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segnaliamooltre la lavagna

03/01/2021

AA.VV., "La scuola al tempo dell'incertezza"

a cura di "insegnare" con commenti di Rosamaria Maggio, Luigi Tremoloso, Mariella Ficocelli Varracchio, M. Gloria Calì

Segnaliamo questo dossier a più mani, tratto da "Volere la luna" del 17.12.2020, con i commenti,  di Rosa Maria Maggio e Luigi Tremoloso.

Diritti fondamentali e pandemia

Alessandra Algostino, docente di Dritto Costituzionale all’Universita’ di Torino, nel suo contributo ci ricorda che i principi fondamentali sono bilanciati all’interno della nostra Costituzione, proprio per evitare che uno di questi possa avere prevalenza a scapito degli altri e che diventino “tiranno” l’uno dell’altro.

Questa giusta premessa, suffragata anche da sentenze della suprema Corte, è lo spunto per analizzare la situazione del diritto all’istruzione in tempo di pandemia.
La nostra scuola infatti dopo aver subito il lockdown totale, come peraltro tutto il paese, tra lo scorso mese di marzo e fine maggio, ha utilizzato, laddove è stato possibile, la cosidetta "didattica a distanza".
 Dopo un’estate in cui si è pensato di poter tornare alla normalità, la scuola si è trovata a fare i conti nel mese di settembre, con una buona preparazione organizzativa; ogni istituto si è preparato alla riapertura adottando tutti i protocolli previsti per riaprire in sicurezza e gestire gli eventuali interventi a distanza.
I trasporti, la dotazione tecnologica per le famiglie e gli studenti, che significa non solo computer ma anche linee internet efficienti ed efficaci, non sono stati realizzati in modo adeguati dalle istituzioni locali (Comuni e Regioni).

Sicuramente l’analisi della professoressa Algostino circa la scarsa attenzione che questo paese dedica all’istruzione è scritta anche nella storia della politica economica italiana. Basta guardare a ritroso gli investimenti in termini di percentuale sul PIL e abbiamo la risposta. 
Ma in questa circostanza sono emerse anche problematiche culturali e giuridiche nell’approccio al problema.
Il nostro sistema scolastico, per quanto fondato su funzioni centrali dello Stato cui competono le linee generali dell’istruzione, i modelli scolastici, le indicazioni nazionali curricolari, l’orario, deve fare i conti con competenze regionali e, in questo momento di pandemia mondiale, anche con i poteri dei Sindaci esercitati con le ordinanze contingibili ed urgenti, quando situazioni eccezionali mettano in pericolo la salute e la vita delle persone.
Abbiamo così assistito a chiusure e aperture diverse nelle varie regioni e talora nei singoli comuni. Le scuole superiori che dovevano svolgere in presenza almeno il 25% delle lezioni, in alcune regioni sono state chiuse dopo i primi contagi. Le scuole elementari e medie aperte per DPCM, sono state chiuse in alcune realtà locali. Con la conseguenza che il divario territoriale, economico e sociale si sta via via sempre più allargando.

Faremo certamente i conti con questa vicenda nei prossimi anni, quando, a pandemia risolta, dovremo valutare i danni: la tragica contabilizzazione dei morti per pandemia, le conseguenze sulla salute per chi, colpito dal virus, riporterà danni irreversibili pur sopravvivendo, i danni all’economia non tutti ristorati e ristorabili, e non ultimi, i danni alle generazioni dei nostri ragazzi in età scolare e universitaria.

La professoressa Algostino ha giustamente sottolineato quanto la Dad non possa sostituire la didattica in presenza, non solo per il divario di accesso tecnologico dei vari territori, ma anche e soprattutto perché la didattica a distanza non può sostituire la relazione educativa in presenza, la relazione sociale fra pari.
Occorrerà quindi valutare i danni ma anche i benefici derivanti dalla evoluzione tecnologica che giocoforza la pandemia avrà generato.

