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una recensioneoltre la lavagna

20/09/2019

Rino Garro, a cura di, "L’officina del racconto. Antologia di storie costruite a scuola"

di Romolo Perrotta

Per la Cresima avevo ricevuto in dono, da un caro amico di famiglia, un piccolo quadro d’argento, raffigurante un natante ben assicurato sull’argine di un fiume e circondato da una natura selvaggia e misteriosa.
Ricordo bene di non avere fatto i salti di gioia, per quanto mi rendessi conto che la lamina d’argento così lavorata in sovrimpressione, artisticamente colorata e poi finemente confezionata in una scatola quadrata con tanto di marchio di qualità e firma del gioielliere, valesse pure qualcosa.
“Vedrai quando avrà la sua giusta cornice, come ti piacerà!”, mi incoraggiò mia madre, la quale ovviamente aveva letto sul mio volto la delusione. Fatti due conti, aveva poco più di 45 anni e io una sedicina.
Il quadro venne incorniciato e appeso in salotto, dove si trova ancora, nella casa oramai vuota d’anime dei miei genitori.

La prima volta che tornai a soffermarmici con attenzione fu solo cinque o sei anni dopo. Preparavo l’esame di estetica per l’università e provavo ad applicare teorie e questioni del “bello” al presunto “bello” che mi ritrovavo in casa. Trovai il quadro affascinante: la cornice aveva dato grande risalto al suo contenuto e ne faceva una sorta di “compiuto”, un oggetto dinanzi al quale la soddisfazione interiore, ovvero una sorta di senso di pienezza e di appagamento, valeva più dell’oggetto stesso. In quella occasione, sprofondato nella diversità delle teorie che andavo studiando, mi resi perfettamente conto che il gusto e la sensibilità avevano ben poco a che fare con la quinta elementare conseguita stentatamente da mia madre. Ma soprattutto che il contesto, la cornice entro cui “qualcosa” si iscrive, svolge un ruolo preminente e decisivo alla fruizione di quel “qualcosa” stesso. E ricordo pure d’essermi chiesto se mai la Gioconda di Leonardo (che allora, come ora, non mi fa proprio impazzire) avesse avuto una cornice…


Il volume curato da Rino Garro ha una cornice rappresentata, con una quasi precisa simmetricità, dalle prime e dalle ultime 15-16 pagine. Ma di questa particolare caratteristica dirò dopo. Anzitutto occorre soffermarsi sul contenuto “letterario”, che magari di “letterario” a rigore e guisa dei critici potrebbe anche avere ben poco…
Si tratta di una serie di storie narrate da studenti medî-superiori coordinati da co-autori /coordinatori detti “capocantiere”, che si iscrivono a pieno titolo nella categoria aristotelica del “verosimile”, anche quando a raccontare sono voci esteriori e interiori decisive: di ragazze che boxano, di studenti invaghiti che trovano il coraggio di dichiarare i proprî sentimenti al professore. Nella loro brevità - e questa è ragione di grande apprezzamento, a mio avviso - i racconti riescono a costruire gli sfondi ambientali, culturali, relazionali in cui si svolgono; riescono a conferire una forte personalità ai protagonisti; e riescono, con tutto questo, a irretire il lettore, a generare in lui, sin dalle prime righe, quel sano, misterioso e assetato desiderio di sapere che rappresenta, in fin dei conti, la quintessenza del piacere per la lettura.
Le vicende presentate, sia chiaro, possono piacere o non piacere. Gli stili, grosso modo uniformati dal lavoro dei capocantiere, possono più o meno corrispondere al livello di godimento estetico del lettore. Le ambientazioni e i personaggi possono riflettere le attese o generare delusione negli approcci al testo da parte sempre di chi legge. Certo è che nelle storie i personaggi hanno un’anima (perfino nel caso dello spettatore assente), che le trame sono sussistenti (Ummagumma è vivo intercetta in forma magnificamente pertinente quanto potrebbe accadere ai nostri giorni), che i contesti hanno a che fare col vissuto, degli scrittori e dei lettori (nulla più a portata di mano dell’ambiente e del clima scolastico in cui s’aggira Flavietto). E interiorità dei personaggi, verosimiglianza delle trame e potenziale capacità d’appello della sensibilità del lettore fanno, di fatto, il peso “letterario” di un’opera, a prescindere poi dal “successo” che ne ha, sempre a mio avviso.
Di tutto questo, in maniera costitutiva, fa parte l’alternarsi di versi (coordinati da Biagini), capaci di trasmettere l’“al di là” evasivo e leggero del difficile, spesso tormentato e grave “al di qua” costrittivo della vita quotidiana. Sarà che nel novero della pubblicazione l’alternanza ha inizio con un racconto e non con una poesia, tuttavia, prescindendo ovviamente dalla diversità linguistica, formale e di scopo dei due generi, sarebbe limitante dire che la poesia fa da intermezzo al racconto, quando potrebbe benissimo valere il contrario.

