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28/05/2022

L’argomentazione sulla guerra e il debate

di Mario Ambel

L’argomentazione sulla guerra e il debate

Dopo mesi di argomentazioni sulla pandemia e le reali o presunte vessazioni antidemocratiche indotte dai provvedimenti restrittivi deliberati dai governi, ci sta purtroppo capitando di peggio: assistere, ormai da quasi tre mesi, a diatribe quotidiane sulle origini, le cause, gli sviluppi e i possibili epiloghi della guerra in Ucraina. Il peggio, ovviamente è dato dalla gravità dell’evento e delle sue conseguenza. Ma in parte, anche dalle evidenze che emergono dal dibatterne così insistito e pervasivo. Almeno se osservato con l’occhio di chi si chiede quale possa essere il compito e la natura dell’intervento educativo che la scuola può mettere in campo al riguardo.

Non mi riferisco alle modalità con cui le scuole e i docenti sono chiamati, nel momento stesso in cui gli eventi si svolgono e vengono commentati, a rispondere alle domande degli allievi, ad attivare percorsi di consapevolezza critica, ma anche di rassicurazione per i più piccoli, di presa di coscienza per i più grandi, di costruzione di strumenti di comprensione e interpretazione per gli allievi ormai giunti alla fine del lungo percorso di studi, nella cui programmazione  compaiono spesso l’analisi e la comprensione di aspetti anche particolarmente complessi della contemporaneità. O meglio, mi pongo solo in parte questo problema, poiché non lo affronto dalla prospettiva (impervia) della didattica della storia, né di quella (in buona misura velleitaria) della fantomatica educazione civica, ma anche solo da quella, apparentemente meno problematica, del docente di educazione linguistica, ovvero di chi ha il compito di progettare e applicare coerenti percorsi pluriennali di acquisizione delle competenze di lettura, ascolto, parlato e scrittura.

Dal punto di vista dell’osservazione delle dinamiche comunicative e delle modalità con cui mettere in atto processi di educazione linguistica, credo di poter fare alcune considerazioni, certamente marginali a fronte della difficoltà del compito, ma forse di qualche utilità.

La prima considerazione riguarda il forte squilibrio fra le diverse abilità linguistiche che si è trovato e si trova a esercitare chi abbia voluto restare aggiornato sull’evolversi della guerra e sulle relative posizioni in campo. Come era già avvenuto per la pandemia, ma in modo ancor più rilevante, l’informazione sul conflitto è sostanzialmente passata attraverso l’argomentazione orale o meglio attraverso la comparazione competitiva di differenti argomentazioni orali trasmesse in video dai diversi canali televisivi, e poi a frammenti di singoli interventi nelle rielaborazioni su youtube. Oltre tutto, per avere un quadro sufficientemente ampio di posizioni diverse, fruire dei testi prodotti in televisione e in rete offre certamente più garanzie, se non altro quantitative, della lettura di uno o due quotidiani. In tal senso il pluralismo delle posizioni è garantito dalla comunicazione televisiva e dalle molteplici riprese in rete, estrapolate dalle trasmissioni dei giorni precedenti.
Raramente, forse anzi per la prima volta, un evento di tale portata, anche dialettica e problematica, è stato seguito più su canali orali che scritti. Alla fine, ciascuno di noi, avrà su questa guerra ascoltato (e in parte visto) molto di più di quanto avrà letto.  La guerra in Ucraina è la prima, a così alto tasso di coinvolgimento seppure indiretto, a essere seguita  per la stragrande maggioranza dei casi su fonti orali in dialettica (ma sarebbe meglio dire in antagonismo) fra loro. 

E qui si pone il primo, arduo obiettivo didattico: incrementare le competenze di comprensione di testi orali argomentativi complessi, i cui presupposti culturali e inferenziali li rendono di assai complicata decifrazione. E si tratta di un obiettivo tradizionalmente assai trascurato nella didattica dell'italiano.

