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11/05/2020

La misura delle cose

di M. Gloria Calì e Anna Chiara Monardo

Qui accanto è pubblicato il "profilo di uscita" dello studente alla fine del primo ciclo di istruzione, come delineato dalle vigenti Indicazioni Nazionali per l’Infanzia e il Primo ciclo d’istruzione. Ė lungo, ma prendersi un po’ di tempo per leggerlo è tempo ben speso, perché aiuta a capire che cosa significa concludere il triennio più difficile della scuola italiana. Chi scrive lavora nella scuola media da vent’anni.
Ricordiamo che mediamente gli studenti e le studentesse che chiudono il primo ciclo d’istruzione hanno tredici anni e che ciascuno di loro corrisponde a questo quadro, sia pure in modo personale, avendo imparato, in tre anni, il senso di sé, la padronanza delle proprie scelte di relazione, di studio, portandosi dentro nuove risorse ma anche più o meno evidenti ferite e incompletezze.
Alcuni di loro hanno fatto un percorso luminoso, sono entrati nella scuola secondaria con i passi incerti e gli atteggiamenti cognitivi un po’ rigidi tipici di una certa formazione primaria e sono usciti consapevoli, autonomi, pieni di energie culturali. Altri, invece, hanno fatto sempre fatica a stare a galla, o perché la formalizzazione delle discipline non li ha mai trovati molto sintonici o per problemi di carattere psicologico, materiale, di origine esterna: sono quelli che preferiscono imparare “con le mani”, ma anche quelli più esigenti, perché l’insegnante li deve stanare nelle loro differenze, trovando per loro qualcosa di veramente, profondamente significativo. Spesso non sanno (o non vogliono…) studiare per senso del dovere: e allora li devi far crescere nonostante loro stessi.
Questa è la realtà della scuola media, che, a norma di legge, oggi si chiama “scuola secondaria di primo grado”, con un’emblematica mancanza di chiarezza ordinale: è “secondaria”, ma “di primo grado”. A noi piace ancora chiamarla “scuola media”, perché non ci interessa un piazzamento in una classifica di ordini di scuola in cui la media sia intesa come più importante di quella elementare e meno importante di quella superiore: se si pensa all’alunno o alunna che percorre la sua strada di apprendimenti, ogni singolo minuto trascorso a scuola è un minuto di costruzione di cittadinanza, figuriamoci se un minuto è più importante di un altro.
Ci piace chiamarla “scuola media” perché ci ricorda che è nata, nel 1962, per realizzare il dettato costituzionale che prescrive otto anni di istruzione obbligatoria, per tutti, e ha contribuito alla scolarizzazione e all’alfabetizzazione di un paese che faceva fatica a rimuovere le macerie della guerra, del fascismo e delle diseguaglianze di matrice monarchica.

Questa scuola media è serissima, quindi, ma non con l’accezione che a questo aggettivo è stato dato nei comunicati pubblici ministeriali di questo tempo di emergenza sanitaria; è serissima perché deve formare lo studente di quel profilo, perché deve insegnargli “a stare al mondo” usando e costruendo cultura. Dal 2008 hanno costretto gli insegnanti a mettere i voti in decimali agli studenti delle medie, istituendo una valutazione misurativa che non solo è estranea allo spirito fondativo della scuola media, ma risulta anche totalmente difforme rispetto al profilo definito nel 2012, in cui si parla di “personalità”, “consapevolezza”, “autonomia”, “responsabilità”, non certo di “bravura in decimali”.
La scuola media è seria perché dentro di essa gli insegnanti collegialmente costruiscono la didattica che serve a sviluppare una comunità di apprendimento, ognuno come sa e come può: paradossalmente persino l’insegnante più distaccato e inconsistente risulta importante, se non per efficacia ed empatia, certamente per quella differenza che caratterizza la varietà di una relazione.
Così pure, molti insegnanti delle scuole medie sono appassionati di “numeri”, anche a loro piace dare i voti decimali con cui dimostrare in modo incidente, talvolta minaccioso, l’autorevolezza del loro lavoro, ma anche a loro, in fondo, piacciono le teste ben fatte, piuttosto che le teste ben piene.

