Home - la rivista - scuola e cittadinanza - Una particolare forma di istruzione per gli adulti: la scuola in carcere

temi e problemiscuola e cittadinanza

15/11/2020

Una particolare forma di istruzione per gli adulti: la scuola in carcere

di Fabiana Fabiani e Maria Luisa Masturzo

Diritto allo studio e istruzione in carcere

Il diritto allo studio, ai tempi del coronavirus, è più che mai indispensabile, perché è proprio nella emergenza che lo studio può diventare una reale opportunità per la riprogettazione di sé e per rispondere alle criticità e allo stress che l’attuale situazione genera.
Ora lo studio presenta molteplici articolazioni e una tra queste di cui tener conto e su cui avviare una riflessione puntuale è riferita alle persone detenute, le quali nel frangente della pandemia sono state certamente penalizzate  nell’esercizio del loro diritto allo studio, per le condizioni restrittive in cui vivono. 
Se da una parte l’art. 27 della Costituzione considera il carcere come un percorso di rieducazione per la persona detenuta, finalizzato al suo reinserimento nella società, contemplando il diritto allo studio uno strumento privilegiato per questo fine, dall’altra diverse fonti mostrano la dimensione repressiva delle condizioni di vita delle persone detenute.
Nel tempo, quindi, si è sviluppato un dibattito articolato e una riflessione sulla funzione del carcere a diversi livelli istituzionali, nell’ambito della società civile e in molti ambiti di ricerca. Un contributo molto importante è certamente l’analisi di Michel  Foucault  che nel testo “Sorvegliare e punire” mette in evidenza il passaggio dalla punizione pubblica alla sorveglianza in termini  politici: 

"Si imprigiona chi ruba, si imprigiona chi violenta, si imprigiona anche chi uccide. Da dove viene questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni? Forse una vecchia eredità delle segrete medievali? Una nuova tecnologia, piuttosto: la messa a punto, tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo, di tutto un insieme di procedure per incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderli docili e utili nello stesso tempo."

La riflessione di Foucault era soprattutto concentrata sull’assenza dei diritti reali delle persone detenute e nelle lezioni universitarie si sottolineava l’aspetto repressivo della prigione.
I rilievi di Foucault e, in generale, della società civile sul tema ha sollecitato interventi e modifiche legislative importanti, che tuttavia non sempre sono attuate. Per esempio, secondo un rapporto dell’Associazione Antigone del 2018, nel 20% degli istituti di pena non sono ancora previsti spazi dedicati ai detenuti per svolgere lavori di diverso tipo o da dedicare allo studio personale, qualora frequentino corsi di istruzione secondaria.

L’isolamento forzato, la mancanza di rapporti affettivi, l’impossibilità di incontrare persone e di intrattenere rapporti in piena libertà non garantiscono sicurezza né all’interno, né all’esterno del carcere, anzi queste condizioni portano ad alti tassi di recidiva, in Italia pari al 68%, in quanto il fatto di non poter lavorare o di non poter frequentare corsi  di scuola ai diversi livelli o all’università, non consente di sviluppare quelle competenze sociali e relazionali fondamentali per un individuo nella vita quotidiana da persona libera.
A supporto di questo, gli studi dell’Associazione Antigone evidenziano, per esempio, che l’applicazione delle misure alternative consente un contenimento dei tassi di recidiva e che è necessario ampliare il numero di persone detenute che studiano in carcere e partecipano  a corsi di formazione professionale orientati ad apprendere un lavoro.

In merito al diritto allo studio, la legislazione vigente, a partire dall’art. 19 dell’Ordinamento  Penitenziario del 1975, prevede che: «Negli istituti penitenziari la formazione culturale e professionale, è curata mediante l’organizzazione dei corsi della scuola dell’obbligo e dei corsi di addestramento professionale, secondo gli ordinamenti vigenti e con l’ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti».
Il DPR 263/2012, entrato in vigore nel 2013, inerente l’assetto organizzativo dei Centri di istruzione degli adulti, compresi i corsi serali, amplia all’art. 1 comma 2 l’offerta formativa di corsi della scuola dell’obbligo (CPIA) e di istruzione secondaria superiore agli istituti di prevenzione e pena. 

