Home - la rivista - opinioni a confronto - Cambiare la scuola? Sì, ma come?

il casoopinioni a confronto

03/07/2014

Cambiare la scuola? Sì, ma come?

di Mario Ambel

La gabella d'origine

Ci siamo purtroppo ormai abituati da tempo a proposte politiche debitrici almeno in parte di una qualche dipendenza dai miti più o meno fasulli che dominano nell'opinione pubblica. Ormai le proposte, sia di governo che di opposizione, sembrano sempre scaturire da qualche ciacola da bar, da anticamera dello studio del medico curante o, per averne una qualche percezione più accurata, da qualche più o meno frettoloso sondaggio.  Una sorta di macro political café, dove le scelte devono sempre e per forza pagare alla chiacchiera da distributore automatico una gabella d'origine, ovvero un dazio per poter viaggiare con successo nell'universo mediatico.

Non appare da meno la serie di proposte contenute nel “Piano sulla scuola” dell'attuale governo (o “Patto”: le gazzette sono contraddittorie al riguardo), almeno così come sono state presentate dagli organi di informazione, per esempio da Repubblica il 2 luglio.  

E che il titolo, virgolettato, rifletta sostanza e stile del proponente lo conferma il titolo di Libero, identico. Oppure su Blasting.News, sempre del 2 luglio.
 

Riccardo Massa, Un esercizio di pensiero
da Riccardo Massa, Cambiare la scuola, Laterza, 1997.

Per poter cambiare la scuola, come per poter operare qualunque cambiamento, occorre per prima cosa, al di là dei soliti discorsi di carattere politico e istituzionale, un esercizio di pensiero. Solo attraverso il pensiero è possibile generare qualcosa di pratico e di concreto. La scuola chiede di essere ricreata e generata, non semplicemente abolita o rinnovata. (p. 10)

La forma tradizionale della scuola, tuttora imperante nella sua impotenza didattica, è quella dei maestri e dei professori, delle au­le e degli orari, delle classi e dei banchi, delle materie di studio e dei libri di testo, delle spiegazioni e degli esercizi, dei compiti e delle lezioni, dei voti e delle interrogazioni, delle bocciature e de­gli esami, della burocrazia amministrativa e ministeriale. I test e la programmazione didattica, i nuovi programmi, i metodi attivi, le ricerche e i lavori di gruppo, le gite scolastiche e gli scambi cultu­rali, le attività parascolastiche e i supporti psichiatrici, il rapporto con il mondo del lavoro, l'aggiornamento dei docenti, le nuove fi­gure professionali, le grandi finalità educative, non hanno intacca­to la forma-scuola tradizionale. Neppure la fantasia di dissolverla nella strada o nel quartiere è servita a qualcosa. Il suo dispositivo è rimasto lo stesso. Solo le scuole a tempo pieno degli anni Settanta o alcune esperienze alternative teorizzate dalla pedagogia del No­vecento hanno provato a mutarlo. Oggi questo è possibile perché quel dispositivo si è inceppato e disfatto definitivamente. È la for­ma tradizionale che esso assegna alla scuola a essere andata in cri­si, non quest'ultima in quanto tale. Se si cambiasse dispositivo, ci si potrebbe riappropriare di tutti quegli elementi innovativi che si illudevano di trasformarla senza por mano alla sua struttura laten­te. Che è cosa diversa dal limitarsi a una riforma del suo impianto curricolare e istituzionale. (p. 130).


