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28/03/2015

Sul disegno di scuola e chi la abita

di Giuseppe Bagni

C'è una strada facile per scrivere un pezzo ben argomentato sul Disegno di Legge del governo Renzi. Si enumerano le cose che vanno bene e quelle che vanno male. Chi è favorevole, parte da quelle negative e finisce amplificando le positive; chi è contrario, fa il percorso opposto per liberarsi rapidamente del positivo e concentrarsi sul negativo.
È uno schema troppo semplice che oltretutto favorisce la polarizzazione del dibattito su posizioni senza sfumature e zone di sovrapposizione, quando già la partecipazione alla politica si sta riducendo all'opzione del "mi piace", che si clicca prima e a prescindere dal commento (i "perché" dei mi piace interessano meno).
Sarebbe un approccio che rischia paradossalmente di lasciare sullo sfondo la scuola e i suoi reali bisogni: un lusso che non dobbiamo permetterci.

Che cosa sappiamo
Conosciamo i problemi della scuola? Sì: dagli anni Settanta abbiamo rilevazioni internazionali che ci danno certezza del fatto che il rendimento scolastico degli studenti è legato al contesto territoriale. Che il destino nella scuola "superiore" è legato non solo al  merito dei singoli ma anche all'indirizzo scelto, e che questa scelta è ancora fortemente connotata socialmente.
Sappiamo che le differenze di "bravura" tra gli studenti sono basse all'interno della stessa scuola e molto alte fra le varie scuole, come dire che il "merito" nella scuola italiana non dipende dal singolo ma dalla sede scolastica dove lui finisce, il cui livello socio-economico (il suo habitat) ha più peso sugli esiti che non quello della famiglia.

Scelte che aggravano i problemi
Da qui, da questa realtà si doveva partire: è stato fatto? Purtroppo no. Ci sono anzi scelte che peggioreranno la situazione. Il 5 per mille che verrà destinato alle scuole sarà molto diverso in valore assoluto in Lombardia, per esempio, rispetto a quello della Calabria o della Sicilia, e visto che andrà a singole scuole, aumenterà le differenze anche tra le scuole della stessa regione. Lo stesso effetto sulle diseguaglianze sarà prodotto dallo school bonus.
Anche se il governo interverrà in senso perequativo resterà il messaggio per l'opinione pubblica di scuole-zavorra, che sono un costo per lo Stato, accanto ad altre di qualità, che si autofinanziano, senza spazio per una minima riflessione sui diversi contesti in cui agiscono e sulle funzioni che svolgono.
Se si vuole intervenire sulla dispersione in maniera efficace bisogna destinare i docenti e i dirigenti migliori nelle scuole più difficili, ma l'albo regionale con chiamata diretta del preside va in direzione diversa: perché un docente richiesto da scuole comode, frequentate da ragazze e ragazzi ben educati dovrebbe scegliere quelle difficili e disagiate, dove ci si misura tutti i giorni con la fatica dell'insegnare a ragazze e ragazzi che non vogliono imparare in quella scuola che invece per noi ha funzionato?
In chimica si insegna che "il simile scioglie il simile".
La qualità della scuola dipende soprattutto dalla qualità degli insegnanti "normali", con un curricolo normale e nessun segno particolare per essere scelti. Quello che invece è straordinario è il compito a cui sono chiamati, e allora, dall'enfasi sui "migliori" dovremmo passare a quella sul "miglioramento" che coinvolge tutta la scuola come comunità professionale.

Metafore di senso comune
Si è preferito proporre un'idea di scuola che fosse comprensibile per tutti, operazione tutto sommato  facile perché la nostra scuola si trova nella condizione paradossale di avere contorni incerti, che la espongono a regolari invasioni di slogan e metafore provenienti dall'esterno, e allo stesso tempo non permeabili: tutto ciò che fa la scuola è estremamente "scolastico". Il contrario di ciò che servirebbe, cioè confini più precisi ma molto permeabili con l’esterno, per farsi conoscere a partire dalla sua complessità.
Il Disegno di Legge propone invece una nuova ampia gamma di metafore che hanno il senso di semplificare quella complessità ad uso e consumo del senso comune. Operazione che può essere vincente nella comunicazione diretta con l'opinione pubblica ma che si paga in termini di credibilità all'interno del mondo della scuola.
Ecco allora che al preside manager segue il preside sindaco e poi il preside allenatore che sceglie la "squadra" da mettere in campo. Ma contro chi gioca la sua partita? Chi è che perde? Forse le altre scuole che non hanno "campioni" di pari livello? Passeremo l’estate a proporre ingaggi agli insegnanti migliori?

Il vero avversario 
Il problema è che non è l'altra scuola l'avversario. L’avversario è, o dovrebbe essere, principalmente l'abbandono scolastico, che se fa squadra non lo fa certo scendendo in campo aperto, sotto i riflettori, facendo indossare a tutti la stessa maglietta. Anzi, cerca l'invisibilità degli ultimi banchi, delle assenze prolungate, dei silenzi ostinati.
Contro questo avversario non servono "campioni", ma un corpo docente che sappia dare di sé un'immagine coerente e positiva. Insegnanti disposti a mescolare la propria biografia (ben più del curricolo) con quella dei loro alunni per coinvolgerli e spesso trascinarli contro la loro stessa volontà. 