Detto questo, vengo alla cornice.
Essa è fondamentalmente costruita su due istanze. La prima potrebbe essere definita di natura formale, la seconda sostanziale. La prima affonda la propria ragion d’essere nella componente “fantastica” che echeggia nel nome del laboratorio, in qualche citazione, nell’esortazione che traspare dall’introduzione. La letteratura d’ogni luogo e tempo contempla opere il cui contenuto e/o clima fantastico brilla all’interno di una produzione fatta di temi o ambientazioni, personaggi e vicende “realistici”. Ebbene, qualora ce ne dovesse essere stato ancora bisogno, “l’antologia di storie costruite a scuola” che Rino Garro ha curato, ci dimostra come e perché la componente “fantastica” non è in alcun modo concorrente, alternativa, scissa o addirittura opposta a quella “realistica”: lo dimostra l’intera impostazione delle dinamiche relazionali che presiedono alla nascita di un volume come questo, lo dimostra il contenuto di racconti e poesie successivi e lo dicono esplicitamente gli autori (“Considero artista,/non solo chi scrive, dipinge o scolpisce,/considero artista,/colui che, anche nel suo piccolo/cerca di raccontarsi…”), nonché uno dei capocantiere, Marco Vichi, nella sua postfazione: raccontare se stessi a se stessi, girovagare nel proprio animo, ecco il punto.

E non è questione da poco, dal momento che essa continua a tenere viva un’antica diatriba di critica letteraria sul genere particolarissimo rappresentato dalle “confessioni”, che se annunciano o sottendono chiaramente il parlare di se stessi a se stessi – com’è nel caso di Sant’Agostino o di Rousseau –, debordano allorché diventano autobiografie – forme del parlare di se stessi, visti da se stessi, agli altri, e fra gli innumerevoli esempî mi viene in mente quella di Charlie Chaplin, fino a trapassare trasversalmente questi due orizzonti e quasi a tracollare nella sovrapposizione e nell’intreccio stretto di racconto di se stessi, a se stessi e agli altri. Ma la narrazione non riguarda solo e soprattutto il vissuto, e dunque il passato, bensì apre lo sguardo al futuro: positivamente e fiduciosamente, come avviene per esempio nell’autobiografia di Altiero Spinelli, che si immagina un Parlamento europeo nel quale poi effettivamente metterà piede; o tragicamente, come nel Martin Eden, che del suo autore, Jack London, racconterà anche la morte.

