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04/06/2018

La scuola dei sudditi

di Maurizio Muraglia

Ricevo e - in attesa di rispondere più compiutamente - pubblico volentieri questa lettera che, insieme ad altre sollecitazioni presenti nella rivista, dovrebbe stimolare un confronto finalmente privo di paludamenti o di reticenze sul nostro contributo alla politica scolastica del paese.  [m.a.]

Lettera aperta al Direttore di "insegnare"

Caro Direttore,
"insegnare"  
è la rivista del Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti. Un centro in cui ho militato attivamente per venti anni. Ti scrivo perché voglio porre alcune riflessioni all’attenzione tua e della tua area di riferimento dei tuoi lettori. É giunto forse il momento di buttarla in politica.
In che stato di salute sta la democrazia nelle nostre scuole? Non quella insegnata, se lo é. Quella praticata.

Non si vedono riflessioni sull’argomento. In nessun luogo in cui si parla o si scrive di scuola compare un ragionamento che affronti il tema della presenza di consapevolezze e prassi democratiche all’interno di luoghi cui viene assegnato il mandato costituzionale dello sviluppo umano e civico. Non si vedono indagini che tentino di comprendere almeno quattro cose, da monte a valle.
Prima: il grado di consapevolezza, da parte dei docenti, dei processi culturali che attraversano l’età presente. Seconda: il grado di consapevolezza, sempre da parte dei docenti, delle norme che regolano la scuola. Terza: i processi di formazione della volontà collettiva nelle scuole. Quarta: la capacità dei docenti di attirare l’attenzione degli allievi sulla contemporaneità e sulle tracce di democrazia ivi presenti (o assenti). In sintesi: che tentino di comprendere se la bilancia nelle scuole penda maggiormente dal lato della cittadinanza o del suo contrario.

In questa lettera faccio valere la triplice esperienza di insegnante in classe, di insegnante tra insegnanti nella scuola in cui presto servizio e di formatore di insegnanti. Anticipando la conclusione: su tutt’e quattro le dimensioni prese in esame la situazione è al limite del tragico. Un Manzoni redivivo avrebbe materia per tornare a discutere di prepotenti, rassegnati, grida manzoniane e azzeccagarbugli. Ma senza uno straccio di lieto fine all’orizzonte e senza una provvidenza benevola che dia sensatezza al trionfo del “... ma ci impongono di fare...”. Quest’ultima infatti è la risposta più gettonata di fronte a qualsiasi tentativo di declinare la cittadinanza professionale. “Lo facciamo anche se non lo riteniamo né giusto né produttivo. Perché ce lo impongono”. Sempre al plurale. Ma chi lo impone? Silenzio. Oppure: il “clima”, il “sistema”, le”famiglie”, blob imprecisati che si ergono a carnefici di coloro che dovrebbero formare le nuove generazioni. Quale sarà la sentenza dei posteri?

Ragioniamo sulle quattro dimensioni ma partendo dalla quarta. Da valle a monte, per risalire.

La capacità dei docenti di attirare l’attenzione degli allievi sulla contemporaneità. La scuola italiana è strapiena di iniziative legate al contemporaneo. La legalità, l’ambiente, il digitale, il cinema, tantissime aree di interesse che coinvolgono i nostri allievi. Quasi sempre fuori dalle aule. Mostre, visite guidate, film, teatro, viaggi, insomma tutto quell’armamentario progettuale che fa mettere il naso fuori dalle scuole. Perché, dentro, la musica è un’altra. A scuola si suona il concerto delle discipline scolastiche, le cui note sono perfettamente conosciute dalle "Indicazioni ministeriali" e dall’editoria scolastica. Che suonano il concerto a modo loro, per alunni standard. E gli insegnanti preparano le loro cover per riprodurlo, perché se non lo riproducono poi arriva babbo Invalsi che ci picchia tutti. Cosa ci viene a raccontare lei di competenze culturali, di ricerca, di indagine, di dibattito, di riflessione condivisa, di coinvolgimento? Qua ci dobbiamo preparare alla prova del babbo che ci boccia tutti. Altro che autonomia. E questa è la scuola dei piccoli, il primo ciclo. Ma c’è anche la scuola dei grandicelli, quella che il documento del 15 maggio, o quella del c’è sempre poco tempo per il Novecento, o quella del bisogna stare attenti al commissario esterno. La colpa è del sistema. E il sistema è fatto di Ispettori e Commissari. Che hanno il compito di controllare la cosiddetta “tenuta del sistema”.
Ma non possono controllare la temperatura democratica di una scuola.