Bisogna riconoscere a questa ipotesi il merito di aver posto un problema serio (l'organizzazione del lavoro nella scuola e la professionalità docente, per il bene della scuola e del Paese) ma di averlo fatto nel modo peggiore: punitivo (o "premiale" che è esattamente lo stesso), stantio, un po' banale. Con un linguaggio tra l'aggressivo e lo sbrigativo e una tempistica  cui siamo tristemente avvezzi: da almeno 50 anni questa è la stagione dei provvedimenti o delle proposte dirompenti sulla scuola (forse per punirle della chiusura estiva). Ma affrontare la questione del cambiamento della scuola a partire dall'affer-mazione che gli insegnanti lavorano poco (in termini di mesi all'anno o di ore alla settimana) significa infilarsi in un vicolo cieco, una querelle paludosa, piena anche di pregiudizi e di rigidità. Si finisce prigionieri di uno scontro inutile: fra detrattori esterni che vagheggiano panacee vendicative sulla base della totale ignoranza di quanto e come effettivamente si lavori oggi nelle scuole e reazioni interne che oscillano fra pulsioni verso un improbabile stakanovismo autopunitivo, la vocazione a un persistente volontariato sociale o la difesa sempre più inopportuna e corporativa di privilegi reali o presunti.  Tutti piani del discorso e delle pratiche che non ci interessano. Tutti piani sbagliati perché sbagliato, pregiudiziale e parziale, ne è l'approccio, lacunosa o assente la prospettiva. Sono piani i discorsi ad alto effetto mediatico -e infatti la bagarre si è subito infiammata-, ma che hanno scarsissime possibilità di condurre da qualche parte.
Se per esempio si fosse partiti dal mettere in discussione prioritariamente non il quanto, ma il come lavorano gli insegnanti già la prospettiva sarebbe diversa. Ma non basterebbe ancora. 

Una questione di fondo
C'è una questione di fondo che va posta alla base di ogni discorso sul cambiamento della scuola ed è l'idea - culturale e pedagogica - di scuola (che vuol anche un po' dire di società che la riflette e vi si riflette) cui si guarda e che si vuole costruire. Senza un'idea di scuola, qualsiasi provvedimento, non solo è destinato a fallire, ma quel che è peggio a far danni. Com'è accaduto a tutte le proposte e le scelte politiche di questi ultimi vent'anni.
Questo problema ha un corollario di non poco conto: chi ha la credibilità culturale e profes-sionale per avanzare oggi un'idea di scuola vincente sulla quale rimodellare i progetti curricolari e le dimensioni relazionali, l'organizzazione del lavoro, le scelte metodologiche e le pratiche didattiche, le procedure di autovalutazione e valutazione esterna, le relazioni con il territorio e la collettività?

Chi è credibile?
Non è facile rispondere in un paese…
- dove la politica ha dato pessime prove sul piano progettuale, riuscendo a esercitare con coerenza e persistenza bipartisan solo la riduzione delle risorse e la schizofrenia fra proposizioni programmatiche e scelte normative;
- dove anche le organizzazioni sindacali per un verso e associative per un altro non sono (o non siamo) esenti da corresponsabilità, talvolta per aver difeso pratiche e situazioni non più difendibili, altre volte per non aver contrastato con sufficiente fermezza derive che si potevano forse evitare; altre volte, ed è la colpa più grave, soprattutto a sinistra, per non aver elaborato e saputo realizzare con più coraggio e persistenza un progetto di scuola capace di abbandonare  le vischiosità del passato e di valorizzare la qualità dell’impegno profuso da molti docenti e allievi;
- dove la scuola stessa spesso non si ama e legittima abbastanza o almeno non nel modo giusto, oscillando fra un conservatorismo culturale e pedagogico ormai insostenibile e momenti di velleitarismo fine a se stesso;
- dove l’Università non si è fatta scrupolo di tenere per anni le ipotesi e le pratiche di formazione iniziale dei docenti ostaggio di conflitti accademici;
- dove tutti gli strumenti e gli enti di supporto al lavoro della scuola, da quelli interni istituzionali a quelli collaterali, non hanno mai saputo individuare e perseguire priorità strategicamente efficaci o sono stati strumentalizzati a fini a dir poco controproducenti;
- dove gli stessi genitori sono eccessivamente sottomessi a una visione individualistica del rapporto con la scuola, in parte comprensibile e legittima ma che si fa deleteria quando eccede in pratiche autoassolutorie e in rivendicazioni isteriche e marginali;
- dove per avere audience sui media a proposito di scuola, ovvero per diventare maître à penser sulle faccende scolastiche, bisogna magari anche insegnare, ma nel frattempo aver vinto il Campiello o il Festival di Sanremo o almeno provarci: bisogna essere insegnanti a tempo perso, credibili per meriti acquisiti in altri campi.     (m.a.)

