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24/01/2023

Se le donne cambiano la dirigenza…

di Annamaria Palmieri

Questo contributo prende spunto dal commento di un libro e ha in parte le caratteristiche della recensione. Ma i contenuti del volume consentono di andare al di là dei confini della loro presentazione e offrono spunti di riflessione inteteressanti sul modo di essere dirigenti scolastiche e sulla scuola o forse sul modo di cambiare la scuola attraverso un certo modo, al femminile, di essere dirigenti scolastiche.

A cura dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza Vera Lombardi di Napoli, è stato pubblicato  nel dicembre scorso  un interessante  volume, curato da Laura Capobianco, Clorinda Irace, Silvana Rinaldi e Mario Rovinello,  dal significativo (e provocatorio?) titolo La difficile via. Cambia la scuola se la Dirigente è donna?
Si tratta di un lavoro prezioso, di cui ho avuto l’onore di curare la prefazione: una ricerca qualitativa condotta attraverso 19 interviste a donne,  dirigenti scolastiche meridionali, che non può ridursi alla categoria degli “studi di genere”,  come si potrebbe immaginare se ci si fermasse al  titolo.

C’è molto di più, in questo libro, sin dalle premesse,  in cui si mette in luce il paradosso della femminilizzazione  del mestiere scolastico come causa e conseguenza della sua progressiva svalutazione. Ogni volta che le donne si assicurano posti ai vertici, osserva Laura Capobianco nell’introduzione, quei luoghi diventano meno ambiti, quei lavori peggio retribuiti. Viceversa, è anche vero che il loro essere meno ambiti e meno pagati li rende disponibili per le donne! Ma si può invece sperare che la prevalenza femminile imponga un cambiamento di rotta  nel  modo di interpretare i ruoli di potere, nel sistema simbolico e non solo?

Vale la pena cioè di verificare se la dirigenza femminile, nel settore della scuola e in altri, potrebbe anche modificare il simbolico di quel potere che nei secoli è sempre stato proposto dagli uomini che, in genere, l’hanno interpretato come un gesto autocratico di comando; ci chiediamo e ci auguriamo che si possa aprire un dibattito a riguardo, se cioè la presenza crescente di donne nei ruoli dirigenziali della scuola possa apportare anche delle modifiche a livello simbolico, nella cultura e nelle relazioni, con effetti trasformativi davvero importanti. È questo l’intento del nostro lavoro (…)”.

Pochi si rendono conto di quanto il processo di femminilizzazione della Dirigenza scolastica  dal punto di vista quantitativo sia recente: fino agli anni ‘90 le donne accedevano in prevalenza al ruolo di “direttrici”,  da ex maestre. Ma le scuole superiori vedevano una larga  prevalenza dei presidi maschi: solo in seguito,  eliminata la distinzione tra  gli ordini, a partire dal 1997-98,  in meno di 30 anni  avviene il sorpasso, che ha portato dal 37 e 63 %a favore degli uomini al 33 e 67 % a favore delle donne.  Un capovolgimento, cui si accompagna però un prezzo, la svalutazione del ruolo dirigenziale, che  fa il paio con l’ interpretazione dell’intero settore della scuola come lavoro “marginale”, un lavoro “da donne” . In qualsiasi altro paese sviluppato, essere “school head” significherebbe  ben altro…

Consolidato l’aspetto quantitativo di una dirigenza, quella scolastica, sempre più dominata dalle donne, è interessante il modo in cui il volume fa luce sulla dimensione qualitativa di questo assetto. Nelle interviste, costruite sapientemente intorno ad una traccia di domande che ammette scostamenti originali, si possono individuare alcuni fili  comuni:

  • Il rapporto strettissimo tra la scelta lavorativa e la memoria dei luoghi di nascita e formazione, tra la scelta lavorativa e la storia familiare, che è storia di madri e padri che hanno vissuto  durante la guerra, e che  stimolano le figlie, nel clima di ascesa sociale degli anni Sessanta e Settanta,   a studiare e crescere professionalmente per realizzarsi
  • Storie familiari  che  si intrecciano con la passione politica,  nel senso nobile del termine, una passione che a volte è a monte,  a volte a valle della scelta  di entrare nel mondo della scuola per “cambiare le cose”
  • La sostanziale continuità,  nell’interpretazione che le protagoniste ne danno,  tra il lavoro di insegnante e quello di dirigente, sia sul piano dei valori che su quello delle ambizioni, dove emerge con forza una idea diversa della dirigenza rispetto alla concezione del potere come esercizio gerarchico . Molte delle intervistate indicano non a caso il modello del primus inter pares e della leadership distribuita come unico possibile,  dal loro punto di vista.
  • Infine, ed è la parte più significativa dei racconti, l’interpretazione del  proprio lavoro come  esperienza totalizzante, come filo che lega la “cura” e la “curiosità”, l’entusiasmo  dell’agire alla volontà di cambiare le cose.

