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10/05/2022

Il nido, le disuguaglianze, il PNRR e il sistema integrato: quel che c’è e quel che manca

di Annamaria Palmieri

Piccola premessa: come più volte ribadito in sede di Commissione  europea, come ben argomentato in ampia letteratura internazionale, ultimo il Rapporto della rete EducAzionigli investimenti nei servizi educativi per la prima infanzia non solo vanno considerati a pieno titolo come investimenti nell’istruzione ma  “sono la base solida su cui bambine e bambini trovano garantita l’opportunità di successo formativo per la vita, di sviluppare appieno le proprie capacità, contrastando le disuguaglianze e la povertà educativa”. Per questo sono strategici sia dal punto di vista sociale che economico. Il nido non può e non deve essere più inteso come welfare familiare: è un servizio al bambini-persona, prima e oltre che alla famiglia.

La situazione italiana è particolarmente carente per quanto riguarda i servizi educativi per i bambini sotto i tre anni, sia sul piano della copertura, che - tra nidi pubblici, convenzionati e totalmente privati - raggiunge solo il 25%,  sia della fortissima disomogeneità territoriale, con le regioni meridionali (proprio dove più alti sono i tassi di povertà minorile e dispersione scolastica), che presentano tassi di copertura bassissimi. Questo ultimo aspetto ha origini storiche e culturali che vanno tenute in conto accanto a quelle prettamente economiche. Il PNRR è un’occasione da non perdere per riparlarne, e per mettere un punto su quegli aspetti su cui le policy di investimento finora non hanno appuntato la loro attenzione, destinando se stesse a effimeri successi temporanei e al fallimento di lungo periodo.

Ma quando si parla di “sistema integrato”,  dopo l’approvazione del d.lgs.65 del 2017, si pensa di solito all’integrazione verticale, tra 0-3 e 0-6, in termini  di continuità pedagogica (di cui le nuove Linee pedagogiche sono oggi un importante caposaldo)   e di governance (tra pubblico e privato): in realtà ci sono altre necessarie “integrazioni”, una orizzontale e una  per così dire trasversale, a cui bisogna guardare e senza le quali non basteranno gli investimenti del PNRR: questa breve riflessione vuole essere di aiuto in tal senso.

  1. Per una nuova integrazione orizzontale: le due culture, anzi tre

Tutti sappiamo che il sistema 0-6 è necessariamente destinato ad una multigovernance: gli attori che sono coinvolti sono da un lato lo Stato, dall’altro il privato (autorizzato o convenzionato), infine gli enti Locali, che fanno la parte del leone nello 0-3, i servizi della prima infanzia, su cui la competenza è specificamente comunale (la programmazione e la regolamentazione regionale).
Ma  il modo in cui le diverse “gambe del tavolo”  sono posizionate nell’architrave del sistema influenza in modo determinante quanto lo stesso si regga o si capovolga.

Nel modello tradizionalmente efficace del centro-nord, a partire dall’asse tosco-emiliano, i Comuni hanno sempre svolto la parte del leone (si pensi alle esperienze  pedagogiche eccezionali di cui si fa  portavoce il Gruppo Nazionale nidi e infanzia): la profonda cultura pedagogica dello 0-6 di cui queste regioni sono state il volano in Italia, storicamente,  fa sì che la scelta della scuola comunale, nido e materna (oggi infanzia) sia stata e sia  quella più positivamente connotata in termini qualitativi: i Comuni hanno sviluppato un sistema di gestione diretta e/o  convenzionata con il privato sociale che consente alti tassi di copertura anche nello 0-3, sebbene l’ incidenza sulle famiglie dei costi dei servizi a domanda (tali i nidi sono e restano, se non ci si decide a sciogliere il nodo dei LEP) negli ultimi decenni abbia generato -  insieme alla denatalità - un decremento della richiesta, specie del nido. Lo Stato, che pure ha la scuola di infanzia come primo segmento degli Istituti comprensivi (e le Indicazioni nazionali del curricolo del 2012 sono lo “spartito” del sistema), ha sempre avuto in alcune Regioni, quelle cosiddette ricche, nelle scuole di infanzia comunali e private convenzionate  un competitor fortissimo, sentito come qualitativamente superiore e spesso preferito;  e lo stesso dicasi per le cosiddette sezioni primavera, dal destino controverso, la cui origine risiede nella necessità, palesatasi in particolare al Sud,  di combattere gli anticipi di iscrizione all’infanzia venendo incontro alle esigenze delle famiglie.