Manca un progetto di scuola
Ma ci vuole un progetto di scuola, non la scuola dei mille progetti; ci vogliono curricoli che sappiano misurarsi con i nuovi modi di apprendere e di vivere dei giovani. Ci vogliono sperimentazione e ricerca che sorreggano e diano senso all'autovalutazione; ci vuole una scuola che sappia prendere il massimo dagli insegnanti migliori e nello stesso tempo far crescere tutti ponendosi al centro di un sistema nazionale di formazione degli insegnanti. Una formazione  che, quando si entra a scuola, non scompaia,  ma cambi aspetto per divenire una parte costitutiva della nostra professione, al pari del progettare gli interventi educativi, del fare lezione, valutare gli esiti, confrontarsi collettivamente.
Nel Disegno di Legge, di un tale progetto si perdono le tracce. Nonostante vi sia una significativa inversione di tendenza con l'investimento di risorse importanti nella scuola, l'assunzione di una fetta consistente del precariato e dichiarazioni d'intenti condivisibili sul ruolo dell'autonomia, il quadro complessivo sta dentro un paradigma diverso, in cui domina la dimensione individuale. Questo aspetto viene messo in mostra con prepotenza nella figura plenipotenziaria del nuovo dirigente, ma anche più sottilmente nell'idea del premio individuale al "buon docente"  e in quella del voucher di 500€ per l'aggiornamento personale, che ciascun insegnante potrà spendere come vuole nel libero mercato della cultura e dell'aggiornamento.

La cultura della scelta individuale
Insegnare è sicuramente una professione di cultura ma non basta la cultura per insegnare, ci vogliono soprattutto il desiderio e la capacità di renderla contagiosa. Il sapere di un maestro serve solo per darlo, diceva un alunno di don Milani (citato quanto mai a sproposito di questi tempi). Se si avesse il coraggio di sfidare l'impopolarità destinando quelle risorse alle singole scuole per finanziarne ricerca, sperimentazione e valutazione degli esiti, cambieremmo la scuola, e ogni singolo insegnante, assai più radicalmente che non pagandogli il biglietto del cinema.
Purtroppo in un tale paradigma anche gli aspetti positivi presenti nel disegno rischiano di restare lettera morta perché soltanto una scuola buona potrebbe farli diventare realtà, ma quella che c'è già avrà vita assai dura.
Essa ha uno dei punti di forza nella diffusione delle responsabilità e nella collaborazione tra gli ottimi dirigenti e insegnanti che vi lavorano (ma aggiungo gli studenti, i genitori e tutto il personale della scuola), che sarà messa in serio pericolo dalla spinta al conflitto permanente prodotta dall'aver scelto la strada di dare libero spazio alle scelte personali del dirigente.
Ma che ha a che vedere questa cultura della decisione individuale con quella della scuola? Perché dovrebbe essere funzionale a risolvere i problemi reali della scuola? È forse questa paventata lentezza che ha bloccato l'autonomia o piuttosto sono stati i tagli permanenti degli ultimi decenni e la mancanza di un Progetto nazionale che indicasse la direzione nella quale le scuole, in autonomia, dovevano muoversi?

Il fascino del “capo”
Siamo evidentemente di fronte alla penetrazione entro i confini della scuola del fascino del decidere rapido del "capo" rispetto al faticoso deliberare partecipato. Paradossale, se si pensa che la scuola è forse l'unica istituzione costituzionale che sia riuscita a costruire, attraverso una storia fatta di faticose deliberazioni, una comunità di professionisti (dirigenti e insegnanti) che cooperano nel realizzare un progetto educativo pubblico. Non c'era altra strada per farcela.
Che senso ha invece la prospettiva di scegliere insegnanti singoli, in funzione del piano dell’offerta formativa dell’istituto? Come non rendersi conto che, eccetto alcuni casi (probabilmente la minoranza), il dirigente dovrà scegliere tra curricoli analoghi, fatti degli stessi titoli di studio (sempre che non si voglia mettere in discussione il loro valore legale), lasciando che sia un colloquio a giustificare la decisione? Oppure si sceglieranno dimensioni aggiuntive, non certo decisive per affrontare i problemi reali dell’apprendimento.
Inutile dare trasparenza a decisioni che saranno intrinsecamente aleatorie. Anche ammettendo che non siano impugnabili, non per questo saranno meno arbitrarie. 