L’emergenza sanitaria ha esaltato questi aspetti discutibili addirittura annullando bruscamente la funzione della scuola come luogo di confronto e conflitto intergenerazionale (adulti-adolescenti) e interistituzionale (scuola-famiglia).
Niente Erasmus, niente gita di fine anno, niente teatro, cinema, palestra. Scuola chiusa, attività azzerate. Ci si è spostati nelle classi virtuali, chi ha saputo o potuto, perché non sappiamo esattamente quali sono i numeri dei tredicenni dispersi digitali. Che poi, a quell’età, chi non c’è in classe è già nei guai; figuriamoci se partecipa alla videolezione! Che la didattica a distanza abbia raggiunto “quasi tutti”, come è stato detto in sedi ufficiali, non consola per niente; diciamo pure che quel “quasi” dovrebbe turbare i sonni dei decisori politici.
In emergenza, con un impegno notevole, le terze medie d’Italia si sono riorganizzate: i docenti hanno costruito e condiviso lezioni, approfondimenti, tutorial. Hanno cercato di seguire gli appuntamenti con il sociale: Giornata contro le mafie, Giornata della Terra, Giornata della Liberazione… Qualcuno ha preso le presenze, ha messo i voti, ha minacciato la bocciatura, facendo il gioco sporco della scuola “seria” (abbiamo ormai capito che si tratta di una falsa serietà…), ma moltissimi hanno cercato di mantenere la continuità educativa cercando di salvare anche la didattica, magari inconsapevolmente.
Situazioni diverse, difformi ma guidate dalla consapevolezza che non andava recisa la relazione pedagogica riempendo quel vuoto quotidiano di ogni adolescente che veniva privato dell’incontro educativo. Tra un video e una consegna virtuale docenti, famiglie e studenti hanno sempre più compreso quanto è complesso il microcosmo classe, che non può essere tradotto e sostituito da un semplice monitor o app: l’innovazione sta dentro metodologie, pratiche valutative e interventi didattici, elaborati e pensati da insegnanti riflessivi, per i loro alunni, non per target generici. Certo ci siamo adattati, abbiamo costruito attività all’interno dei nostri curricoli, selezionando proposte più adatte alla situazione, non abbiamo rinunciato al nostro compito istituzionale ma il ”nostro fare ” affannato non si è mai tradotto nel rumore dei banchi, nella dinamicità dei gruppi di lavoro, negli spazi reali di dialogo, nella presenza fisica del docente che si affianca allo studente mentre lavora e lo indirizza. Tutto questo è talmente irrecuperabile che forse, per antitesi, abbiamo ripreso a considerare il senso della scuola come comunità educante, la necessità di riflettere sull’insegnamento, l’essenzialità di un discorso pedagogico centrato sugli apprendimenti.

Questa scuola media, che è già stata molto faticosa nei due anni precedenti, come lo è sempre, si è riorganizzata con ulteriore fatica dopo un’interruzione brusca poco oltre la soglia del primo quadrimestre. La storia di questo inciampo si concluderà con un colloquio a distanza, surrogato dell’esame: quel ragazzo o quella ragazza che ha raggiunto il profilo ampio e complesso delle Indicazioni, nei pochissimi giorni che mancano alla fine dell’anno deve produrre un “elaborato originale” da inviare e discutere attraverso uno strumento mediale mentre sta concludendo affannosamente il suo ultimo anno.
Ci sfugge il motivo di quest’ennesima picconata alla già mortificata scuola media. Per costruire un prodotto didattico “originale”, cioè autentico, significativo, ci vuole tempo, condivisione, accompagnamento, non basta dare istruzioni per l’uso. Ci vorrebbe il regime ordinario della scuola “in presenza”, ma sicuramente ci vuole tempo: progettare un testo o un prodotto multimediale significa cercare, raccogliere, selezionare, rielaborare, costruire, integrare, negoziare con l’adulto-guida… tutte operazioni culturali che noi insegnanti delle medie attiviamo attraverso i linguaggi disciplinari nell’arco dei tre anni. Sappiamo benissimo che molti studenti in condizioni normali presentano agli esami tesine scaricate da internet, ma sono coloro che hanno avuto la sfortuna di incappare in insegnanti che non sono riusciti a insegnare i giusti atteggiamenti, genitori che non sono riusciti a generare i giusti propositi: che i loro figli non si sentano autorizzati a scopiazzare e ad approssimare contenuti da un’ordinanza ministeriale! Soprattutto in questo contesto, in cui gli elaborati fatti a casa, in pochissimo tempo, risentiranno in maniera determinante del clima domestico, azzerando del tutto il fattore scuola, e, tanto per dire un’amara banalità, penalizzando quelli che già erano svantaggiati.