Del tutto ribaltata infatti è  la situazione nelle regioni meridionali: qui la mancanza di continuità verticale tra il nido (che spesso non c’è) e la scuola d’infanzia e le condizioni delle famiglie più povere e perciò poco propense, se non costrette dalle  necessità orarie di conciliazione, a spendere risorse economiche  nel privato,  ha determinato nel corso degli ultimi decenni uno sviluppo delle scuole di infanzia statali che si è tradotto in contemporaneo  declino del privato e in un vero e proprio boom di iscrizioni, a partire dalla nascita dei comprensivi: le sezioni di infanzia a gestione comunale,  laddove esistenti, ma anche le scuole private (in gran parte non convenzionate, quando addirittura non autorizzate) hanno subito un progressivo arretramento nei numeri: la scuola dell’infanzia, che è a prevalenza statale, raggiunge ormai una copertura vicina al 100% ed è un indubbio successo;  viceversa hanno continuato a far  fatica a crescere nel numero i nidi, che pure dovevano rappresentare l’obiettivo prioritario stabilito in sede europea sin dai tempi di Lisbona.

Questo però deve farci riflettere: quando parliamo di integrazione, al SUD parliamo soprattutto di integrazione tra scuole dello  Stato e  scuole dei Comuni, a loro volta suddivise tra gestione diretta e indiretta dei servizi. Terzo attore, di nicchia, il privato, che ora interviene a gestire indirettamente i servizi comunali, ora agisce in autonomia. Ma i rapporti numericamente ribaltati fanno avanzare una riflessione: integrare la governance significa far sedere allo stesso tavolo soprattutto  le scuole statali e quelle comunali oltre che il privato sociale. Anche i coordinamenti pedagogici, finora grandi assenti, vanno ripensati come congiunzione anche  tra pubblico-pubblico, cosa ormai improcrastinabile  e foriera di grandi sviluppi.  Dell’esistenza di una legge, il D. lgs. n  65 del 2017 però, gli Uffici  centrali e periferici del Ministero dell’Istruzione si sono accorti con lentezza.  Meglio tardi che mai? Non può sfuggirci, infatti,   che la progressiva denatalità che affligge il nostro Paese in modo preoccupante, come segnale di  sofferenza delle nuove generazioni a costruirsi un futuro familiare, stia aprendo, accanto alle risorse del PNRR,  una nuova opportunità al sistema: rigenerare gli spazi - lasciati vuoti dalla decrescita infelice delle famiglie - per realizzare  un nido, una sezione primavera, un servizio per la prima infanzia, in ogni edificio delle scuole statale:  è un obiettivo perseguibile con facilità.

A Napoli - per esempio - il lavoro nell’ultimo decennio è stato ben avviato, e ha fatto balzare da 34 a 70 in pochi anni le strutture per lo 0-3. I finanziamenti  straordinari per aprire nuovi nidi ci sono, e dalle alleanze che ne derivano si potrà ottenere allo stesso tempo una integrazione orizzontale tra nido e scuola dell’ infanzia, che favorisca quella verticale, collocando entrambi in ambienti di apprendimento contigui e co-progettati. Una nuova forma di alleanza territoriale, di cui i Comuni possono porsi alla guida,  favorendo anche  nuovi “patti” tra scuole dello Stato e privato sociale, qualora, non potendo assumere in via diretta il personale necessario, si scegliesse di affidarne la gestione in convenzione.  