La vera responsabilità del dirigente
La competenza e la conseguente responsabilità dell’insegnamento e dell'apprendimento deve essere assunta dalla professionalità insegnante.  É qui il nodo: la responsabilità del dirigente scolastico deve coesistere con altre responsabilità; sarebbe un disastro se gli insegnanti fossero ricacciati nel lavoro individuale, nelle aule e nell’anonimato assembleare del collegio.
I poteri del dirigente scolastico non ne escono né umiliati né diminuiti: il dirigente dirige, ma non dei “sottomessi”. Il rapporto tra dirigente e insegnante è tra due competenze e quindi tra due diverse condivisioni di responsabilità, nessuna di seconda mano all'altra.
Ci sono nelle scuole un'infinità di ottimi dirigenti, che spesso sono stati anche ottimi insegnanti, per cui c'è il forte rischio che nel passaggio di ruolo facciano diventare il loro progetto didattico quello della scuola: sarebbe un disastro. Il ruolo di dirigente non può comprendere l'appropriazione delle competenze riferite alla funzione dell’insegnare, bensì delle altre competenze nel governo dell’intero sistema dell’unità scolastica, e soprattutto nella valorizzazione di quelle degli insegnanti nel costruire e nel governare il progetto/processo di insegnamento-apprendimento.

Un processo decisionale cooperativo
È  questa la direzione a cui guardano i paesi OCSE più evoluti dove la richiesta di accountability, non solo nella scuola ma in tutta la pubblica amministrazione, viene connessa con quella di una governance inclusiva e partecipativa, che consiste nel rendere accessibile e cooperativo il processo decisionale.
La scuola ha fondato le sue conquiste più importanti su un clima di cooperazione reso possibile proprio dalla impersonalità delle norme che hanno garantito percorsi pubblici per abilitazioni concorsi e assunzioni. Che dire della premiabilità del 5% dei docenti da parte del dirigente, quando la scuola ha già il fondo incentivante che dovrebbe servire proprio a riconoscere il merito di un lavoro ben fatto? Non basterebbe metterci i soldi?  Se invece il desiderio fosse  quello di stabilire una progressione di carriera per i docenti, allora avrebbe senso garantire la "portabilità" del livello acquisito, svincolandolo dalla scuola di appartenenza (e quindi dal suo dirigente), per affidarlo ad una valutazione nazionale.

La scuola pubblica, laboratorio di inclusione
Ma tra le conquiste della scuola c'è anche quanto ha fatto e continua a fare a livello di educazione interculturale, di integrazione degli alunni stranieri e dei diversamente abili. Non mancano certo le difficoltà, ma tutti dovrebbero essere concordi nel sostenere che questa è la direzione giusta perché il livello di conoscenza reciproca e coesione che si costruisce nel tempo della scuola non ha pari in nessun altro luogo e momento della vita.
Eppure si è deciso di favorire chi sceglie di mandare i propri figli in scuole private. Fra esse non mancano realtà importanti che giustificano appieno la tutela costituzionale della loro esistenza, ma è sufficiente un banalissimo confronto tra il livello di pluralismo culturale presente fra gli iscritti delle scuole private con quello delle scuole pubbliche e sulla presenza di stranieri e diversamente abili, per capire che è difficile far passare quei contesti come laboratori dell'inclusione. Allora, come si può ammettere che i genitori che aderiscono al progetto pubblico di scuola inclusiva paghino contributi volontari (obbligatori) i quali rappresentano frequentemente più del 50% delle entrate della scuola, e poi si detassino i genitori che scelgono le scuole private, certamente "scuole libere" ma anche scuole che liberano dal contatto con la diversità?

Il rischio di chiusura e la vera risorsa
Ma ciò che più preoccupa è l'effetto che questa incoerenza politica produce su quegli insegnanti che da sempre hanno rappresentato la componente riflessiva delle scuole, capace di guidare i cambiamenti amplificandone gli aspetti positivi e minimizzando i danni delle le scelte sbagliate.
Oggi si percepisce una spaccatura nel loro agire, come l'apertura di un solco profondo che interrompe ogni scambio tra la scuola vera, che essi vivono quotidianamente, e quell'idea di scuola più generale che si sente "desiderabile" per tutti.
Se gli insegnanti più appassionati rinunciano ad alzare lo sguardo per guardare oltre la cattedra e i banchi dei propri alunni perdiamo la risorsa più preziosa della scuola. L'aula allora diventa il confine di senso del proprio lavoro, l'unico luogo dove ci si sente capaci di incidere, in cui la scuola "pensabile" può ancora diventare "possibile". Oltre quelle pareti cresce un disinteresse per le scelte più generali che spinge al massimo a farsi un'opinione, ma accompagnata dalla rinuncia a farla contare.
Stiamo spingendo chi ama davvero la scuola ad amare sempre più solo la propria.
La scelta di chiudere la porta dell'aula per restare all'interno del rassicurante microcosmo che si è costruito viene vissuta come l'unica via di fuga possibile dalle costanti delusioni, ma sempre di una fuga si tratta, oltre che di una sconfitta per tutta la scuola.
Se non si ferma questa deriva anche gli insegnanti che sentono la scuola come una seconda pelle cominceranno a contare gli anni che mancano alla pensione. Invece il loro entusiasmo e la capacità di lavorare nel pensando in grande è la principale risorsa per la buona scuola.
Che c'è già, e chiede solo di essere accompagnata.

Scrive...

Giuseppe Bagni Insegnante di Chimica negli Istituti secondari, già Presidente nazionale del Cidi, già membro eletto del CSPI.

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