Dovremo fare i conti con tecnologie didattiche che entreranno nella normalità del nostro fare scuola. Penso alla connessione continua fra docenti e studenti fuori dall’orario canonico scolastico, la connessione fra studenti non solo nelle chat dei social, il rapporto genitori e docenti forse più continuo e non ostacolato da distanze, tempo libero e lunghe ed estenuanti file ai colloqui in presenza, di cui sicuramente nessuno fra genitori e docenti sente la mancanza.

Dovremo anche fare i conti con alcuni limiti della didattica in presenza che quella a distanza non ha fatto altro che evidenziare. Penso per esempio alle lezioni frontali ancora purtroppo diffuse nelle scuole superiori e talora anche nella scuola di base. Penso a forme di didattica ancora praticate, incentrate più sul prodotto che sul percorso e sui processi.
Questa tragedia di una pandemia mondiale deve essere l’occasione per ripensare la scuola, evidenziarne i limiti, potenziarne i punti di forza, valorizzare ciò che della tecnologia nella didattica può servire a diminuire il divario culturale, territoriale e sociale.

Quanto poi al rapporto tra Stato e poteri locali, emerge l’urgenza di un intervento legislativo ordinario (lasciamo in pace la Costituzione per carità!), che rimetta al centro i diritti fondamentali come il diritto alla salute e all’istruzione e ne attribuisca la tutela in circostanze critiche di portata nazionale (come pandemie, calamità naturali e simili), solo ed esclusivamente allo Stato.


Per uscire dalla sudditanza e riappropriarsi di pratiche di emancipazione democratica.

La scuola è in una fase di passaggio epocale, passaggio accelerato dalla pandemia. Le tecnologie rappresentano gli strumenti principali di una trasformazione che appare inarrestabile e il dibattito circa il loro contributo e i rischi ad esse connessi è tanto infuocato, quanto spesso sterile. 
Esso infatti è polarizzato tra le fideistiche convinzioni sul potere salvifico di tali strumenti da parte di fette consistenti di rappresentanti dei media e degli interessi ad essi legati, come pure di tanti addetti ai lavori -insegnanti compresi-, da un lato, e, dall’altro, dalla demonizzazione del loro ruolo da parte di componenti importanti del tessuto culturale del paese -insegnanti compresi-, che vedono in essi un nemico mortale per la scuola  attraverso lo svilimento del contenuto profondo della conoscenza e della cultura.
Marco Guastavigna in questo suo intervento - che rivolge ai secondi, ma le sue indicazioni valgono per tutti - prova a elencare i punti fermi per posizionare la riflessione sulle tecnologie per l’istruzione nella giusta prospettiva. 

In primo luogo ritiene che occorra la consapevolezza che è in atto una colonizzazione strumentale e culturale che si riflette nel linguaggio e nel dibattito corrente. Si va facendo strada una sorta di pensiero unico che uniforma l’idea stessa di processo di insegnamento-apprendimento.

In secondo luogo, questa presa di coscienza rappresenta per lui uno snodo fondamentale per avviare ogni iniziativa.
I terreni da riconquistare sono diversi e complessi. Richiedono l’attivazione di pensiero critico su più piani per affermare un ritorno alla piena sovranità organizzativa, culturale, logistica e di principi. Crederlo possibile significa credere nelle potenzialità e nella forza della iniziativa democratica e dei suoi strumenti.

In ultimo, è convinto che per l’istruzione è fondamentale andare oltre il monadismo professionale adattivo, privo di progettazione culturale e politica. Occorre recuperare spazi di dialogo di sapere civile  per confrontarsi collettivamente sul ruolo che le tecnologie hanno.  Anche riconoscendo, se utilizzate come reali risorse cognitive, un loro valore emancipante.

È difficile non essere d’accordo con lui. Il nostro paese si è impoverito su tanti piani e quello dell’istruzione e della formazione è tra i più disastrati.
Averne cura e dedicarne impegno è una responsabilità generazionale che ci interroga tutti.

Vedi anche Marco Guastavigna,  Cittadin* al di sotto di ogni sospetto, "insegnare", 30.12.2020.


