Home - la rivista - oltre la lavagna - Stefano Penge, "Valutare negli ambienti digitali"

una recensioneoltre la lavagna

26/02/2023

Stefano Penge, "Valutare negli ambienti digitali"

di Mario Ambel

Queste riflessioni prendono spunto da un volume recente di Stefano Penge: Valutare negli ambienti digitali - Idee e pratiche possibili di valutazione a partire dalla rilettura dell’OM 172/2020. Più che una recensione, vorrei tentare una disamina dei presupposti e degli aspetti di rilievo del libro. Titolo e sottotitolo delimitano con estrema chiarezza l’importanza del tema e l’attualità del riferimento normativo e quindi delle contingenze sperimentali che coinvolgono le scuole, purtroppo solo quelle primarie.
Il tema della valutazione nella scuola di base è infatti quanto mai importante e affrontarlo nell’ottica del possibile impiego degli “ambienti digitali” aggiunge alla complessità delle filosofie e delle pratiche che riguardano la valutazione, l’analisi dell’impatto e delle potenzialità di una componente le cui implicazioni sono attualmente tanto poco affrontate in modo critico, quanto invece presenti e determinanti. Pressoché invasive. 
Proverò dunque a ripercorrere contenuti e proposte del volume, così come sono esposti dall’autore nelle conclusioni, ma iniziando da una premessa, potremmo dire da una … valutazione preliminare.

Una premessa
Il pregio maggiore del lavoro di Penge è  quello di affrontare la possibilità di utilizzare strumentazioni digitali nel terreno della valutazione formativa. Si tratta di una ipotesi quanto mai interessante, per almeno due ordini di motivi.
Il primo è che, al di là delle effettive potenzialità (che sono il reale oggetto della proposta di Penge), l’impiego della strumentazione digitale è probabilmente una strada senza ritorno, ormai ineludibile, e quindi è indispensabile immaginarne e proporne usi coerenti con una didattica inclusiva ed emancipante, ovvero con una didattica che è di fatto implicita conditio sine qua non per dare senso e alimento alla valutazione formativa.
Anche perché, ed è il secondo motivo, l’uso del “registro elettronico” è stato finora il più potente alleato, da un lato, della rinnovata fortuna della forma più deteriore di applicazione della valutazione sommativa decimale, attraverso la possibilità di inanellare voti, per poi ottenerne, in modo velocemente automatico, improbabili quanto agognate “medie”; ma anche, dall’altro, dell’uso deterministico e riduttivo dei descrittori di competenza, che le tabelle a doppia entrata organizzate per livelli e profluvi di microdescrittori hanno trasformato in una defatigante e alla fine insignificante routine.
In un caso come nell’altro, quindi, o con l’apoteosi della misurazione quantitativa e ponderale, oppure con la burocratizzazione della valutazione descrittiva, ovvero, in entrambi i casi, siamo all’opposto della valutazione qualitativa, relativa e flessibile e quindi autenticamente formativa.  Come dice giustamente Penge, è necessario andar oltre al fatto che gli “strumenti digitali nella valutazione” sono relegati al ruolo di maggiordomi, dall’altro a quello di gendarmi”. Relegati, o indebitamente assurti.

Il limite maggiore del volume, invece, è quello di muoversi, almeno inizialmente, e di costruire i propri assunti, confrontandosi soprattutto con la recente normativa relativa alla sostituzione dei voti decimali con giudizi descrittivi nella scuola primaria. È un limite, comprensibile e legittimo sul piano contingente e istituzionale, che non può non pagare però lo scotto di dover seguire, almeno in parte, la falsariga di una normativa non priva di carenze e contraddizioni, che l’autore per altro analizza e discute puntualmente nella prima parte del volume. Questo limite, per certi versi legittimamente ineludibile, è però in buona misura riscattato dall’aver privilegiato, di quella norma, l’aspetto più interessante: i criteri e le variabili che dovrebbero presiedere alla formulazione dei “livelli”, più che la legittimità e la congruenza dei livelli stessi. Così com’è importante, e va ribadito con forza, che il lavoro di Penge non legittima o incentiva l’uso, ancor meno avvalorato da compilazioni digitalizzate, di liste di obiettivi, corredati ciascuno del loro “livello” di raggiungimento esperito, che sarebbe il modo più deleterio di far rientrare dalla finestra la valutazione sommativa parcellizzata, che si vuole cacciare dalla porta. Il volume va invece al cuore dei problemi dell’apprendimento e della possibilità di “descriverli”.