E così, nelle voci delle dirigenti intervistate, troviamo il richiamo frequente alle dimensioni dell’“inclusione”, della cura e dell’ascolto, più che dell’efficienza e dell’efficacia, come pure l’istanza politica di vedere avanzare lo sviluppo di una coscienza critica sia negli utenti diretti e indiretti della scuola, gli studenti e le famiglie, sia nel contesto territoriale. Le storie qui raccolte del “fare scuola” quotidiano riservano infatti poco spazio alle dissimmetrie di potere, riconoscendo come tratti chiave nella comunità scolastica il rispetto dell’altro, l’ascolto, la libertà personale di partecipare e prendere decisioni: quel che crea le giuste condizioni all’interno di gruppi per scambiarsi progetti, saperi e competenze.

Molto politico appare dunque  il lavoro delle dirigenti,  scorrendo il racconto di ciascuna di esse:   non a caso buona  parte delle intervistate  approdano alla politica attiva, o in qualche caso provengono da essa. Perché in effetti sul piano dei valori, lo sforzo di  “cambiare le cose” significa non  voler fare carriera per la carriera in sé  o per aumentare prestigio e guadagni, in un orizzonte valoriale tipicamente maschile, ma  scegliere di farlo per realizzare quello che ad ognuna di queste donne  è piaciuto della scuola, e  del costruire comunità,  la possibilità di avere più autonomia per rinnovare, migliorare e trasformare i contesti.

E di qui deriva in molti dei racconti  la  critica, tutta politica, che va in due direzioni:

  1. La delusione,  a volte cocente, nei confronti dell’autonomia  scolastica, dimidiata, illusoria, cui è seguita  la trasformazione della dirigenza in cinghia di trasmissione burocratica di decisioni prese altrove, in uno “scarico” di responsabilità che lascia a  chi sta sul campo la difficoltà di gestire  tutte le emergenze con armi spuntate:
    “I Dirigenti scolastici diventano il capro espiatorio di tutto il negativo che si verifica nelle scuole 'autonome' senza che nessun alto dirigente (quello che guadagna più o meno il triplo e gode della tutela dell’Avvocatura di Stato sempre e comunque) alzi mai un dito in loro difesa. Solo se penso agli ultimi ministri che abbiamo dovuto subire mi viene da piangere. A volte avevo l’impressione di portare avanti il mio lavoro ‘nonostante’ il MIUR e l’USR”.
  2. Fastidio per il modello di leadership che il neoliberismo ha  troppo spesso imposto, e veicolato anche tra le donne dirigenti: competere, rincorrere un merito che è dato non dalla qualità ma dalla quantità, vedere le proprie colleghe e colleghi rinunciare alle pratiche mutualistiche e solidali, è una delusione a cui alcune intervistate  dichiarano di essere andate  incontro : come scriveva Elisabeth Badinter , la sconfitta del femminismo avviene quando le donne per arrivare ai posti di vertice scelgono di agire come se fossero uomini.

Il tema  del libro allora ritorna circolarmente agli scopi iniziali: quanto la presenza femminile può davvero modificare e favorire un cambiamento a livello simbolico e culturale nella società, trasformando il modo di essere del mercato del lavoro ed emancipandolo da modelli maschilisti,  autoritari, gerarchici, egotici, individualisti?

La scelta del lavoro di “cura” non è  inclinazione naturale, ma ha una matrice culturale, e culturale è  la tendenza ad agire insieme piuttosto che da soli. Le donne, se non cedono alle sirene del managerialismo,  possono restituire questo modo di agire  al mondo che c’è  e a quello che verrà:

“Del resto chi lavora con il pubblico, secondo me, soprattutto chi svolge un ruolo di responsabilità dirigenziale, non può esimersi; è qua senza tema di smentita, la differenza tra l’esercizio del potere e il governo della cura. Noi questa differenza l’abbiamo, la sviluppiamo tra di noi; è facile esercitare un potere, quando ti limiti a dire: ‘Tu devi fare così’, è un’altra cosa quando dici: ‘Dobbiamo vedere insieme come fare per risolvere questo problema’. È tipico dell’uomo dire: ‘Tu devi fare così’, è un’abitudine che deriva dalla sua storia che le donne non hanno, anche se alcune assumono atteggiamenti simili, confermando che governare così, cioè imponendo, è molto più facile che convincendo o soprattutto coinvolgendo.”

E la sfida che ci attende è ben sintetizzata nelle parole di Vanna Iori, riportate nella introduzione: “È importante che non siano le donne a cambiare nell’ingresso nella società degli uomini, ma questa società a trasformarsi grazie all’apporto di nuove possibilità di dialogo e di collaborazione tra i sessi”.

Parole chiave: dirigente scolastico

Scrive...

Annamaria Palmieri Laureata in Lettere, collabora con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli, già Presidente del Cidi Napoli e successivamente per due legislature Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli; attualmente dirige un istituto professionale a Torino.

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