Una mobilitazione per la scuola pubblica

Lo dicono tutti:la scuola è fondamentale, al centro dellattenzione, in cima alle priorità. Il consenso unanime tuttavia non può non insospettirci: ciò che è proclamato a parole è spesso smentito nei fatti.
Le attività didattiche in presenza soprattutto per una fetta non trascurabile di alunni, gli adolescenti delle scuole secondarie di secondo grado, sono sospese dal marzo scorso, e mai come ora la sensazione di chi vive la scuola è di profondo disagio.
Un disagio che, tuttavia, non ha prodotto  solo passività e isolamento ma anche attivazione di energie come ci raccontano Filippo Benfante, Gloria Ghetti e Costanza Margiotta, promotori di "Priorità alla Scuola" (PAS),  un movimento nato durante il primo lockdown  dalla preoccupazione per il trattamento riservato alla scuola  in Italia nei decreti che hanno scandito lemergenza.

Il diritto allo studio dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze infatti non veniva mai contemplato nei testi normativi emergenziali e si è lasciato che fossero proprio questi a scontare la quarantena più rigida possibile.  Senza scuola e con essa senza relazione, senza confronto, senza conflitto e tutto quel che necessita alla crescita equilibrata di un piccolo cittadino.
Lindifferenza nei loro confronti è emersa chiaramente quando si progettavano a Pasqua le riaperture nei vari settori: uno sblocco del lockdown che riguardava ogni aspetto della vita economica e sociale: imprese, palestre, centri estetici, ignorando di fatto la scuola. Lunico discorso autorizzato sulla scuola prevedeva di celebrare il «salto tecnologico» che era stato compiuto, allestendo in fretta e furia una "Didattica a distanza" (DaD) di massa.

Da qui nasce la mobilitazione di PAS: dalla consapevolezza dei genitori degli effetti negativi del lockdown e della DaD sui loro figli e figlie; da quella di insegnanti che, rilevavano la compressione del diritto allistruzione, limpoverimento culturale, la dispersione e labbandono scolastico, il disagio psicologico e lincremento delle disuguaglianze dei propri allievi. E, non da ultimo, limposizione di una riforma surrettizia del sistema scolastico, lerosione dei loro diritti e delle loro condizioni di lavoro; basti pensare alla assoluta mancanza di condivisione delle nuove metodologie didattiche, alla mancanza di collegialità nelle decisioni importanti, alla impossibilità di contrattare nuovi orari e organizzazione del lavoro.

A metà aprile, continuano gli autori, il primo appello di PAS affinché si predisponessero misure per la riapertura in presenza e in sicurezza delle scuole è stato totalmente ignorato dalle istituzioni. È cominciato allora un percorso di mobilitazione permanente, che in breve ha coinvolto una rete estesa in tutta Italia.
Una caratteristica originaria” di PAS è stato proporsi come un sodalizio di genitori, insegnanti, educatori, studenti, personale ATA - tutti e tutte coloro che a vario titolo vivono la scuola -, sulla base di una autentica corresponsabilità.
La scuola pubblica è uno dei pochi luoghi dove si crea e si difende lidea che viviamo in una società creata da vincoli di solidarietà , comunanza e corresponsabilità e non in un mondo fatto di individui isolati in perenne competizione. La scuola pubblica, rileggendo Gramsci, è un luogo cruciale per la battaglia contro diseguaglianze, discriminazioni, esclusioni, uno degli strumenti che la Repubblica dovrebbe mettere a disposizione per dare attuazione al mandato costituzionale di «rimuovere gli ostacoli» che impediscono « il pieno sviluppo della persona umana».
Se poi consideriamo che la scelta di chiudere le scuole non è stata fatta sulla base di evidenze certe sui contagi nelle scuole (si è registrata infatti una carenza dei dati, raccolti male e gestiti senza alcuna trasparenza) ma è stata frutto di una decisione unicamente politica.
Il Movimento(PAS) ha da subito ribadito che le scuole sono state chiuse perché il Governo e le Regioni non hanno organizzato il trasporto pubblico e i protocolli sanitari elaborati per le scuole (diagnosi tempestiva, tracciamenti, quarantene) e gli Uffici scolastici regionali non hanno terminato le nomine delle e degli insegnanti questanno (il precariato nelle scuole è un altro record italiano).