La scelta di Penge pone infatti  al centro della questione l’esigenza-possibilità di valutare i miglioramenti raggiunti in modo diacronico dall’allievo nell’interazione con un contesto e con oggetti di apprendimento. E, quindi, in quest prospettiva, la possibilità di farlo con strumentazioni digitali opportunamente pensate e progettate è quanto mai suggestiva. Ma andiamo con ordine, seguendo la traccia proposta dall’autore nelle sue conlcusioni.

La questione delle competenze e della loro descrivibilità diacronica
La prima e forse decisiva questione affrontata nel lavoro di Penge riguarda la necessità di una  rilettura della natura e della praticabilità delle competenze da porre come finalità dei processi di insegnamento/apprendimento e che precluda a una loro descrivibilità più coerente e utile.

«Nella prima parte abbiamo provato a trovare un sostituto del modello di apprendimento “tradizionale” (quello conoscenze+abilità= competenze) che non fosse derivato dal modello di insegnamento, ma autonomo; un modello centrato sul soggetto e sul suo percorso di acquisizione del controllo di un ambiente.»

Questa è certamente una concezione coerente e fertile di “competenza”: la capacità di agire in contesto per raggiungere in modo consapevole risultati adeguati. Un approccio coerente alle competenze implica inevitabilmente la necessità di mettere in gioco e in relazione queste variabili: soggetti / azioni / oggetti / strumenti / contesti / fini.
La proposta di Penge si propone finalità importanti: eludere alcuni rischi finora ampiamente praticati, come il debito eccessivo alle concezioni adulte, professionali e applicative della competenza, e spostare invece l’attenzione verso l’apprendimento e per di più di gruppo e cooperativo ancorché individuale e competitivo. Soprattutto diviene rilevante spostare l’attenzione verso le dimensioni diacroniche ed evolutive dell’acquisizione di competenze e la conseguente descrivibilità dinamica, più che sulla loro descrivibilità statica e sanzionatoria per livelli.  Dove anche la soggettività trova ragion d’essere osservata e valutata più nell’ottica del miglioramento raggiunto o ancora possibile, che in quella del posizionamento acquisito rispetto ad altri competitor, anche per evitare


«la ricerca della standardizzazione, la promozione della competizione, l’allineamento al “diktat” europeo delle competenze per il lavoro.»

In quest’ottica diviene centrale la giusta attenzione di Penge alle “dimensioni” attraverso cui procedere all’osservazione e alla valutazione delle competenze: anzitutto le dimensioni proposte dall’O.M (“autonomia, contesto, risorse, continuità”), ma che potrebbero anche essere altre. Così com’è giusto rilevare, come fa l’autore, la non totale contiguità fra le prime tre e l’ultima. E, ancora, diviene assai interessante porsi il problema delle modalità di rappresentazione grafico-concettuale dei criteri di descrizione delle competenze, quali per esempio lo schema a radar (qui opportunamente menzionato) rispetto ad altri.

Si giunge così inevitabilmente ai reali problemi legati alla possibilità di osservare e valutare in ottica formativa ed emancipante l’acquisizione di competenze: anzitutto il costrutto è compatibile con finalità di emancipazione individuale e collettiva o se è stato ormai irrimediabilmente asservito a logiche adattive, prestazionali, spesso acritiche? Di quali competenze in realtà si sta trattando? In che misura mantengono un rapporto con i saperi disciplinari o pongono il tema della trasversalità e, quindi, che cosa di intende per trasversalità? In che misura tengono conto di fattori comportamentali o non cognitivi? A quali “valori” si fa esplicito riferimento nell’individuarle? Ovviamente è dalla soluzione a questi interrogativi che discende poi la natura delle “dimensioni” da prendere in considerazione. E sono tutti temi trattati con attenzione nel volume.

