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11/08/2022

"Il docente esperto III - la vendetta” (per la serie: “A volte ritornano”)

di Maurizio Berni

Riassunto delle puntate precedenti
Quella del “docente esperto” non è una novità del dimissionario governo Draghi, ma è la riesumazione di una vecchissima idea contenuta in un progetto di legge del centro destra, il n. 953 del 2008, proposto dalla deputata Valentina Aprea, che allora militava nelle file di Forza Italia. Essa si inseriva in un contesto di “carriera” docente su tre livelli: iniziale, ordinario, e, appunto, esperto.

Il progetto di legge prevedeva lo smantellamento del sistema dei concorsi regionali per l’accesso ai ruoli, sostituiti da concorsi scuola per scuola. La vulgata coniò il termine “chiamata diretta”, con lo spauracchio di una scelta discrezionale e monocratica da parte del solo dirigente scolastico, e non di una commissione di esame. Tanto tuonò, che piovve. Fu così infatti che, da una critica costruttiva (e ovvia) che si sarebbe potuta fare in merito alla oggettiva e autoevidente mancanza, nelle singole scuole, delle competenze necessarie per garantire un livello minimo di affidabilità dei concorsi, si spostò l’attenzione su un pericolo (allora) inesistente, che si è poi concretizzato, in una strana forma, di cui ben conosciamo la breve vita, con la “chiamata per competenze” prevista dal comma 79 della legge 107/2015.

Il progetto di legge del 2008 è a sua volta una riedizione ampliata di un progetto di legge ancora più datato, il n. 4095 del 2003, proposto dalla ex deputata Angela Napoli (Alleanza Nazionale).
Questi progetti di legge, delle deputate (e dirigenti scolastiche) Napoli e Aprea si inserivano nel dibattito sulla carriera docente che si era sviluppato dopo il fallimento del "concorsone" (detto anche “concorsaccio”) del 1999, volto a selezionare i docenti migliori, che costò la carriera politica all’allora ministro Luigi Berlinguer.
Il CCNL 2002/2005, all’art. 22, prevedeva l’istituzione di una carriera docente; per questo fu istituito presso l’ARAN un gruppo di lavoro per studiarne forme e realizzabilità; i lavori della commissione sono pubblicati sul sito dell’ARAN.

Seguirono svariate sperimentazioni sul campo (Vales, Valorizza, ecc.); altre esperienze, pur documentate, ma mai prese in considerazione dalla politica, sono state quelle di sperimentazione di forme inedite di valutazione della professione docente, su periodi piuttosto lunghi e in contesti significativi, come le Scuole Superiori per l’Insegnamento Secondario (la valutazione dei tirocini, grazie al sistema dei “crediti di servizio”, si rivelò fin da subito una interessantissima e innovativa forma di valutazione del servizio che si andava consolidando), fino ad arrivare, tuttavia, ad una vera e propria involuzione, culminata nel passo falso (anch’esso utile come esperienza da non ripetere, se mai ve ne fosse stato bisogno) della legge 107 che prevedeva una valutazione monocratica da parte del dirigente scolastico; incredibilmente monocratica, a differenza di quanto avviene nella valutazione perfino degli studenti, dai 10 anni in su, in occasione degli scrutini ed esami; una valutazione, quindi, necessariamente priva del necessario requisito della competenza, tenuto conto della pluralità delle discipline nelle quali si articola la professione docente; e soprattutto, una valutazione mancante dell’altrettanto necessario requisito della terzietà.