C’è da dire che la mobilitazione permanente di PAS ha ottenuto alcuni risultati tangibili: primo fra tutti la faticosa riapertura delle scuole a settembre. Le richieste che PAS avanza da maggio sono diventate un programma minimo riconosciuto da chiunque, anche se lungi da essere realizzato: potenziamento dei trasporti; istituzione di una medicina dedicata alla scuola; completamento del procedimento delle nomine in tutte le scuole italiane; riportare i finanziamenti per la scuola pubblica almeno al livello della media europea.

Oltre a ciò PAS può rivendicare il suo contributo a un cambiamento nel discorso pubblico: che con le scuole chiuse si registrino maggiori diseguaglianze è ormai ripetuto di continuo, da voci autorevoli provenienti dai più diversi ambiti (economia, diritto, pedagogia, pediatria, psicologia); che la DaD non sia didattica di qualità ma fonte di danni psico- fisici, di digital divide, di produzione di solitudine sociale, di nuove ingiustizie è riconosciuto da tutti.
Di fronte alla miopia o alla malafede delle politiche che si sono avvicendate negli anni sulla scuola, PAS prosegue la battaglia affinché la scuola pubblica riprenda un ruolo centrale allinterno della società, torni a essere un problema di tutti non solo di chi la vive, torni a essere un virtuoso crocevia per la garanzia di una serie di diritti al lavoro, alla salute, alla salute psico-fisica, allistruzione: una cittadinanza completa e realizzata.
Ciò significa rifiutare i tagli e pretendere finanziamenti; respingere la privatizzazione dei saperi; contrastare la tendenza a omologare tutto il mondo della conoscenza ai parametri di mercato; sventare laggressione al significato pubblico e costituzionale della scuola.
È una mobilitazione che finora è avvenuta in forme tipiche di questi ultimi decenni – dai presidi alle assemblee pubbliche (in presenza o online), alle manifestazioni di piazza, organizzate a seconda del livello epidemiologico del periodo ,alle campagne social.
Fino ad arrivare allo scorso ottobre in cui si è registrato un fondamentale contributo da parte di docenti del Movimento che hanno deciso di disobbedire (in modo pacifico e civile) alle disposizioni ministeriali svolgendo le loro lezioni davanti alle scuole chiuse, offrendo così la possibilità ai propri allievi di seguirli per strada in presenza”.


Dall’incertezza alla nuova consapevolezza della centralità dell’istruzione.

Il contributo di Matteo Saudino, insegnante militante di filosofia e storia a Torino, animatore del canale YouTube “BarbaSophia”, si proietta verso una prospettiva possibile oltre l’incertezza che domina la scuola italiana in tempo di pandemia.
Saudino sintetizza con efficacia la situazione della primavera scorsa, ribadendo, come moltissimi hanno già fatto, che il confinamento ha messo inequivocabilmente in luce le storture del sistema scolastico italiano.
Il ragionamento si proietta, però, subito, nel futuro, a partire da una questione che, nel discorso pubblico sulla scuola, giustamente va detto a chiare lettere: nel Recovery Fund ancora risorse troppo scarse per la scuola, “a fronte di un significativo aumento delle spese militari, che nell’arco del prossimo triennio sfioreranno il 2% del PIL”. Va subito precisato, però, un aspetto fondamentale della questione delle risorse economiche: come hanno ampiamente testimoniato le cataste di banchi nuovi, la pioggia, neanche tanto copiosa, di devices nuovi, il malfunzionamento dei sistemi di videoconferenza privati usati per la didattica e per la collegialità, un investimento economico sulla scuola deve servire a realizzare un’idea di scuola, non a fingere di risolvere un problema momentaneo. Non è sufficiente dare soldi alla scuola, o alle scuole: bisogna che queste risorse siano gestibili nel senso dell’autonomia reale, per rispondere ad una visione dell’istruzione che sia inclusiva nella sostanza, cioè nelle scelte che poi diventano organizzazione.
È fondamentale, inoltre, che la scuola sia sostenuta dal tessuto amministrativo e politico del territorio in cui svolge la sua funzione, che per essa deve ripensare le proprie priorità. A livello locale e a livello nazionale, infatti, è senz’altro condivisibile la visione di Saudino, quando scrive di “inadeguatezza politica, che mescola nel dibattito sulle priorità da affrontare chiese, piste da sci, ristoranti, centri commerciali, parrucchieri, scuole e sport per adolescenti”. Inadeguatezza in cui può essere rintracciata anche una pericolosa tendenza ad alimentare conflittualità tra diritti costituzionali: lavoro, salute, istruzione.