I processi di formazione della volontà collettiva nelle scuole. Come si decidono le cose nelle scuole? Democraticamente. Per alzata di mano e per maggioranze. Suffragio universale. Ma chi vota sa sempre su che cosa si sta votando? Conosce il problema? Ne ha discusso prima? O meglio: è interessato al problema? In parole brute: di chi è la scuola? Di chi la pensa e la fa? O di chi la subisce come suddito? Con questi stipendi… Giusto. Come fai ad obiettare? A stipendio piccolo deve corrispondere sforzo piccolo. Decida nelle scuole chi deve farlo e soprattutto ha tanto tempo libero. E magari ha ricevuto il bonus-merito dal Capo.

Il grado di consapevolezza delle norme che regolano la scuola. L’enfasi sulla formazione in servizio di questi anni può essere presa sul serio solo da chi non la fa. Chi la fa ha davanti a sé un panorama sconsolante. La stragrande maggioranza dei docenti italiani conosce a mala pena qualche “titolo” di norma. Se si facesse un sondaggio alla ricerca della percentuale di docenti che hanno letto almeno un dispositivo normativo significativo dall’inizio alla fine, probabilmente staremmo al di qua del cinque per cento. Lo possono testimoniare i formatori, le figure di insegnanti che ricoprono incarichi di gestione, e i dirigenti scolastici. Sulle norme vigenti le fonti conoscitive, per i docenti italiani, sono tre: l’ultima in ordine di importanza è la lettura diretta delle norme stesse; seguono in crescendo, e va già meglio ma non troppo, le circolari riassuntive dei dirigenti; trionfano infine i siti sulla scuola e gli articoli dei giornali, quando va bene. Oppure semplicemente i titoli. Nessun commento è adeguato.

Il grado di consapevolezza dei processi culturali che attraversano l’età presente. Le norme sulla scuola rappresentano il sottosistema del sistema educativo generale, che a sua volta è attraversato da processi culturali di media e lunga durata. Quei processi che solo una sparuta minoranza di docenti fa oggetto di riflessione nelle quinte classi del nostro secondo ciclo. Processi che si sostanziano di parole. Snoccioliamone qualcuna: cittadinanza, competitività, rappresentanza, populismo, relativismo culturale, postmodernità, intercultura, complessità, laicismo, religione civile, regime, postverità, e tanto tanto altro. É il lessico della cultura contemporanea. Che spunta nei seminari pomeridiani che illustri esperti tengono agli studenti e ai docenti dentro e fuori dalle scuole. Il renzismo ha voluto sbilanciare l’investimento per la formazione sull’individuale piuttosto che sul collegiale. A quanti docenti è passata per la testa la valenza populista di una simile scelta? Quindi 500 euro a testa per acculturarsi. Se torniamo alla prima delle quattro dimensioni di democrazia qui trattate, nel giro di pochi anni dovremmo avere studenti superconsapevoli del tempo che stanno vivendo. Cittadini.

Questa rivista ha ospitato il recente dibattito sul rapporto tra conoscenze e competenze. I detrattori di queste ultime paventano le derive che ho qui descritto. Ma io invece le pavento proprio per l’assenza delle competenze, che dovrebbero sorreggere la cittadinanza perché capaci di neutralizzare il nozionismo standardizzato e omologante. Che cozza con la costruzione dello spirito democratico. Proprio quello cui non ha giovato non tanto la “Buona Scuola” quanto il berlurenzismo globalmente inteso. E in ogni caso mai come nel tempo che ha seguito la “Buona Scuola” ho visto docenti così proni all’autorità del dirigente e mai ho visto dirigenti così perentori e arroganti verso le comunità professionali che dirigono. Non può essere un caso.
Il renzismo scolastico ha proclamato ottimismo e sparso annunci trionfali, ma ha predicato innovazione e formazione a praterie desertificate di gente demotivata e rassegnata. Ha stanziato risorse per chi da anni aveva perso entusiasmo e voglia di incidere sulla costruzione della cittadinanza nelle scuole. Ha generato una tale quantità di norme, contronorme e riassunti delle norme da produrre il risultato che abbiamo tutti davanti. Nessuno ne sa niente, di quel che è stato scritto negli ultimi tre anni. Grida manzoniane. E ci si affida agli azzeccagarbugli dei sindacati o delle associazioni. Non per cogliere lo “spirito della norma” o altre facezie. Ma per sapere quello che si deve fare domani mattina per eseguire gli ordini del dirigente scolastico, figura ai limiti del burnout per saturazione di incombenze. 