Nel farlo, inevitabilmente, si giunge, su questa strada, a porsi questioni che riguardano non solo la valutazione ma le finalità stesse della scuola, da cui poi discendono una certa idea di valutazione e le relative pratiche.
Per esempio giustamente nel volume a proposito di un valore cardine presente nelle "Linee Guida", l’ “autonomia” del discente, si osserva:

«Se volessimo esplicitare questo valore in dettaglio potremmo dire che:
- saper affrontare una situazione nuova è un fatto positivo;
- saper cercare delle risorse alternative, invece di usare quelle prefabbricate, è una qualità da sviluppare e non una brutta abitudine da reprimere;
- liberarsi dalla necessita di chiedere sempre supporto al docente è un obiettivo da raggiungere.»

Opportunamente si  mette in guardia da interpretazioni frettolose, in quanto

«proprio questi valori sono stati oggetto di critica per il loro sapore di promozione precoce dell’autoimprenditorialità. [anche perché] Sembrano far riferimento a due specifiche competenze (Imparare ad imparare e Spirito di iniziativa) tra quelle chiave europee citate nel modello di certificazione del 2017.»

Proprio queste due “specifiche competenze” conducono a una delle questioni centrali (anche se spesso occultata) del dibattito sulla scuola di questi anni; potremmo formularla così: le conoscenze agite attraverso competenze in contesto (smettendola di contrapporre le prime alle seconde o di esasperare l’adattabilità ai contesti…) devono essere funzionali all’emancipazione individuale e collettiva o devono essere funzionali allo sviluppo del “capitale umano”? Come invece anche in tutto il recente dibattito sul “merito” si sente ribadire come assioma indiscusso e non contrattabile, in particolare da parte del nuovo Ministro. Perché si tratta di finalità assai diverse, da cui discendono competenze diverse e certamente differenti “dimensioni” delle competenze da mettere in campo nei processi di insegnamento/apprendimento, nelle modalità di acquisirle e poi di osservarle e tradurle in "valutazione".
Si tratta di questioni  ancor più rilevanti, nella misura in cui, come detto, nel lavoro di Penge c’è una prospettiva ancor più ambiziosa: individuare

«Un modello che, oltre ad essere applicabile in situazioni molto diverse tra loro - compreso l’apprendimento di gruppi e non di individui - possa essere usato per progettare dei software realmente educativi, cioè degli ambienti di apprendimento progettati appositamente per cedere il controllo al soggetto.»

Anche perché, ovviamente, affinché sia possibile una valutazione formativa è indispensabile che sia intrinseca a una didattica coerente, strumenti compresi. Difficile fare didattiche coerenti con la valutazione formativa con strumenti didattici, cartacei o digitali, orientati alla trasmissione di contenuti o all’addestramento a routine ripetitive o standardizzate.

Ambienti digitali e centralità dell’apprendimento
Le stesse problematiche che attraversano natura e finalità delle competenze riguardano l’altro tema centrale del volume: la possibilità non solo di valutare attraverso strumenti digitali, ma di progettare e usare ambienti digitali che consentano la raccolta, l’osservazione e di conseguenza la valutazione degli apprendimenti.
In questa prospettiva anche il ruolo degli strumenti digitali potrebbe assumere maggior coerenza e rilevanza, oltre i limiti nei quali sono stati finora circoscritti. Il tema si pone in stretta correlazione con quello dei dati che vengono raccolti durante i processi di apprendimento. In tal senso appare giustamente illogica la contraddizione fra fornitura indiretta dei dati che riguardano gli allievi a piattaforme e interessi esterni, commerciali e di controllo, e incapacità di raccogliere elementi utili alla valutazione e all’autovalutazione dei processi di apprendimento:

«Mentre i dati personali di docenti, genitori e studenti vengono allegramente forniti a qualunque “app” didattica, non si fa nulla per registrare e utilizzare i dati che permetterebbero di aiutare gli studenti nel momento esatto in cui ne hanno bisogno.»