Chi  ha oggi, la credibilità per proporre e difendere un’idea di scuola credibile e funzionale al futuro del Paese? Non è facile rispondere in un paese che ha visto il compiersi di non poche storture che elenchiamo nel riquadro qui a fianco, per non appesantire troppo di tristezze queste considerazioni che intendono essere propositive.

Non è facile, ma dobbiamo riuscirci, perché la scuola è a un passo dall'autoannullamento e il Paese ha per questo il dovere di rimodellare un'idea di scuola credibile, autorevole, funzionale alla vita e allo sviluppo delle nuove generazioni e delle pratiche di cittadinanza attiva.

Noi (intesi come persone di scuola unite da frammenti di storie personali, di posizioni ideali, di condivisioni  professionali) abbiamo la presunzione di avere questa idea di scuola da tradurre in scelte normative con cui i decisori dovrebbero avere l'obbligo di confrontarsi. Pensiamo di averla in nome di una vita spesa a insegnare, anzi ad attivare processi di apprendimento (così cominciamo a rimettere per il verso giusto qualche paletto), e a lavorare per cambiare e migliorare davvero la scuola; e in nome di un ampio consenso dentro la scuola reale, quella fatta da chi a lavorare ci prova davvero, tutti i giorni, nonostante tutto e tutti: un consenso che misuriamo non in voti elettivi o in percentuali di appeal mediatico ma in stima e collaborazione nelle occasioni in cui lavoriamo dentro e con le scuole.

Noi continueremo a proporre e a interpretare, anzitutto nelle scuole, e poi da queste colonne, nelle istanze collettive in cui militiamo,  in iniziative pubbliche e dibattiti, a raccogliere e proporre la nostra idea di scuola e di cambiamento.

Crediamo profondamente che la scuola debba cambiare e molto. Ma rivendichiamo il dovere di non  tacere di fronte all'ennesima approssima-zione che questa volta potrebbe essere letale. In questi anni abbiamo accettato troppi  errori, troppe restaurazioni, troppi soggetti incompetenti in luoghi di potere. Troppo spesso ne siamo diventati al contempo vittime e complici. Per sfiducia, per stanchezza, per rinuncia, per rassegnazione.
Se il Presidente del Consiglio vuol davvero cambiare il Paese e la scuola in meglio, ha il diritto e il dovere di provarci. Noi abbiamo il diritto e il dovere  di dire che cosa pensiamo e di avvertirlo che la scuola è a un passo dal baratro: basta pochissimo a farla precipitare e se sbaglierà strada, se imboccherà sentieri demagogici e populisti, i danni che ne deriveranno alla scuola saranno questa volta epocali.

Raccoglieremo, fin d'ora e poi nei prossimi giorni, risposte, reazioni a caldo e poi ragionamenti più estesi e proposte più organiche, per comporre quella che a nostro parere dovrebbe essere la vera "agenda" di azioni e di priorità di chi volesse davvero cambiare la scuola e non solo farci su qualche ulteriore risparmio di spesa o qualche operazione di restyling a elevata resa mediatica.

Per approfondire

L'intervista a la Repubblica  è reperibile nella rassegna stampa del MIUR

Qui invece è possibile consultare una descrizione del sistema scolastico olandese, cui il Minsitro Giannini ha dichiarato di guardare con interesse

 

Credits

L'immagine a lato proviene dall'Archivio privato Lanza di Casalanza ed è tratta da Tra i banchi. Frammenti di vite scolastiche dall'Unità a oggi, Catalogo della Mostra storica, documentaria e fotografica presso Archivio di Stato di Torino, a cura di C. Palumbo, 2011.

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".