Questo contributo prende spunto dal commento di un libro e ha in parte le caratteristiche della recensione. Ma i contenuti del volume consentono di andare al di là dei confini della loro presentazione e offrono spunti di riflessione inteteressanti sul modo di essere dirigenti scolastiche e sulla scuola o forse sul modo di cambiare la scuola attraverso un certo modo, al femminile, di essere dirigenti scolastiche.
A cura dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza Vera Lombardi di Napoli, è stato pubblicato nel dicembre scorso un interessante volume, curato da Laura Capobianco, Clorinda Irace, Silvana Rinaldi e Mario Rovinello, dal significativo (e provocatorio?) titolo La difficile via. Cambia la scuola se la Dirigente è donna?
Si tratta di un lavoro prezioso, di cui ho avuto l’onore di curare la prefazione: una ricerca qualitativa condotta attraverso 19 interviste a donne, dirigenti scolastiche meridionali, che non può ridursi alla categoria degli “studi di genere”, come si potrebbe immaginare se ci si fermasse al titolo.
C’è molto di più, in questo libro, sin dalle premesse, in cui si mette in luce il paradosso della femminilizzazione del mestiere scolastico come causa e conseguenza della sua progressiva svalutazione. Ogni volta che le donne si assicurano posti ai vertici, osserva Laura Capobianco nell’introduzione, quei luoghi diventano meno ambiti, quei lavori peggio retribuiti. Viceversa, è anche vero che il loro essere meno ambiti e meno pagati li rende disponibili per le donne! Ma si può invece sperare che la prevalenza femminile imponga un cambiamento di rotta nel modo di interpretare i ruoli di potere, nel sistema simbolico e non solo?
“Vale la pena cioè di verificare se la dirigenza femminile, nel settore della scuola e in altri, potrebbe anche modificare il simbolico di quel potere che nei secoli è sempre stato proposto dagli uomini che, in genere, l’hanno interpretato come un gesto autocratico di comando; ci chiediamo e ci auguriamo che si possa aprire un dibattito a riguardo, se cioè la presenza crescente di donne nei ruoli dirigenziali della scuola possa apportare anche delle modifiche a livello simbolico, nella cultura e nelle relazioni, con effetti trasformativi davvero importanti. È questo l’intento del nostro lavoro (…)”.
Pochi si rendono conto di quanto il processo di femminilizzazione della Dirigenza scolastica dal punto di vista quantitativo sia recente: fino agli anni ‘90 le donne accedevano in prevalenza al ruolo di “direttrici”, da ex maestre. Ma le scuole superiori vedevano una larga prevalenza dei presidi maschi: solo in seguito, eliminata la distinzione tra gli ordini, a partire dal 1997-98, in meno di 30 anni avviene il sorpasso, che ha portato dal 37 e 63 %a favore degli uomini al 33 e 67 % a favore delle donne. Un capovolgimento, cui si accompagna però un prezzo, la svalutazione del ruolo dirigenziale, che fa il paio con l’ interpretazione dell’intero settore della scuola come lavoro “marginale”, un lavoro “da donne” . In qualsiasi altro paese sviluppato, essere “school head” significherebbe ben altro…
Consolidato l’aspetto quantitativo di una dirigenza, quella scolastica, sempre più dominata dalle donne, è interessante il modo in cui il volume fa luce sulla dimensione qualitativa di questo assetto. Nelle interviste, costruite sapientemente intorno ad una traccia di domande che ammette scostamenti originali, si possono individuare alcuni fili comuni:
E così, nelle voci delle dirigenti intervistate, troviamo il richiamo frequente alle dimensioni dell’“inclusione”, della cura e dell’ascolto, più che dell’efficienza e dell’efficacia, come pure l’istanza politica di vedere avanzare lo sviluppo di una coscienza critica sia negli utenti diretti e indiretti della scuola, gli studenti e le famiglie, sia nel contesto territoriale. Le storie qui raccolte del “fare scuola” quotidiano riservano infatti poco spazio alle dissimmetrie di potere, riconoscendo come tratti chiave nella comunità scolastica il rispetto dell’altro, l’ascolto, la libertà personale di partecipare e prendere decisioni: quel che crea le giuste condizioni all’interno di gruppi per scambiarsi progetti, saperi e competenze.
Molto politico appare dunque il lavoro delle dirigenti, scorrendo il racconto di ciascuna di esse: non a caso buona parte delle intervistate approdano alla politica attiva, o in qualche caso provengono da essa. Perché in effetti sul piano dei valori, lo sforzo di “cambiare le cose” significa non voler fare carriera per la carriera in sé o per aumentare prestigio e guadagni, in un orizzonte valoriale tipicamente maschile, ma scegliere di farlo per realizzare quello che ad ognuna di queste donne è piaciuto della scuola, e del costruire comunità, la possibilità di avere più autonomia per rinnovare, migliorare e trasformare i contesti.
E di qui deriva in molti dei racconti la critica, tutta politica, che va in due direzioni:
Il tema del libro allora ritorna circolarmente agli scopi iniziali: quanto la presenza femminile può davvero modificare e favorire un cambiamento a livello simbolico e culturale nella società, trasformando il modo di essere del mercato del lavoro ed emancipandolo da modelli maschilisti, autoritari, gerarchici, egotici, individualisti?
La scelta del lavoro di “cura” non è inclinazione naturale, ma ha una matrice culturale, e culturale è la tendenza ad agire insieme piuttosto che da soli. Le donne, se non cedono alle sirene del managerialismo, possono restituire questo modo di agire al mondo che c’è e a quello che verrà:
“Del resto chi lavora con il pubblico, secondo me, soprattutto chi svolge un ruolo di responsabilità dirigenziale, non può esimersi; è qua senza tema di smentita, la differenza tra l’esercizio del potere e il governo della cura. Noi questa differenza l’abbiamo, la sviluppiamo tra di noi; è facile esercitare un potere, quando ti limiti a dire: ‘Tu devi fare così’, è un’altra cosa quando dici: ‘Dobbiamo vedere insieme come fare per risolvere questo problema’. È tipico dell’uomo dire: ‘Tu devi fare così’, è un’abitudine che deriva dalla sua storia che le donne non hanno, anche se alcune assumono atteggiamenti simili, confermando che governare così, cioè imponendo, è molto più facile che convincendo o soprattutto coinvolgendo.”
E la sfida che ci attende è ben sintetizzata nelle parole di Vanna Iori, riportate nella introduzione: “È importante che non siano le donne a cambiare nell’ingresso nella società degli uomini, ma questa società a trasformarsi grazie all’apporto di nuove possibilità di dialogo e di collaborazione tra i sessi”.