Le proposte del Decreto "Aiuti bis" e la loro lontananza dai bisogni delle scuole
Dopo tutto questo, che non rappresenta certo un’evoluzione lineare di un’idea di valutazione e di sviluppo professionale per le/i docenti, vediamo riesumare vecchi progetti polverosi, ormai superati dalle cose, dalla storia, dalla realtà, ripassati in una salsa piuttosto indigesta: la chiara soppressione di ogni elemento che riconosca alla figura docente la natura di esponente del mondo della cultura, che svolge un’attività professionale ad altissima responsabilità, di ricerca e sperimentazione.
Non contano infatti, per il riconoscimento della qualifica dei tanti docenti esperti che già ora sono in servizio, e di cui la scuola si avvale da sempre, gli articoli, le pubblicazioni, la partecipazione attiva a convegni e seminari a cui questi docenti sono invitati a presentare le proprie ricerche… (anzi si evita il fastidio di doverli sostituire, prevedendo la loro formazione al di fuori dell’orario di servizio); non conta l’esperienza, a volte pluridecennale, di attività di formazione ai propri colleghi con contratti presso le università, o grazie alle numerose iniziative delle associazioni professionali.
L’unico titolo che conta, e che sarà riconosciuto solo fra 10 anni, quando molti di loro saranno già in pensione (quindi mai), è quello di essere format(ta)ti nella istituenda “Scuola di alta formazione”, prevista dal PNRR (anche lei ce la chiede l’Europa?); una “scuola speciale”, che si differenzia incomprensibilmente da tutte le istituzioni formative e di ricerca già esistenti, comprese quelle più prestigiose, di cui evidentemente non si incoraggia la frequentazione da parte della classe docente.
Ma, a prescindere dal modo in cui si forma un docente che possa dirsi “esperto”, una delle intuizioni di chi la valutazione dei docenti la stava già facendo, e che leggeva attentamente le proposte sul campo, prefigurandone gli effetti, era quella di evitare accuratamente di inserire un attributo al termine “docente”, facendo riferimento invece a specifici ambiti di competenze (tra i tanti di cui la scuola dell’autonomia necessita), che quindi diventano un'opportunità di esperienza concreta, per chi si trova, suo malgrado e privo di formazione specifica, a risolvere le tante situazioni problematiche che spesso si accavallano tra loro con ritmo frenetico (“docente esperto in…”). 
Riconoscere che un docente è “esperto in…” significa riconoscere ciò che nelle scuole avviene già ed è assolutamente necessario per farle funzionare: una divisione di compiti, una articolazione funzionale di carattere orizzontale, che scongiura una verticalizzazione dei ruoli, che da una parte sarebbe avversata dalla categoria, ma che d’altra parte andrebbe a costituire con tutta probabilità un vulnus di carattere costituzionale; se non nelle intenzioni, lo sarebbe inevitabilmente nella sua realizzazione, intaccando il principio costituzionale della libertà di insegnamento.
Tale principio comporta come corollario l’apicalità della funzione docente; tanto è vero che lo stesso rapporto gerarchico è limitato agli aspetti giuridico-amministrativi, mai a quelli didattici (come chiaramente esplicitato all’art. 16 - coordinamento delle competenze - del Regolamento dell’Autonomia ), confermando l’insussistenza di qualsiasi forma di sviluppo verticale della carriera, se non limitatamente alla sfera amministrativo-gestionale (dirigenza scolastica).
Il modello di sviluppo verticale della carriera, importato con tutta probabilità da uno standard (forse neanche aggiornato) dell’organizzazione aziendale tradizionale, avrebbe dovuto essere reinterpretato con creatività e competenza  in un contesto del tutto innovativo, in quanto a modalità di rapporti di lavoro, qual è quello scolastico, molto più simile (e nei fatti equiparabile, sempre ai sensi del Regolamento dell’’Autonomia) agli istituti di ricerca, caratterizzati da “legami deboli” nei rapporti gerarchici, grazie proprio alla sostanziale autonomia di gestione del proprio agire professionale, rispetto alle influenze gerarchiche.
Viceversa, i tanti “docenti esperti in…”, che, ribadisco, sono già presenti, agiscono e sono assolutamente necessari nelle scuole, non fanno altro che mettere a disposizione di tutta la comunità la propria competenza in atto (e accuratamente coltivata attraverso la partecipazione attiva alle iniziative culturali cui facevo riferimento), come avviene in modo naturale e imprescindibile per garantire non le iniziative di eccezione, ma il normale funzionamento delle scuole in cui lavorano; una competenza che si esprime e si evidenzia attraverso un servizio, non una medaglietta che si mette al petto.
Anzi, spesso avviene il contrario: le competenze di cui la scuola si avvale sistematicamente non hanno alcun riconoscimento formale; ad es. le nuove figure professionali, che agiscono di fatto, non sono riconosciute, e sono retribuite in modo vergognoso e umiliante, come avviene per la figura, assolutamente fondamentale, del Coordinatore di classe.

Basta guardare la quotidianità dei bisogni di una scuola (basta guardarla la scuola, per capire ciò di cui ha realmente bisogno, e chi vuole intervenire su di essa dovrebbe farlo) per identificare alcune possibili aree di competenza (in una lista volutamente non esaustiva) che potrebbero essere codificate in una ipotesi di sviluppo professionale:

  • area dello Studio ed approfondimento didattico-disciplinare
  • area della Formazione e tutoraggio dei nuovi docenti
  • area della Valutazione del personale e di sistema
  • area della Innovazione ed efficacia nell’azione didattico-educativa
  • area delle Competenze relazionali e sociali
  • area delle Competenze organizzativo-gestionali

Le “classi differenziali” per i docenti
La bellezza della nostra legislazione scolastica ha un aspetto che tutti ci invidiano (invertendo la vulgata della necessità di “stare al passo dell’Europa”...): l’inclusione scolastica, con l’eliminazione delle classi differenziali e delle scuole speciali (legge 517 del 1977). Invece,  stranamente si ripropone una scuola speciale per i docenti, snaturandone la specificità di persone di cultura, naturalmente e talvolta strutturalmente già inserite/i in contesti di ricerca incardinati nelle università, nelle associazioni professionali, nelle istituzioni scolastiche autonome (anch’esse, non dobbiamo dimenticarlo, enti di ricerca didattica: articolo 2 e seguenti del Regolamento dell’Autonomia).

Il decreto legge (sempre ammesso che una norma che si sviluppa in un decennio possa legittimamente essere inserita in una decretazione d’urgenza) fa tabula rasa di tutta la legislazione precedente (ma è stata almeno letta, prima di scartarla?) e di ogni procedura contrattuale già avviata,  e fa sortire dal cilindro questa doppiamente brutta sorpresa: la dilazione di un riconoscimento di professionalità già agite da lungo tempo (questo riconoscimento immediato avrebbe sì carattere di urgenza!), e la ghettizzazione della formazione docente al di fuori degli ambienti scientifici e culturali che un docente esperto frequenta da sempre, per sottoporlo a una umiliante raccolta punti in un supermercato che forse non vorrebbe frequentare; un supermercato che proprio per la sua inutilità nasce creandosi una categoria di “clienti obbligati”. Una bruttura senza precedenti che confido sia oggetto di profondo ripensamento da parte della politica alle soglie della scadenza elettorale, e che  sparisca dal testo definitivo della conversione in legge, per ricominciare, da subito, a rimboccarsi le maniche e a riprendere la questione, delicata ma abbordabile se affrontata con la consulenza competente di chi se ne occupa, di un riconoscimento, ormai improrogabile, dell’articolazione funzionale, che è già in atto, dei tanti docenti esperti che, inseriti in modo collaborativo nelle comunità di riferimento, fanno funzionare le scuole autonome.

Scrive...

Maurizio Berni Insegnante di matematica nella scuola secondaria di secondo grado, ora dirigente scolastico in un istituto tecnico, si occupa di ricerca didattica, formazione professionale e professionalità insegnante.

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