Diviene così strategica la progettazione di adeguati ambienti digitali di apprendimento, che non coincide però con l’utilizzo, troppo spesso acritico e non raramente ingenuo o corresponsabile, di proposte didattiche e ambientali fornite sul mercato della presunta “innovazione” tecnologica:

«Naturalmente non tutti gli ambienti digitali garantiscono che questi dati non verranno mai diffusi al di fuori dell’ambiente; non tutti permettono l’accesso solo a quelli che ne avrebbero diritto (studenti e docenti); non tutti quelli che lo permettono si preoccupano di renderli utilizzabili dal punto divista della valutazione per come l’abbiamo descritta nel testo.
Questo significa due cose: da un lato, che la scelta di un ambiente digitale da usare per la didattica deve anche utilizzare come parametri queste diverse disponibilità dei dati; dall’altro, che occorre da parte dei docenti una competenza specifica e una decisione di utilizzare questa competenza.»

Da parte del docente, divengono quindi essenziali due presupposti: accettare la centralità dell’apprendimento ai limiti di una dimensione “diminuita” del ruolo del docente e dotarsi di competenze adeguate:

«La difficoltà più grande è probabilmente quella di convincere il docente che al centro di tutto c’è l’apprendimento, non l’insegnamento; di conseguenza, convincerlo che l’intervento più utile a volte consiste nel ridurre il ruolo del docente man mano che l’ambiente diventa sempre più complesso per lo studente, perché questi possa ricostruire autonomamente una propria relazione con esso.
[…]
Non si tratta di partecipare ad un ennesimo corso ma di aver voglia di riconoscere e prendersi cura dei dati degli studenti: assicurarsi che non vengano sfruttati fuori dai loro limiti naturali, provare a utilizzarli per seguire l’andamento dell’apprendimento di singoli studenti o di gruppi, cercare di tenerne conto per modificare, se necessario, le proprie azioni didattiche.»

Sulle dinamiche fra docente/discente, ambiente, strumenti e relative logiche soggiacenti sarebbe interessante approfondire il discorso, perché, come già per le competenze, anche il concetto di ambiente di apprendimento (e in esso la centralità del soggetto che apprende) possono essere intesi, progettati e applicati sia in ottica di autonomia, consapevolezza critica, flessibilità creativa, emancipazione, sia al contrario di dipendenza, esecutività riflessa, flessibilità adattiva, sudditanza.

D’altro canto, opportunamente, Penge non si pone nell’ottica di chi ha le soluzioni pronte all’uso (limite o voluta predisposizione di tanta pubblicistica e produttività nel campo della sedicente innovazione digitale), ma di chi pone una serie di questioni rilevanti e decisive, che la scuola e, forse ancor di più, gli stessi progettisti e propagatori di ambienti digitali dovrebbero saper affrontare con maggior trasparenza e consapevolezza. Perché finora, l’ideazione e l’impiego di piattaforme, ambienti, dispositivi e strumenti digitali è andato assai più nella direzione dell’asservimento a logiche, procedure e valori eterodiretti, che non alla affettiva crescita ed emancipazione dei soggetti e delle collettività in condizioni di apprendimento.

Stefano Penge

Valutare negli ambienti digitali.
Idee e pratiche possibili di valutazione a partire dalla rilettura dell'OM 172/2020.

Anicia, 2022

p. 160, euro 20,00

 

Scrivono...

Stefano Penge Filosofo prestato all'informatica, formatore, autore di software e di saggi sulla didattica con gli strumenti digitali.

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".