sue e che si manifestano in modi tipici, sovente a causa di disadattamento e di sofferenza”. Più volte viene da lei citato il concetto di daimon, che definisce secondo Hillmann (Il codice dell’anima, Adelphi, 1997), l’imprinting originario di ciascuno di noi. In particolare, in un giovane in difficoltà si devono attendere sue reazioni per interagire con lui in autonomia anche  rispetto al suo profilo clinicamente accertato e descritto (BES? DSA?, ecc). Vanno usati quei tempi larghi, quei modi tranquilli di una relazione di ascolto e di attesa pazienti, che servano ad allentare il narcisismo del soggetto come difesa del sé, e il senso di inadeguatezza di fronte alle difficoltà della prova.

 Sulla fragilità, e l’indeterminatezza  dell’adolescenza si è soffermata anche Valeria Cavarretta, psicoterapeuta palermitana dell’Associazione Jonas, in accordo con le considerazioni di Gloria Calì. Gli atteggiamenti direttivi della famiglia sulla scuola non sono segni di forza, e neanche di invadenza, ma di estrema incapacità di guardare il proprio figlio/a immaginando il suo domani. Il figlio o la figlia non vengono visti come soggetti “futuri”, ma si schiaccia tutto sul presente, non si dà loro tempo e opportunità.  Alla famiglia “etica” (con i suoi indirizzi valoriali di responsabilità per un futuro migliore) si è sostituita la famiglia affettivo relazionale, che non fa paura, ma che tuttavia esercita un controllo tecnologico “esteriore” (“se ti raggiungo col cellulare, sto tranquillo”), che in caso di trasgressione colpisce il mezzo (“Ti tolgo il cellulare”) e non la natura e il senso e del comportamento.  Tante domande d’aiuto sono arrivate a Cavarretta dai ragazzi, che vogliono in generale essere ascoltati da protagonisti e non da soggetti passivi, in particolare oggi, per recuperare il contatto fisico diretto perso durante la pandemia. La socializzazione è target prevalente: la scuola non rappresenta per i giovani solo il luogo del sapere (come in passato), ma è diventata un “palcoscenico” e luogo della costruzione degli affetti, del “debutto sociale” di adolescenti; questi, per l’appunto, sono “fatti di tanti sé”, alla ricerca di una iper-individualità espressiva adultizzante tipica della nostra società che di fatto sta oscurando gli estremi dell’età (bambini e vecchi). La scuola da un lato ha subito un processo di deistituzionalizzazione, dall’altro l’adolescente accentua il rifiuto dell’istruzione per contrapporsi alle aspettative di genitori che comunque non fanno loro paura, ma da cui si sentono limitati e non riconosciuti, in forme più o meno consapevoli.
Che cosa fare? Le proposte della psicoterapeuta, condivise dal Cidi di Pescara, riguardano il potenziamento di una socialità attiva tenendo la scuola sempre aperta, il maggiore coinvolgimento dei ragazzi nei percorsi educativi, una loro preparazione psicologica per meglio affrontare tutte le esperienze di distacco (dal passato, dalle persone care)  senza nascondere gli aspetti del dolore e della paura, ma volgendoli alla costruzione comune del futuro.