Tre i vantaggi possibili: il ripensamento degli ambienti e la rigenerazione edilizia hanno costi più bassi della costruzione ex novo,  ma  presentano vantaggi pedagogici immensi (con il DIARC, Dipartimento di Architettura della Federico II  a Napoli, con la squadra di  ricercatori guidata dal prof. Giovanni Laino,  era stato avviato un interessante progetto, che spero veda pubblicati i frutti). C’è poi il vantaggio  per le famiglie numerose di poter affidare  i figli di diverse età insieme al nido, alla scuola d’infanzia, alla primaria alla media:  vantaggio materiale ma anche culturale e pedagogico, che potrebbe  incentivare anche  le famiglie meno propense al nido (questione su cui tornerò) perché, se la continuità ha un valore, quella spaziale offre anche la sicurezza di un percorso armonioso e condiviso (almeno da 0 a 13 anni). Terzo ma non ultimo vantaggio, la possibilità di realizzare davvero, e non solo nelle retoriche, un dialogo tra le culture, un felice amalgamarsi tra i soggetti, una formazione orizzontale e continua tra le maestre/i e gli educatori/trici, perché il “coordinamento pedagogico” necessario ad integrare 0- 3 e 3-6 non sia calato dall’alto, ma vissuto e praticato.  I Patti territoriali e le alleanze di contrasto alla dispersione sono già un buon modello. Coinvolti/e direttamente, come già ho potuto verificare da amministratrice locale, i/le dirigenti delle scuole statali  del primo ciclo  saranno di certo felici di favorire quei tavoli,  per l’indubbio vantaggio  che ne deriverebbe alle proprie comunità. Ho conosciuto dirigenti coraggiose pronte a farsi carico della propria sezione primavera e desiderose di dare una mano a far crescere il nido di recente costruzione o apertura: la cultura del curricolo verticale  e delle alleanze orizzontali è ormai un patrimonio irrinunciabile per chi opera con passione per le comunità educanti.

A chi affidare il coordinamento? All’USR,  al Comune, o alla Regione, come sembra volere la norma del D.Lgs 65, che non valuta le attuali  “distanze”  e appare forse troppo orientata sul modello tosco-emiliano?  La soluzione emergerà,  a quel punto,  senza forzature,  se si lavora per far sedere intorno al tavolo i tre attori con pari dignità: la scuola dello Stato,  la scuola del Comune, con un ruolo di coordinamento,   il Terzo settore. Il tutto accompagnato da una buona regia dell’USR e della Regione.

2. L’integrazione trasversale: dalla realizzazione dei nidi  al loro mantenimento . L’inevaso tema delle “tariffe”.

Tra i primari ostacoli alla diffusione di una “cultura del nido” nel Sud del Paese è da sempre la disoccupazione femminile accompagnata da una cultura puramente assistenziale e custodiale dello stesso: il circolo vizioso che allontana le famiglie dall’interesse per la crescita del bambino-persona, cui la nuova cultura dello 0-6 vuol dare centralità, è difficile da sconfiggere. E difficili da reggere i costi per le famiglie più deprivate, specie se l’alternativa è una mamma, una zia, una sorella che non lavora e sta a casa con i figli.
“Se il nido è a pagamento, e io non lavoro, mio figlio me lo cresco io”: ovviamente però, così, sarà difficile che le donne lo  trovino un lavoro, e il cerchio si chiude!”
O ancora: “Se il nido è un servizio essenziale, perché non è gratuito? E se lo è, gratuito per chi non può permetterselo, chi si carica i costi di quello che pur dovrebbe essere, per le leggi dello  Stato italiano, un 'servizio a domanda individuale'?”
Questi alcuni degli argomenti che indeboliscono la domanda, ancor prima che venga meno l’offerta. Infatti quale domanda si potrà mai produrre, nelle classi culturalmente ed economicamente deprivate, se non si palesano i “vantaggi” del nido in termini culturali (per i bambini e le bambine) e di opportunità (per le madri e i padri)?

A queste domande, trasversali al tema che stiamo affrontando, ma centrali per il successo o l’insuccesso delle politiche, la risposta è una: è necessario trasformare i nidi in “servizi essenziali” e bisognerebbe farsi carico, come Stato o  come Comuni, dei costi di mantenimento e gestione quando la famiglia non può pagare. Ma i finanziamenti straordinari, eccezionali, come sono stati i PAC o sarà  il PNRR a questo punto non bastano più: si tratta di programmare sul lungo periodo una politica che consenta ai Comuni e ai loro asfittici bilanci di rinnovare e incrementare  ogni anno, programmandolo in modo pluriennale, l’investimento in gestione di qualità  dei servizi educativi, diretta o indiretta: questa politica, questa visione, al momento semplicemente non c’è .

