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16/09/2017

“Lettera a una professoressa” come compito delle vacanze!

di Pietro Morello

Lettera a una professoressa” è stato il libro che ha contribuito a far aprire gli occhi a tanti pedagogisti, insegnanti, studenti sul mondo della scuola italiana dell’epoca - si era nel 1967-. Questo fu possibile a partire dalla particolarità della denunzia: fu una novità quel firmarsi corale, don Milani e i suoi alunni, come Scuola di Barbiana; un’altra novità fu l’evidenziare uno scambio continuo di prospettive e di funzioni tra educatore ed educato; un’altra novità ancora, quel mirare a un benessere reciproco tra insegnante e alunno in una relazione educativa condivisa e “per la vita”.

L’anno dopo -e tra qualche mese saremo sottoposti al suo cinquantennale commemorativo- sarebbe esplosa l’università italiana, trascinando con sé anche la scuola secondaria sui tanti obbiettivi scomodi della “Lettera”. Quel passato “non passa” ancora (come si vorrebbe oggi da tante parti della politica e della cultura del nostro paese): risentiamolo infatti attraverso una recensione alla “Lettera” realizzata come “compito delle vacanze” da parte di un giovanissimo studente del Liceo Psicopedagogico “Regina Margherita”, Torino.
E, detto come inciso, è anche una delle cose più interessanti che ci è capitato di leggere in questi mesi di rilettura del magistero di Lorenzo Milani. 
(R. A.)

Analisi e commento di Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Editrice Fiorentina, 1967

Premessa: Essendo il libro diviso in capitoli e paragrafi, ho deciso di sfruttare alcuni di questi per scrivere la recensione e il commento di questo libro; ciò mi ha permesso anche di individuare dei temi a mio giudizio importanti.

1. “I tavoli”  (pag 12)

Questo paragrafo termina con la frase “decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anche io”. Secondo me questa frase è importante perché ricalca fin da subito l’aspirazione che i ragazzi di Barbiana avevano per quanto riguarda il fatto di imparare per poi insegnare, ma soprattutto la comprensione da parte loro del concetto di “imparare insegnando”. Perciò non si insegna solo la materia singola, o i concetti; si insegna (e si impara) ad ascoltare in primis, per poi tenere una discussione formativa riguardo a  qualcosa: per esempio, imparare la geografia voleva dire guardare insieme l’atlante e comprenderlo reciprocamente.

“…insegnando ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio, sortirne tutti assieme è politica, sortirne da soli è avarizia”.
Questa frase è tagliente, fa capire che per un ragazzo insegnare è fondamentale per imparare a condividere, ad aiutare gli altri, anche quando vorresti concentrarti su te stesso. È fondamentale entrare in relazione.
Secondo me nella scuola dare spazio ai ragazzi da parte dell’insegnante è di fondamentale importanza, per fare si che realmente si impari qualcosa che abbia un fine concreto nella vita, senza imparare solo e soltanto a memoria e a ripetere concetti e basta. Imparare a memoria è inutile, imparare con l’esperienza è fondamentale, perché oltre a comprendere a fondo i concetti studiati insieme (e per questo a ricordarli nel tempo), si impara come vivere in relazione con altre persone. L’inutilità di ripetere la poesia a memoria è palese, l’utilità di collaborare per un fine lo è altrettanto.

2.un ambiente” (pag 85).

“È la scontentezza che vi ha stancato, non gli anni.”
Riferita ai professori questa frase eccezionale dichiara quanto l’ossessione per la campanella e per il programma non sia solo cruccio dei ragazzi, ma anche (se non soprattutto) degli stessi insegnanti, i quali non sono più in grado di vivere l’esperienza scolastica con serenità, di accogliere e approfondire i discorsi dei ragazzi, e attraverso questi di cercare di insegnare (e imparare). Non riuscendo a comunicare, l’ambiente che si crea è pesante per chiunque. Non c’è dialogo, c’è il professore che spiega (in modo apatico) nozioni ai ragazzi, che assimilano (ma non è vero) in modo freddo e, appunto, apatico; la scuola non può vivere senza confronti, punti di vista e relazioni.

Questo punto è molto importante, perché per imparare è necessario capire, ed è pressoché impossibile capire guardando una persona che senza alcun entusiasmo parla con un tono di voce monotono e stanco, ripetendo spesso e volentieri ciò che dice il libro di testo. Non si va oltre a questa barriera di carta; perché per spiegare non si può serenamente dialogare? Per colpa degli studenti, giusto? “Non stanno attenti, in momenti di dialogo di gruppo si distraggono e ne approfittano per non fare nulla!”
L’osservazione è semplicemente inaccettabile, perché se l’ambiente scuola lo si associa per antonomasia allo stress, viene di conseguenza che “l’intervallo” (perciò lo stacco dallo stress) sia  il primo desiderio di ogni persona. Quasi nessun insegnante affronta con gioia un momento di vita di gruppo, anche quello diventa pesante… allora tanto vale tornare a leggere il libro in modo apatico. È il modo in cui si affrontano le cose che fa sì che siano utili.

Riconducibile al discorso sull’ambiente, nasce il presupposto per parlare dell’umore, in primo luogo quello dei professori. Tutti hanno dei problemi, vero, nessuno vive solo per la scuola (situazione non ancora capita da molti ma reale); compreso tutto ciò, come si può pensare che una persona con l’umore altalenante e instabile possa insegnare? Non si può ascoltare davvero una persona che un giorno si pone in un modo, e il giorno dopo completamente in un altro, questo anche al di fuori della scuola. Nessuno obbliga a diventare insegnante, se un individuo non ha la forza fisica ed emotiva per affrontare degli argomenti con una classe, non deve farlo. Perché insegnare è una missione sociale.