A proposito degli effetti sui giovani (e adulti) della sovrapposizione, sulla pandemia non ancora eliminata, della guerra in Europa, che rischia di avere una dimensione mondiale, Beppe Bagni ribadisce la necessità da lui espressa anche in un recente articolo su insegnare di dare strumenti di riflessione per risolvere la contrapposizione tra pacifismo e riarmamento nazionale. Che cosa pensare infatti della cessione delle armi all’Ucraina e del rinforzo delle dotazioni militari da parte dell’Italia e dell’Europa in genere? La possibile risposta devia la riflessione dalla contingenza di una cronaca peraltro violentemente destrutturante a un “luogo” più sereno, quello di una rielaborazione cognitiva fatta insieme con alunni e insegnanti.
La scuola è un luogo di relazione in cui si affrontano problemi che riguardano tutti, studenti e insegnanti, attraverso domande di senso del tutto legittime perché scaturenti da problemi davvero sentiti in quanto reali e interni alla nostra vita.
Allora la domanda è: “Come i ragazzi percepiscono l’Europa?”
In modo alquanto frammentario e parziale, tanto che l’Ucraina e la Russia appaiono loro territori distanti dalla loro “idea” d’Europa, popoli più asiatici che Europei. Non si percepisce Kiev come una capitale nel cuore dell’Europa continentale, né si comprende che la mobilità storica dei confini in quella Regione ha prodotto sia rivendicazioni identitarie sia contaminazioni e potenziali aperture. C’è dunque un bene comune per tutti, la conoscenza del mondo, che non deve essere costruita in un quadro storico delineato una volta per tutte e solo su certi territori.
Così si deve andare alle radici dei fenomeni geopolitici alla ricerca di differenziazioni comunque significative perché portatrici di imprevisti, da rielaborare in tratti comuni. I confini delimitano ma mettono anche in contatto, creano un al di là dinamico, con aspettative di sconfinamento in grado di spostare gli orizzonti in una dialettica positiva tra interno/esterno. La ricerca di correlazioni è peculiare dei fenomeni culturali, tanto che nel passato il Cidi aveva caldeggiato una esperienza tutta europea di reperimento di un canone letterario comune, a cura, nel caso dell’Italia, del prof. Roberto Antonelli. E allora non si può lasciar cadere la presenza degli autori russi nelle nostre letture di formazione né dei musicisti, degli artisti, degli scienziati. Bisogna partire da una storia di beni comuni anche dal punto di vista delle risorse naturali del mondo, che “hanno un valore al di sopra di qualsiasi mischia di politica economica” e chiedersi in che maniera si possa essere autosufficienti senza danneggiare, ricattare, deprimere altri paesi. Questo non significa, nei casi di conflittualità bellica negare la responsabilità del colpevole o sorvolare sul “ripudio della guerra”, come recita l’art 11 della nostra Costituzione. Ma bisogna trovare quei tratti, quei sentimenti comuni che ci fanno sentire legati ai processi di pace attraverso le migliori relazioni possibili.

 La pandemia ha ridotto la funzione socializzante della scuola, anche se si è cercato di mantenere i contatti in rete. Ora che si è recuperata una consistente presenza degli alunni, la scuola deve riprendere la sua funzione di “metronomo della conoscenza”, illuminare uno stare insieme identitario che vada oltre a quello territoriale.
Un compito questo molto impegnativo che richiede alla scuola una capillare distribuzione delle responsabilità culturali ed educative di tutti gli adulti che vi lavorano. Della complessità del compito, che non può essere affrontato solo sulla base di un sia pur lodevole impegno individuale, parla Teresa Ascione, DS dell’Istituto Comprensivo 1 di Pescara, noto per trovarsi in un quartiere molto problematico della città. La prof. ricorda il proverbio africano secondo cui “Per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”, da confrontarsi con l’impegno corale necessario ad affrontare in modo riflessivo certe tematiche dell’oggi: guerra e pandemia, per la loro grave complessità non possono essere affidate all’analisi di un solo insegnante. E in generale i temi sensibili di educazione alla cittadinanza, alla pace, alla legalità richiedono una trattazione che coinvolga l’intera comunità scolastica, specie se le situazioni territoriali sono particolarmente delicate. La scuola dell’Autonomia (che la DS difende con forza) dispone dal 1974 degli Organi Collegiali, il cui core è rappresentato dal Collegio dei docenti e dal Consiglio di classe che dovrebbero individuare e concordare i valori prioritari dell’istruzione educazione. Ma nella realtà la concezione neoliberista della scuola attuale, che deprime i contenuti collettivi, non riesce a creare una cultura alimentata dalla relazione e dalla condivisione. Oltretutto occorrerebbero classi meno affollate, un dimensionamento delle sedi più ridotto, una edilizia più appropriata, una diversa interazione con il territorio, ecc. Il risultato è una didattica frettolosa, nella logica dell’adempimento burocratico, quando diverse formazioni disciplinari dovrebbero essere messe insieme in un tempo di riflessione sul proprio lavoro più disteso e quindi più profondo.

Nella discussione Antonella Tredicine precisa che “non si può essere insegnanti se non si è in apprendimento continuo”  tanto che lei ama definirsi  “perdutamente scolara”, mentre Gloria Calì conclude dicendo che giudizi, critiche, propositi espressi nel corso del convegno dipendono da un’unica sostanza: una  significativa essenza “politica” della scuola pubblica democratica.


Qui la registrazione completa dell'incontro

 

Scrive...

Rosanna Angelelli Di formazione classica, già insegnante di materie letterarie nei licei, è stata per anni redattrice di "insegnare".