E ne comprendiamo le sottaciute ragioni, avendole conosciute ai tempi della nascita del sistema integrato, ai tempi del  D.lgs 65 del 2017 e delle discussioni che seguirono per il primo riparto di risorse del Piano nazionale ad esso legato: chi scrive ricorda che quando al tavolo nazionale della commissione istruzione ANCI si discusse per la prima volta della distribuzione dei fondi di finanziamento, come assessora meridionale, insieme alla collega di Palermo, ci trovammo  piuttosto in difficoltà a sostenere che, forse, almeno finchè non si fosse  raggiunta la copertura dei servizi per la prima infanzia  al 30%, quei fondi avrebbero dovuto toccare per la maggior parte al meridione, secondo quanto recita l’inapplicato principio della perequazione territoriale contenuto all’art. 118 del novellato Titolo V della Costituzione; e la nostra difficoltà nasceva dalla  consapevolezza delle giuste, seppur diverse,  ragioni degli altri: in Emilia , in Toscana, in Piemonte, regioni e comuni tradizionalmente impegnate/i ad investire sull’infanzia quote del proprio bilancio invidiabili, la crisi mordeva i bilanci, e soprattutto il sistema tariffario che rendeva costosissimi per le famiglie quei servizi,  oramai non era più sostenibile: l’impoverimento generale, lo scivolamento verso il basso delle classi medie si andava palesando in modo drammatico: e mentre da noi  in Campania un bambino su 10 conquistava un posto nido, al centro-nord cominciavano a emergere il tema dei posti-nido  lasciati vuoti (non diversamente dalle culle).

Si palesa così  l’ultima e più seria contraddizione: mantenendo  le tariffe basse, i Comuni, specie nel centro-sud,  si trovano a reggere una spesa abnorme che rende di fatto impossibile implementare i servizi.  E i nidi, aperti con i finanziamenti stra-ordinari  vengono richiusi nel giro di qualche anno.  È questa una domanda urgente in vista dei bandi del PNRR: una volta generati i servizi, chi li mantiene? E si tratta di un tema trasversale, appunto, che coinvolge in modo diverso il Paese, ma lo coinvolge tutto: penso alle numerose famiglie di immigrati che nel centro e nel nord  non hanno accesso al nido e alla refezione per le tariffe troppo alte; penso nel contempo alla difficoltà a far comprendere a tante madri della mia città, specie nei quartieri più poveri e periferici,  che il nido è per i loro bambini  una ricchezza  e una opportunità per il futuro che vale la pena di riconoscere e non sprecare; penso infine alle numerose famiglie medio e piccolo-borghesi, al meridione (e non solo), che,  in carenza di servizi,  il posto al nido non lo trovano, essendo i pochi posti disponibili occupati ovviamente da chi ha l’ISEE più basso.

Di fronte a questo che fare? La risposta c’è:  sono necessari piani da parte dello Stato lungimiranti e non stra-ordinari, va favorita l’attivazione di  politiche di investimento pubbliche e private che sinora sono state  rivolte a “progetti” e “sperimentazioni” temporalmente limitate. È necessario uno sguardo lungo accompagnato da una nuova visione: qui il tavolo di coordinamento delle politiche per lo 0-6, costituito in modo  “trasversale” col contributo di tutti i ministeri interessati (Salute, Istruzione, Welfare) e di tutti gli attori potrebbe fare da giuntura costante, per monitorare l’evoluzione, il successo o insuccesso di un singolo investimento,  e spostare di volta in volta  il baricentro. Si chiama co-progettazione, questa, da condurre insieme ai territori, e ha bisogno di diverse sensibilità e competenze. In ogni ministero, in ogni USR, dovrebbe essercene uno, di questi tavoli, che lavori a tempo pieno, tessendo reti  di ascolto, consultazione e coordinamento.

Esperienze nazionali e internazionali a cui attingere ce ne sono, tante, anche troppe: ma non può servire spostare a freddo modelli che funzionano in un luogo o in una regione per estenderli ad un’altra, non può servire costruire ricette generaliste. L’Emilia non è la Campania, come l’Italia non è la Finlandia. La visione deve essere comune, l’integrazione trasversale e flessibile.
E più di tutto, fuori dall’ipocrisia, serve ritornare a parlare di LEP. Dove livello “essenziale” non significa “minimo”, ma giusto e costituzionalmente orientato. 
 


Credits. Immagine  a lato del tirolo: asilo nido quartiere Pianura (NA) .(Vesuviolive.it).

Scrive...

Annamaria Palmieri Laureata in Lettere, collabora con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli, già Presidente del Cidi Napoli e successivamente per due legislature Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli; attualmente dirige un istituto professionale a Torino.

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