Il protocollo successivo siglato tra il Ministero di Giustizia e il MIUR dell’ottobre 2019, prevede per gli istituti di pena di allestire:
-  percorsi con dotazioni di materiali didattici anche digitali;
-  laboratori didattici e tecnici.

Se da un lato l’impianto normativo supporta il diritto allo studio delle persone detenute, dall’altro la situazione concreta risulta più articolata nelle diverse realtà. Quanto previsto dal DPR  e dal protocollo sopraindicati risulta attuato presso alcune case circondariali, sia in termini di  corsi di studio, sia di laboratori; presso altre strutture, invece, vengono garantiti solo i percorsi di istruzione correlati ai CPIA.

Alcuni problemi nell’organizzazione 

Al di là di questa differenziazione, interessa mettere al centro della riflessione alcune difficoltà che la scuola, soprattutto la secondaria di secondo grado, deve affrontare nell’allestire i corsi di studio in carcere.
Il primo nodo da affrontare riguarda l’organizzazione delle classi. Nella realtà della Casa circondariale di Torino, ogni classe è in realtà “diffusa” nei diversi padiglioni e non è possibile accorpare gli allievi durante l’orario scolastico, in quanto i reati per cui si trovano in detenzione sono differenti e la regola interna prevede che non possano condividere gli stessi spazi persone con reati diversi.

Per poter insegnare a una classe così distribuita su diversi padiglioni l’insegnante deve organizzare la propria attività con piccoli gruppi di allievi. Emerge a questo punto la questione del rapporto tra il monte orario di cattedra dell’insegnante e l’orario scolastico per gli allievi, in quanto lavorando con piccoli gruppi, l’insegnante riduce il numero di ore settimanali  della propria disciplina: se si dovessero erogare le ore previste dall’ordinamento, gli insegnanti interverrebbero su due piccoli gruppi, poiché, in genere, in carcere vengono assegnate cattedre formate da “spezzoni”. Nessun insegnante, infatti, tranne in rarissime occasioni, ha l’intera cattedra  presso la sezione carceraria. 
La questione dell’organico non è di poco conto, in quanto ricerche internazionali, come quella di Eurydice - Sistemi educativi e politiche in Europa, mostrano  quanto sia importante mettere a disposizione le risorse necessarie sia a livello quantitativo, sia qualitativo, per garantire un alto livello di equità nell’apprendimento.
Per consentire agli studenti detenuti di poter usufruire di un orario adeguato e per garantire un buon livello qualitativo di istruzione,  l’Istituto di Istruzione Superiore “Carlo Ignazio Giulio”, che opera nella Casa Circondariale di Torino,  per esempio, sopperisce alla carenza di organico attraverso una  progettazione  condivisa con  l’associazione di volontariato AUSER, che mette a disposizione ex insegnanti per organizzare attività individuali e autonome di potenziamento sulle competenze di base e disciplinari dei singoli allievi. 

La necessità di formare insegnanti per l’istruzione degli adulti

Se la composizione delle cattedre in carcere rappresenta un serio problema, l’altro aspetto, questa volta sul piano qualitativo, riguarda il nodo della formazione degli insegnanti che intervengono. 
In questo caso, si tratta di un problema più ampio che, in particolare, riguarda la formazione degli insegnanti della scuola secondaria di primo e secondo grado:  dal 2008, quando l’allora ministra Gelmini cancellò le SSIS (Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario), si sono sperimentate  altre soluzioni parziali (TFA- Tirocinio Formativo Attivo, per due annualità e FIT, Formazione Iniziale e Tirocinio, previsto dalla legge 107/2015, che non ha mai visto la luce), che tuttavia sono finite in un nulla di fatto, sotto il profilo della stabilità di un progetto. 
Il precedente governo ha, poi, affrontato la questione della formazione degli insegnanti, ratificando un concorso per  l’assunzione in ruolo, in cui si richiede esclusivamente il possesso di 24 CFU, inerenti l’area antropo-psico-pedagogica, crediti spesso acquisiti attraverso le università on line. Insomma, in buona sostanza, si è ritornati alla visione della scuola gentiliana per cui si può “trasmettere” conoscenza con il solo possesso di una laurea, aggiornata da una spolverata di nozioni di psicologia e pedagogia! Anni di riflessione filosofica e psico-pedagogica in chiave costruttivista relativamente ai temi dell’apprendimento come co-costruzione mediata e rielaborata dal soggetto in una dimensione collettiva, sono stati cancellati in un battito d’ali rispetto alla formazione degli insegnanti!   