Ecco allora che il limite di “fantastico” e “realistico” sfuma, sino a svanire. E “fantastica” emerge dalle acque dell’intima e segreta artisticità di ciascuno, quant’è vera la propria anima. La seconda istanza della cornice, quella sostanziale, come in qualche modo ho anticipato, affonda le proprie radici nella sensibilità, nell’intento, nella premura educativa, nella capacità organizzativa e di coinvolgimento di Rino Garro, di cui il volume rappresenta solo un aspetto, quello per dir così “materiale”, conclusivo, riepilogativo, documentativo.
La sua introduzione è in perfetta continuità col titolo (dove “officina” dà senz’altro l’idea di quanto intercorre, nell’agire lavorativo umano, tra l’ufficio lindo e sedentario dell’impiegato statale e quello unto e dinamico del meccanico di automobili) e con le citazioni (ecco le prime 15-16 pagine!) ed, ex abrupto, ci lascia percorrere il lungo corridoio coi fogli A4 in mano per poi vivere tutte insieme le infinite sensazioni di quel vissuto (il ruolo educativo dell’insegnante – sempre più passato in secondo piano, anche a titolo istituzionale, rispetto a quello di “soggetto (mal)pagato allo scopo di trapassare nozioni”; lo stato degli edifici scolastici e le moltitudini anonime delle scolaresche; le difficoltà di coinvolgimento degli adolescenti; lo stereotipato prevalere del motto “meglio nulla e facilmente piuttosto che qualcosa a costo di un benché minimo sforzo”; la lontananza della scuola dall’arte in generale e dalla creatività in particolare; la mortificazione sistematica della “fantastica” a fronte della drammatica “realistica”; l’apatia diffusa, quella dell’animo e delle menti, ancora prima e di più che quella dei corpi; gli sforzi sovrumani degli educatori/insegnanti costretti da un’istituzione datata in tutto e per tutto a ottenere poco, a volte pochissimo, dai proprî allievi), sino alla gioia (travestita da magra consolazione) che alla fine della giornata “creativa”, a qualche studente, almeno a qualcuno, sarà pure dispiaciuto lo squillo della campanella.

Tutto questo - inteso ovviamente all’interno dell’intero processo promosso da Garro - ha un pendant nella postfazione di Marco Vichi, per quanto sintetica altrettanto essenziale e conforme allo spirito del lavoro svolto, e dunque tutt’altro che formale; nell’elenco per nome e cognome degli autori (dove rigorosamente si specifica che ve ne sono di altri, autori/studenti, i quali hanno preferito non lasciare comparire il proprio nome); e nei ringraziamenti finali (tutto questo nelle ultime 15-16 pagine), a partire dai quali si conferma il lavoro serio e pignolo, oblativo e professionale tenuto dai co-autori capocantiere, i quali – diciamolo senza mezzi termini – avrebbero potuto continuare a farsi i cavoli proprî a fronte dell’appello sincero ed educativamente fondato rivolto loro da Rino Garro. In questo modo non è andata: i capocantiere hanno interpretato al meglio la funzione sociale rivendicata da sempre dagli artisti “impegnati”, quelli che nel corso della storia hanno costituito scuole, creato generazioni di relazioni maestro-discepolo, opposto la cultura e l’arte alle miserie umane e politiche. Tutto ciò per un sempre più ampio, profondo e diffuso godimento di un bene comune come l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo, vale a dire, in poco, l’arte, il gusto del bello. Per il quale non occorre grande istruzione, ma coltivare minimamente una sensibilità (come pure riuscì a mia madre). 

È nella luce e alla luce di tutto questo che si iscrive e si legge (per lo meno così io l’interpreto) la benedizione finale di Rino Garro: “Viva la scuola”; sottintendendo ovviamente, per eccesso di modestia, l’avverbio “così!”.

 

L’officina del racconto

antologia di storie costruite a scuola
A cura di Rino Garro
effequ, Firenze, 2019

pagine 160
euro 10
 



"Sono più di centocinquanta i fantastici studenti che hanno preso parte a questa solida impresa; e sono otto i capicantiere: Valerio Aiolli, Elisa Biagini, Enzo Fileno Carabba, Rino Garro, Emiliano Gucci, Alessandro Raveggi, Vanni Santoni, Marco Vichi."