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20/02/2017

Sui decreti attuativi in generale e su alcuni in particolare

di Alba Sasso

Un esproprio della partecipazione
Quando la protesta contro la legge 107  riempiva le strade e le piazze d'Italia, per molti era già chiaro che affidarsi ai decreti legislativi per definire materie importanti e decisive per il sistema scolastico  significava una cosa precisa: che la possibilità di cambiare o emendare  i decreti che, per norma, passano all'esame delle commissioni parlamentari solo per un parere, sarebbe stata pressoché nulla.  L'iter è quello e non prevede discussione parlamentare. Solo il Governo potrebbe decidere, dopo i pareri delle Camere, modifiche e cambiamenti. Un vero e proprio esproprio della partecipazione al dibattito nella scuola e  in Parlamento.

Non possiamo inoltre dimenticare che la legge 107 piombava su  una scuola già impoverita dalle politiche tremontiane (un taglio di otto miliardi e mezzo che ha significato diminuzione di posti di lavoro e conseguente spezzettamento di cattedre e abolizione di alcuni insegnamenti, nonché riduzione dei fondi per il diritto allo studio ) e che il governo Renzi, come i precedenti Monti e Letta, non ha mai pensato di dover restituire qualcosa  all'intero sistema, prima di accingersi alla cosiddetta riforma "epocale".

Vincoli di bilancio e assenza di visione complessiva

Anzi. Non è un caso che  una delle precisazioni che ricorrono più frequentemente nei testi delle deleghe sia quella che non sono previsti, per ognuna di esse, ulteriori oneri finanziari per lo Stato.
Difficile allora  far convivere innovazione con vincoli di bilancio. Penso per esempio alla delega sull'handicap che si muove in una situazione in cui già da anni sono diminuite le ore di sostegno. Che continueranno a diminuire e a rendere sempre più impervio il cammino dell'integrazione. A cominciare dagli esami di terza media che non prevedono prove differenziate e  che finiranno col rendere, per quelle ragazze e quei ragazzi,  sempre più difficile acquisire la licenza di scuola media, che permette loro di   entrare nel mondo del lavoro. E sarebbe importante che questa battaglia non rimanesse esclusivo appannaggio delle associazioni di settore, perché è una battaglia che riguarda tutte e tutti , un tratto di civiltà o di barbarie. 

Infine, pesa sui decreti legislativi la struttura complessiva della legge 107, che da un lato disegna una organizzazione piramidale e gerarchica,  affidata a un capo piuttosto che a un dirigente, scelta che mal si addice a una scuola che sempre più  ha bisogno, per funzionare,  della responsabilizzazione di tutti i soggetti, dall'altro presenta una  assoluta mancanza di visione complessiva su ruolo e funzione  della scuola nella realtà contemporanea.
Non sto parlando di programmi , ma della capacità della scuola di costruire cultura, di dare strumenti per capire la realtà e di far acquisire la capacità di comprendere e padroneggiare  storie, segni e linguaggi di un mondo in continuo cambiamento. "La nostra scuola dovrebbe esserci compagna privilegiata nel processo di acquisizione della capacità di muoversi nello spazio tra prodotti e repertori sparsi in tutto lo spazio culturale" (Tullio De Mauro, Minima scholaria, Laterza, 2001).
Non sarebbe stato più utile coinvolgere in un dibattito su questi temi  il mondo della cultura, le rappresentanze del lavoro,  piuttosto che ricorrere a slides e lavagne?

In questa ottica, di mancanza di visione generale e  di dibattito pubblico,  vorrei ragionare per ora di due decreti legislativi, quello sulla formazione delle e degli  insegnanti e quello sulla ridefinizione dell'istruzione professionale.

La formazione  delle e degli  insegnanti 

Sul primo.  Negli ultimi decenni, quando era ormai acquisito nel dibattito pubblico sulla scuola  che non è detto che chi sa sappia anche insegnare, si sono modificati il percorso formativo e le modalità di accesso all'insegnamento delle e degli insegnanti. All'inizio erano abilitazioni e concorsi, poi con la legge 340 del 2004 nacquero le  Scuole di specializzazione all'insegnamento (Ssis), sostituite poi da altri percorsi di formazione post- lauream, affidati prevalentemente alle Università (Tfa, Pas).

Con il decreto legislativo  sulla formazione dei docenti si cambia ancora una volta. Dopo la laurea magistrale c'è il concorso (nelle esperienze recentissime un terno al lotto), superato il quale si entra nella scuola. Poi un altro anno di formazione gestita dalle Università (dopo cinque anni di percorso universitario). Poi due anni di tirocinio a scuola nei quali fare anche supplenze. Dove si colloca la possibilità di imparare a "essere insegnanti" confrontandosi anche con l'organizzazione della scuola, con i bisogni nuovi di sapere dei giovani, con le loro certezze e le loro fragilità, e infine con i docenti che vi lavorano? 

L'istruzione professionale

Sul secondo. Il decreto legislativo sull'istruzione professionale, deve essere stato riscritto in fretta, perché la vittoria del No al referendum costituzionale ha bocciato, insieme a tutto il resto, anche l'ipotesi di trasferire l'intero settore, compresa la formazione professionale, allo Stato, togliendo di mezzo non solo le competenze concorrenti (tra Stato e Regioni) ma anche quelle esclusive regionali  (la Formazione professionale: IFP, appunto).
E  alla fine  è stata riproposta  un' istruzione professionale,  così com'era, con qualche indirizzo in più, con modelli organizzativi insoliti ( 2+1+2), schiacciata tra Istruzione Tecnica (più forte e consolidata) e i percorsi professionali triennali regionali. Ancora una volta un percorso separato da tutti gli altri, che prevede anche una forma di 'governo' autonomo, la rete degli Istituti professionali.
Insomma, una modesta proposta, impari rispetto a un dibattito ossessivamente orientato al tema del rapporto scuola/lavoro.  Una proposta che non tiene conto: della diminuzione continua degli iscritti, che preferiscono i più consolidati tecnici; di vecchie e nuove emergenze educative,  e a  questo proposito il decreto arriva a indicare persino metodologie didattiche, che sarebbero  peraltro di competenza  degli insegnanti e delle scuole; della difficoltà di sbocchi lavorativi, tranne che per alcuni indirizzi, come gli  alberghieri.

Sarebbe forse stata l'occasione di ripensare l'intero settore tecnico- professionale, senza aumentare indirizzi (quale studio di economia dei territori è stato fatto per proporre l'indirizzo quinquennale della pesca?) ma creando raccordi tra i due settori e il sistema della formazione regionale. E forse prima di tirar fuori il decreto ci sarebbe stato bisogno di una discussione pubblica e approfondita, in primo luogo in sede  di Conferenza Stato/ Regioni per definire un progetto complessivo credibile e soprattutto utile.