Il risultato di decine e decine di scuole incontrate in questi tre anni, al netto di mirabili eccezioni costituite da piccoli gruppi di docenti, è un rombo. É il rombo dell’impotenza e della sudditanza. Fatto di quattro angoli. Al termine di qualsiasi percorso in cui si prova a ragionare su una scuola per la cittadinanza, per la crescita, per l’inclusione, per il dibattito, per la ricerca, per la riflessione, per tutte quelle cose che sono il sale di una vera democrazia cognitiva, arriva il rombo. Nel rombo c’è un’idea forte. Ci sono poteri più forti di me, ed io ad essi mi devo piegare. Quali sono questi poteri? Rattrista il cuore soltanto enunciarli perché gettano una luce sinistra sull’attuale stato della professione docente: le famiglie, i libri di testo, il registro elettronico, le prove Invalsi. Il dirigente vessatorio non viene mai nominato. Lo si scopre grattando grattando oltre la cortina degli alibi. Piccoli regimi?

Non c’è scuola in cui non abbia sentito che non c’è libertà di organizzare il curricolo perché le famiglie fanno i confronti, perché i libri di testo contengono tante cose, perché l’Invalsi poi ha le sue pretese. Ed il registro elettronico ormai la fa la padrone sui processi della valutazione. Perché il registro fa le medie automaticamente, perché le famiglie guardano i voti, perché, perché, perché…
Tutto questo ha un solo nome. Sudditanza professionale. Insegnerà la democrazia alle nuove generazioni una classe docente in cui la percentuale di insegnanti attenta alle cornici culturali, professionali e normative del proprio mandato costituzionale e libera di predisporre il curricolo senza interferenze consiste in una sparuta minoranza? Serviranno una formazione precettata e una carta elettronica per costruire lo spirito democratico nella nostra scuola?

Si discute sui populismi, che per natura sono l’antitesi della democrazia. Ma che scuola ci vuole per contrastare i populismi? Che insegnanti ci vogliono? Come contrastare qualcosa che è anche il frutto di un ignorare o, peggio, snobbare le norme, come fossero grida manzoniane? Contrasterà i populismi di destra una scuola che passa gran parte del suo tempo a inseguire tutti gli adempimenti orientati all’efficienza, una scuola in cui è passata l’idea che è migliorabile tutto ciò che è misurabile, una scuola che non conosce alcuna forma di obiezione di coscienza perché da quasi vent’anni berlusconismo e renzismo (col breve intervallo del fioronismo anch’esso da non rimpiangere) sono riusciti a narcotizzare le comunità degli insegnanti e a renderle carne da macello delle famiglie, delle prove standardizzate, dell’editoria scolastica e dei registri elettronici? Il famoso rombo. Da anni i politici della scuola fanno propaganda. Riforme epocali, sorrisi a trentadue denti per le telecamere, buone scuole. E chi viene dopo dileggia quel che veniva prima. Un siparietto che dura dal 2001.

Caro Direttore, qualcuno - che non sia tu che lo fai da sempre - si farà carico di dire queste cose? Dicono che la sinistra e la destra sono categorie obsolete. A me invece pare che queste siano cose autenticamente di sinistra, che solo chi si dichiara di sinistra può e deve dire. Militare per queste cose significa prendere posizione su un’idea di società, un’idea di educazione e un’idea di scuola. Perché a sinistra è diventata così difficile una cosa così semplice?

Maurizio Muraglia

Scrive...

Maurizio Muraglia Docente di Lettere nei licei, formatore, già Presidente del Cidi Palermo