Ancor più difficile sarebbe porsi l’obiettivo di saper valutare, di quelle argomentazioni, attendibilità, efficacia, coerenza del ragionamento, propensione alla propaganda, tanto più che la varietà delle tipologie dei mittenti rendono impervio il lavoro interpretativo del destinatario.
A intervenire sono infatti tipologie diverse di interlocutori: giornalisti (in parte reporter e in parte opinionisti), politici, militari, diplomatici, tecnici di varia provenienza (politologi, storici, sociologi, filosofi, esperti di strategie, ecc.), imprenditori, personalità della cultura e dello spettacolo particolarmente attente alle problematiche dei rapporti umani e politici. Ciascuna tipologia attinge (o dovrebbe attingere) a propri criteri analitici e interpretativi, che spesso restano impliciti e di non facile controllo, e quindi la comprensione da parte di chi ascolta è tutt’altro che semplice.

Se accettiamo che comprendere e saper valutare questo tipo di interventi dovrebbe far parte del bagaglio di un cittadino informato, arriviamo a una seconda consapevolezza relativa alla politica scolastica: va da sé che chi ascolta dovrebbe aver assolto a un obbligo scolastico ben superiore (ed efficace) rispetto a quello attuale.

C’è un ulteriore aspetto che merita attenzione  e riguarda le modalità stesse della confezione delle singole argomentazioni e della loro collocazione, prima nel confronto nelle arene mediatiche e poi  nella collazione dei frammenti  in rete.
Nei molti talkshow che affastellano il palinsesto ormai quasi h 24, come si direbbe oggi, il meccanismo è quello del confronto o del dialogo (apparente) fra ospiti di tendenze diverse, scelti dalla conduttrice o dal conduttore per far sì che si confrontino e spesso si scontrino alcune delle posizioni in campo. Ormai infatti, pur nella estrema difficoltà di collocare ragionamenti e posizionamenti, si sono andati delineando i quattro o cinque filoni di pensiero cui, anche indipendentemente delle matrici euristiche dei singoli ragionamenti, si collocano i diversi interpreti. Descriverli e ancor peggio etichettarli significa di fatto entrare comunque sul terreno delle interpretazioni e delle valutazioni.

Anche a questo proposito alcune considerazioni possono essere fatte. La prima è la forte sensazione che la spettacolarizzazione del dibattito spesso prevalga sulla volontà di indagare e far capire, con il rischio più o meno calcolato che il confronto si traduca in scontro verbale. 
 Si tratta di una modalità abbastanza dominante e più o meno calmierata dalla natura della trasmissione, della rete o dalle scelte e dalle capacità di chi conduce.  Va detto, in ogni caso, che al di là delle reali motivazioni, di certe intemperanze di chi conduce quando un ospite esce troppo dai binari interpretativi della rete o della trasmissione, e di una certa tendenza (per certi versi ineludibile in tempi di guerra) a stigmatizzare e colpevolizzare di tradimento le posizioni divergenti rispetto alle scelte dominanti, il panorama che ne esce è quello di un notevole pluralismo di posizioni, di opinioni, di scelte conseguenti. Chi voglia ascoltare opinioni diverse ha ampiamente la possibilità di farlo: sia nei talk show, sia andando in rete alla ricerca di questo o quel contributo, di solito stralciato e isolato dal resto della discussione. Questa seconda modalità di fruizione accentua la pregnanza della singola posizione, riducendo ovviamente le possibilità di contraddittorio, se non quello che può esercitare interiormente chi ascolta, a partire dalle proprie posizioni.