3. Contorti”  (pag 15)
“... cercavano persino di copiare. Gli ci volle del tempo per capire che non vi era registro.”
Riferita a dei ragazzi nuovi alla scuola, questa frase è spettacolare, fa capire e denuncia il fatto che il “registro” o peggio il “voto” spingono a imbrogliare, perché io non studio più con la volontà di imparare o di arricchirmi, ma studio per il voto. Con il fine del numero, perciò, sarà normale studiare metodi e sotterfugi per raggiungere questo risultato: la morte della cultura e della volontà di acculturarsi.

Nello sceneggiato su Lorenzo Milani, e nel libro stesso, un ragazzino dice: “A volte qua si usa il frustino, ma il giorno dopo non lo senti più, mentre quel segno di penna sul registro ti pesa per un anno”. Mi piacerebbe soffermarmi sull’importanza di questa frase: come fa una persona a desiderare la cultura, se quest’ultima si deve per forza attenere a dei binari predefiniti da qualcuno, e se la fine di questi binari è la paura di un numero? Non si valorizza nulla di un individuo in questo modo: tutti siamo diversi, eppure tutti dobbiamo attenerci allo stesso programma. È inutile per la scuola essere eccellenti compositori o geniali calcolatori! Finirai sempre a scrivere un tema argomentativo sul tuo compagno di banco. Non si incentiva per nulla ciò per cui un ragazzo è portato o meno, non si sfiora nemmeno il discorso del talento in qualcosa, a meno che quel qualcosa non sia stare zitti e fermi e prendere bei voti.

“Anche sul sesso gli stessi sotterfugi, credevano bisognasse parlarne di nascosto”.
Qua subentra di nuovo il discorso della conversazione: evitando di affrontare determinati argomenti con i ragazzi, questi diverranno degli infiniti e irrisolvibili tabù; non per forza solo l’argomento del sesso, ma per esempio la politica, l’attualità, ... Come può un ragazzo interessarsi sua sponte a un argomento complesso se non è in nessun modo spinto a farlo?

4. “​gufi, ciottoli e ventagli”   (pag 21)
Questa parte delinea perfettamente la mia idea di studio della lingua straniera: come può un ragazzo, abituato a imparare come un automa centinaia di regole grammaticali a memoria, sopravvivere in un paese straniero?
“Passò con nove un ragazzo che in Francia non saprebbe nemmeno chiedere dove si trova il gabinetto”. La più limpida delle verità! 

I classici compiti in classe con i trabocchetti grammaticali, creati da insegnanti svogliati e stanchi che li fotocopiano dal libro di testo, non aiutano in nessun modo a imparare la lingua; per comprendere una lingua è necessario ascoltarla TANTO, e parlarla ancora di più. Sono pressoché inutili tre misere ore a settimana in cui una professoressa senza entusiasmo fa ripetere quattrocento volte il “present perfect”. Come si sostiene in questo libro, è più utile imparare le lingue con i dischi, imparando i modi di dire più utili e frequenti.

E qui ritorna la mania della memoria: imparare un brano in inglese a memoria non solo è noioso, ma è realmente inutile. Non vi è alcuna utilità a imparare dieci righe a memoria come una poesia se quelle dieci righe non si sono capite. Invece, in un’ipotetica interrogazione l’alunno automa prende dieci perché sa il brano a memoria. Paradossalmente in certe scuole può ottenere voti più alti uno studente con una grande memoria che uno studente madrelingua in inglese, tanto non si troverà mai in un contesto comunicativo in cui dovrà conversare nella sua lingua madre (come per forza di cose avviene in italiano); imparare così una lingua sarebbe come per un bambino inesperto imparare l’italiano solo rimandando a memoria le poesie o i testi argomentativi.

5. “matematica e sadismo” 
Considero questo punto ricollegabile con il precedente, e mi domando: perché nella scuola non si può imparare a vivere? Cioè ad affrontare problemi che effettivamente possono presentarsi nella vita di un individuo?
“Non esiste uno strumento che misuri le superfici”: nulla di più vero.

“... un problema così può nascere solo dalla mente di un malato”.
Il mio pensiero si racchiude in questa frase. Nella vita che io dovrò affrontare da adulto (quella ipotetica vita per la quale la scuola dovrebbe formarmi) non mi capiteranno mai delle questioni come quelle di geometria che mi vengono poste; con ciò tuttavia non direi mai che non servono per imparare la geometria, semplicemente sembra più ovvio cercare di imparare la geometria attualizzandola con dei problemi concreti di vita vera.

6. Non vi è cosa più ingiusta che fare parti uguali fra disuguali.”
Questa frase è una eccezionale precisazione del concetto di valorizzazione del singolo: è nel gruppo che si valorizzano i singoli. La scuola però, per essere coerente con le finalità attribuitele dalla Costituzione, deve impegnarsi a sostenere innanzi tutto i soggetti più deboli, segnati da uno svantaggio sociale, economico, culturale o personale.

Questa frase allora riassume l’idea di scuola di Lorenzo Milani e l’esperienza dei ragazzi di Barbiana: una scuola giusta pone più attenzione a chi ne ha più bisogno, per far raggiungere a tutti e a ciascuno le competenze che rendono i cittadini liberi e consapevoli.

Un messaggio ancora oggi molto forte per continuare a credere nella scuola come strumento di eguaglianza sociale, emancipazione culturale e di formazione degli individui. Una scuola in cui vale la pena sperare!

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