Di questo appiattimento non c’era alcun bisogno. Avrebbero potuto prolungare di qualche settimana la durata dell’anno scolastico, in modo da poter differenziare, approfondire, anche scrivere insieme elaborati dignitosi; provare ancora a rintracciare i tredicenni occultati dall’emergenza. Avrebbero potuto dare alla scuola i suoi tempi distesi che non sono quelli dell’erogazione di un servizio; la scuola risponde a norme e procedure perché è un’istituzione dello Stato ma il livello burocratico deve tener conto della specificità del servizio e deve essere guidato da una consapevolezza e responsabilità pedagogica. Si è parlato dell’importanza del valore giuridico dell’Esame di stato ma è importante sottolineare che esso è il primo incontro dell’alunno adolescente con le istituzioni che non giudicano ma danno spazio alla voce di un pezzo di strada vissuta.
Dopo soli dieci giorni dalla chiusura per decreto delle scuole è stato diramato un questionario alle scuole per monitorare le condizioni reali per la didattica a distanza; ai collegi delle scuole medie non è stato mai chiesto come volevano concludere l’anno scolastico.
Le scuole sono state “libere” (ci vorrebbero molte paia di virgolette, se con questo si potesse rafforzare la debolezza reale del concetto di libertà, in questo contesto) di organizzare la didattica a distanza, ma non di organizzare nel modo più consono agli alunni la conclusione dell’anno scolastico; gli aspetti burocratici per l’acquisto dei dispositivi sono stati semplificati con rapidità sorprendente, ma non si riesce a semplificare, cioè a rendere più significativa, la valutazione.

L’unica speranza che resta viva è che gli insegnanti escano da questa emergenza sanitaria con una rinnovata consapevolezza del loro ruolo.
Ė difficile in emergenza vivere la misura delle cose, ma è un dovere per chi educa.

Profilo delle competenze al termine del primo ciclo di istruzione

Lo studente al termine del primo ciclo, attraverso gli apprendimenti sviluppati a scuola, lo studio personale, le esperienze educative vissute in famiglia e nella comunità, è in grado di iniziare ad affrontare in autonomia e con responsabilità, le situazioni di vita tipiche della propria età, riflettendo ed esprimendo la propria personalità in tutte le sue dimensioni.

Ha consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti, utilizza gli strumenti di conoscenza per comprendere se stesso e gli altri, per riconoscere ed apprezzare le diverse identità, le tradizioni culturali e religiose, in un’ottica di dialogo e di rispetto reciproco. Interpreta i sistemi simbolici e culturali della società, orienta le proprie scelte in modo consapevole, rispetta le regole condivise, collabora con gli altri per la costruzione del bene comune esprimendo le proprie personali opinioni e sensibilità. Si impegna per portare a compimento il lavoro iniziato da solo o insieme ad altri.

Dimostra una padronanza della lingua italiana tale da consentirgli di comprendere enunciati e testi di una certa complessità, di esprimere le proprie idee, di adottare un registro linguistico appropriato alle diverse situazioni.

Nell’incontro con persone di diverse nazionalità è in grado di esprimersi a livello elementare in lingua inglese e di affrontare una comunicazione essenziale, in semplici situazioni di vita quotidiana, in una seconda lingua europea.

Utilizza la lingua inglese nell’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Le sue conoscenze matematiche e scientifico-tecnologiche gli consentono di analizzare dati e fatti della realtà e di verificare l’attendibilità delle analisi quantitative e statistiche proposte da altri. Il possesso di un pensiero razionale gli consente di affrontare problemi e situazioni sulla base di elementi certi e di avere consapevolezza dei limiti delle affermazioni che riguardano questioni complesse che non si prestano a spiegazioni univoche.

Si orienta nello spazio e nel tempo dando espressione a curiosità e ricerca di senso; osserva ed interpreta ambienti, fatti, fenomeni e produzioni artistiche.

Ha buone competenze digitali, usa con consapevolezza le tecnologie della comunicazione per ricercare e analizzare dati ed informazioni, per distinguere informazioni attendibili da quelle che necessitano di approfondimento, di controllo e di verifica e per interagire con soggetti diversi nel mondo.

Possiede un patrimonio di conoscenze e nozioni di base ed è allo stesso tempo capace di ricercare e di procurarsi velocemente nuove informazioni ed impegnarsi in nuovi apprendimenti anche in modo autonomo.

Ha cura e rispetto di sé, come presupposto di un sano e corretto stile di vita. Assimila il senso e la necessità del rispetto della convivenza civile. Ha attenzione per le funzioni pubbliche alle quali partecipa nelle diverse forme in cui questo può avvenire: momenti educativi informali e non formali, esposizione pubblica del proprio lavoro, occasioni rituali nelle comunità che frequenta, azioni di solidarietà, manifestazioni sportive non agonistiche, volontariato, ecc.

Dimostra originalità e spirito di iniziativa. Si assume le proprie responsabilità e chiede aiuto quando si trova in difficoltà e sa fornire aiuto a chi lo chiede.

In relazione alle proprie potenzialità e al proprio talento si impegna in campi espressivi, motori ed artistici che gli sono congeniali. È disposto ad analizzare se stesso e a misurarsi con le novità e gli imprevisti.

 

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