In ogni caso, e questa mi sembra dal punto di vista pedagogico-educativo la circostanza più interessante, in tutti gli interventi - e soprattutto nel confronto più o meno reale che si instaura fra loro -  pare che i presupposti impliciti dei posizionamenti, da cui discendono le singole argomentazioni, prevalgano sull’analisi e il confronto delle posizioni sui singoli aspetti. E anche sulle matrici interpretative da cui dovrebbero discendere ed essere sostenute.
Così possiamo assistere a confronti fra contendenti fra loro eterogenei per professione e quindi per matrice del loro ragionare (un giornalista, un politico, un tecnico, un diplomatico),  schierati su fronti opposti del contendere, ma più in generale che non sullo specifico, così che il confronto sul singolo tema messo in discussione da chi conduce (armare o non armare l’Ucraina;  aumentare le spese militari; accrescere le sanzioni; come valutare questo o quell’episodio del conflitto; come giudicare il tasso di propaganda delle comunicazioni che provengono dai vari fronti, compreso quello “nostro”; come lavorare per favorire una fine o almeno una riduzione del conflitto, ecc.) viene di fatto sovrastato e condizionato dai posizionamenti aprioristici e dagli esiti che si vorrebbe che il conflitto avesse. Così possiamo assistere allo scontro fra un giornalista, uno storico e un politico non sulla base della validità delle argomentazioni che adducono e in nome della trasparenza dei criteri interpretativi (delle discipline o dei campi di esperienza)  che utilizzano, ma in virtù del loro posizionamento nel conflitto  (l’appartenenza o la vicinanza più o meno convinta a uno dei due schieramenti; la non appartenenza o vicinanza a nessuno dei due e la critica equidistante a entrambi; il prevalere di interessi vicini nel tempo e nello spazio o la tensione verso equilibri più generali anche se lontani;  il pragmatismo che prevale sulle tensioni ideali; le opzioni ideali che vengono a patti con le circostanza di fatto, ecc.).

Questo aspetto, in parte inevitabile in ogni confronto argomentativo, è certamente accentuato in tempi bellici. Ma di fatto rende queste argomentazioni alla fine sterili e del tutto insignificanti, non solo nella ricerca di possibili soluzioni del conflitto, cosa di per sé abbastanza ovvia perché purtroppo le guerre non si risolvono nei dibattiti televisivi o in rete, ma neppure nella faticosa ricerca di capire un po’ di più che cosa sta succedendo e quindi di farsi una propria idea avvalorata da coerenti disamine dei fatti e dal confronto delle opinioni.

Per decidere come educare alla comprensione reale e al tanto agognato spirito critico, queste considerazioni costituiscono altrettanti interrogativi.  Tornando infatti ai nostri rovelli pedagogici, questo non è propriamente un modello di argomentazione cui dovremmo tendere, anche se contiene in sé alcuni dei presupposti e dei pregi, ma anche dei limiti, del dibattito democratico in un contesto di spettacolarizzazione e quindi di acquisizione di audience ancor più che di consenso. Esercitare i nostri allievi a questo tipo di uso dell’argomentazione e dei suoi presupposti e quindi di confronto democratico sarebbe solo in parte “educativo”. Oppure è in realtà ciò che possibile e auspicabile: che persone , “cittadini”, con provenienze professionali e posizionamenti diversi si confrontino mettendo in campo un rapporto più o meno evidente fra idee di fondo e giudizi sulle singole cose, anche con il rischio di far fatica a riconoscere la manipolazione degli argomenti e delle singole affermazioni?

A questo punto, anche in virtù di recenti tendenze metodologiche, per  noi docenti di educazione linguistica, si profila un ultimo interessante quesito: sarebbe meglio o peggio se, in una trasmissione, si confrontassero due squadre avverse, che, sulla base di una comune appartenenza e quindi condivisione di idee e posizioni, si fossero preparate a discutere su un terreno dialettico, per esempio “È opportuno intensificare l’invio di armi in Ucraina?”, formulando l’esposizione della propria tesi, predisponendo le domande da porre alla squadra avversa, le risposte da contrapporre alle possibili confutazioni avversarie. E che alla fine, il pubblico in sala, oppure quello a casa con il televoto sancisse la vittoria dell’una o dell’altra squadra?  Perché l’obiettivo sarebbe prevalere e magari, la sera dopo, confrontarsi con un'altra squadra: per esempio i pacifisti, dopo aver eliminato i rossobruni, potrebbero confrontarsi con i filoatlantici che hanno nel frattempo sconfitto i filoeuropei. E nel caso questi ipotetici eventi televisivi si verificassero, quanto e come conterebbero nel loro svolgersi la conoscenza degli argomenti, il rigore delle analisi e delle argomentazioni, l’efficacia retorica dell’esposizione, la vis dialettica dei contenenti, il look a l’appeal delle e degli interpeti?

Ecco, in base alle risposte che fornisce a queste domande, chi legge può valutare quanto ritiene attendibile e auspicabile o deleterio e diseducativo, l’apprendimento delle tecniche e delle pratiche del debate, così diffuso tra i promotori delle "innovazioni" metodologiche e delle "avanguardie" educative.

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".