Fin qui, la pars destruens di Saudino; la pars costruens si apre con una affermazione che starebbe benissimo in testa a una manifestazione nelle piazze italiane, se ci si potesse ancora riunire:  “il diritto allo studio in presenza è un bene pubblico di prima necessità”. Per questa forza semplice ed essenziale, Saudino sostiene l’importanza di un movimento dal basso a sostegno della scuola che si qualifica interamente per l’aggettivo “pubblica”, per chiedere a gran voce risorse economiche (imprescindibili) e intellettuali pure).
Egli sostiene inoltre che al primo posto di questo movimento pubblico dovrebbe stare un dibattito pedagogico “onesto e trasparente” sulla DaD, e verrebbe da aggiungere “indipendente”, cioè libero da condizionamenti esterni all’effettivo fare scuola.

Sempre poco interpellata, la componente studentesca della scuola è l’altro fattore che, secondo Saudino, dovrebbe diventare protagonista delle decisioni. È una posizione molto delicata: si potrebbe obiettare che non sempre gli studenti sono portatori di posizioni costruttive, anche soltanto per questioni di età, ma in realtà la partecipazione di alunni e alunne al dibattito sulla scuola non è una semplice richiesta di pareri, più o meno sincera, ma fa parte di un processo culturale che ha luogo dentro le aule, dove, nel lungo percorso dall’infanzia al secondo ciclo, si dovrebbe crescere in consapevolezza e potenzialità argomentativa.

Ultima prospettiva in avanti, ultimo colpo d’ala: il discorso sul fine dell’istruzione. Questa è questione serissima, e richiede, anzitutto, che i docenti escano dal loro “torpore”, sollevando la “questione del cosa insegnare, come insegnare e perché insegnare”. E qua, caro collega Saudino, molti asini potrebbero cascare, e alcuni volare.


 

È un coro: la scuola è fondamentale, al centro dell’attenzione, in cima alle priorità.

Il consenso unanime deve insospettire: ciò che è proclamato a parole è spesso smentito nei fatti. Noi ci troviamo precisamente in una situazione del genere: nessuno direbbe che educazione e istruzione non siano “decisive” per il futuro, ma mai come ora la sensazione di chi vive la scuola è di profondo disagio. Un disagio che, per fortuna, non produce solo passività e isolamento, ma anche l’attivazione di energie civiche, professionali, politiche, di operatori, famiglie, ragazze e ragazzi, delle quali diamo testimonianza in questa Talpa. Un approfondimento che abbiamo voluto chiedendo il contributo di voci qualificate che aiutino a capire “la posta in gioco” senza banalizzazioni e schematismi, ma con lo sguardo critico di chi è consapevole della relazione profonda fra scuola e società, fra scuola e democrazia.

(Jacopo Rosatelli, segue...)

Sommario:

1. La scuola e lo sbilanciamento dei diritti, di Alessandra Algostino

2. Volere la scuola, il protagonismo di studenti e studentesse, di Giulia Olivieri

3. Priorità alla scuola: otto mesi di mobilitazione, di Filippo Benfante, Gloria Ghetti e Costanza Margiotta

4. Il capitalismo delle piattaforme nella scuola: uscire dalla sudditanza, di Marco Guastavigna

5. Scuola. Uscire dall’incertezza è necessario e possibile, di Matteo Saudino