Tornando alla questione delle cattedre nell’istruzione degli adulti, gli insegnanti della scuola secondaria che assumono le cattedre “di fatto”, definizione con cui si configurano i famosi “spezzoni”, attualmente non hanno alle spalle alcun percorso formativo per affrontare questo lavoro. Sovente, anzi, sono professionisti del mondo privato (psicologi, medici, avvocati, ingegneri…) che per una serie di motivi scelgono di insegnare, privi pertanto di quella adeguata formazione necessaria per  insegnare in generale, e per insegnare agli adulti in particolare.
Ora, uno Stato che abbia a cuore il proprio sviluppo deve garantire lo sviluppo dell’istruzione, ripristinando in primo luogo la formazione degli insegnanti della scuola secondaria e progettando al suo interno moduli specifici per l’istruzione degli adulti, di cui l’istruzione carceraria rappresenta un segmento importante, esattamente come si faceva nei corsi SSIS e TFA, dove erano previsti moduli specifici per l’insegnamento degli studenti diversamente abili. 
Come in quel caso, l’istruzione degli adulti richiede un approccio specifico articolato e complesso, in quanto secondo la life-span theory, ossia la “prospettiva centrata sull’arco della vita”, lo  sviluppo ontogenetico interessa tutta la vita dell’individuo (Baltes, Staudinger, Lindenberger). L’espressione “arco di vita” indica infatti che l’interesse si concentra su tutto il vissuto della persona e non solo su una parte di esso, poiché lo sviluppo cognitivo umano avviene per tutta la vita (Merzenich) e dipende anche da interazioni tra condizioni socio-culturali, socio-ambientali, storico-geografiche e predisposizioni personali (Gardner).

Le mutate condizioni sociali, lo sviluppo scientifico-storico permettono ora  all’adulto di rivivere o intraprendere per la prima volta esperienze destinate, nel passato, a precisi momenti della vita. In questo mutato scenario storico-sociale, l’adulto cerca di conseguire la sua piena realizzazione sociale, sperimentando esperienze formative articolate, orientate a potenziare le abilità individuali, come nel caso dell’istruzione in carcere,  e a migliorarne l’utilizzo all’interno dell’ambiente di lavoro, come nel caso degli studenti lavoratori.
Per sostenere gli adulti nei loro percorsi formativi  sono necessari insegnanti motivati e competenti in merito alle fasi evolutive dell’adulto, ai bisogni formativi da loro espressi, alle metodologie inclusive, a forme di valutazione inedite, in quanto non è possibile traslare tout court questi aspetti dai processi di apprendimento rivolti al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza a quello adulto. 

Bibliografia


P.B. Baltes, U.M. Lindenberger, U. Staudinger, “LIFESPAN PSYCHOLOGY: Theory and Application to Intellectual Functioning”, in  Life Span Theory in Developmental Psychology, Volume I. Theoretical Models of Human Development, Max Planck Institute for Human Development, Berlin, Germany, 2007.
M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, 1993.
H. Gardner, Intelligenze multiple, Anabasi, 1994.

Credits


Immagine a lato del titolo: Stefano G. Pavesi, "Contrasto", da "Redattore sociale".

Parole chiave: cittadinanza

sugli stessi argomenti

» tutti