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09/02/2022

A scuola, ciò che scuola non è

di M. Gloria Calì

“La scuola di qualità non è qualcosa che sarà; se ce n'è una, è quella che è già qui,
la scuola che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non farla morire. Il primo riesce facile a molti: accettare la non-scuola e diventarne parte fino al punto di non vederla più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo alla non-scuola, è scuola, e farlo durare, e dargli spazio.”

Italo Calvino, mi auguro, da qualsiasi "Città Invisibile" si trovi, perdonerà l’irriverenza, ma la celebre conclusione del suo libro si presta benissimo ad essere parafrasata per esprimere il nucleo centrale di una questione certo non nuova: il confine fluido e ingannevole del rapporto tra istruzione ed educazione, e, ancora più in sintesi, il concetto stesso di istruzione. 
Il problema è intrinseco al senso stesso della scuola, della sua funzione pubblica, del suo mandato; basti considerare i cambiamenti di nome, gli scorpori e le modifiche amministrative che ha subìto il ministero della scuola, operate da governi di tutti i colori e posizionamenti politici, e ci si renderà conto che se la cultura scolastica italiana non è totalmente svanita non è certo merito dei decisori politici.

Il senso stesso dell’esistenza di una scuola pubblica, in Italia, si trova nel documento madre della Repubblica, nel “libretto di istruzioni per montare e far funzionare lo Stato italiano”: la Costituzione, in cui si trova la disciplina originaria della materia[1].
Il radicamento costituzionale dell’idea di scuola è uno dei fattori che rendono complessa la questione dei rapporti tra istruzione ed educazione, perché porta con sé una grande domanda di senso: come può la scuola rimuovere gli ostacoli alla partecipazione piena e consapevole di cittadini e cittadine alla vita pubblica? Che cosa e come deve insegnare? Come deve istruire? In che senso si può dire che la scuola deve educare?

Su queste domande la riflessione non si è mai interrotta, sia negli ambienti accademici, sia nei tavoli delle associazioni di ricerca e formazione scolastica. Una manifestazione molto diffusa di questo problema è una tipica dichiarazione di molti insegnanti che si sentono chiamati a fare “anche gli psicologi”: alcuni lo dicono con un pizzico di vanità, sentendosi indispensabili per i loro alunni e alunne, altri con un fastidio derivante dal sentirsi distratti dalla loro dimensione disciplinare.

In epoca pre-pandemica, la questione del rapporto tra educazione e istruzione era connessa con il tema dell’evaporazione della genitorialità efficace, autorevolmente salda ma anche affettivamente appagante per i minori: agli insegnanti, adulti extradomestici di riferimento, gli onori, o, più spesso gli oneri, di vestire panni educativi in supplenza ai genitori.
Sull’epoca pandemica poco possiamo dire non solo perché non si è ancora conclusa, ma anche perché non sappiamo quando e come evolverà.  Quello che è certo è che la pandemia ha coinciso con alcuni movimenti normativi che hanno molto a che fare con il rapporto educazione-istruzione: la legge che introduce l’Educazione Civica (L. 92/2019), la recente proposta di legge sulle competenze non cognitive e per motivi diversi, l’O.M. 172/20 che modifica il sistema di valutazione per la scuola primaria.

Sull’Educazione Civica ex lege 92, la riflessione più ampia, articolata e argomentata da più punti di vista  si trova anzitutto nei due volumi a cura di M. Ambel, Una scuola per la cittadinanza, Piemme, 2021, che si fondano sull’assunto cardine che la scuola stessa, in quanto istituzione della Repubblica, ha di per sé  un profilo “Civico”, al quale non ha senso aggiungere un “insegnamento” surrettizio[2].
Da segnalare anche le posizioni di Antonio Brusa, che si è espresso criticamente nel metodo e nel merito di questo “insegnamento” su “Historia Ludens". 
A parte queste voci, tutto il resto è manualistica prescrittiva, acritica, per dare l’illusione ai docenti di poter risolvere i problemi progettuali e organizzativi posti dall’intrusione dell’Educazione Civica.
Sulle competenze non cognitive la questione è altrettanto complessa, a partire dal titolo stesso della proposta: “Disposizioni per la prevenzione della dispersione scolastica mediante l'introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico". 
Sulla critica all'assunto di questa legge ha già scritto opportunamente su insegnare Maurizio Muraglia; mi limito qui ad aggiungere che “dispersione scolastica” a me fa venire in mente una serie di proposte mai concretizzate e messe a sistema: le mense, il tempo pieno esteso a tutte le scuole del primo ciclo; i trasporti pubblici efficienti e a costi simbolici per gli alunni e le alunne; i libri di testo forniti gratuitamente; i laboratori funzionanti. La lotta alla dispersione scolastica mi farebbe venire in mente anche un colossale impegno di tempo e risorse per abbattere i muri della didattica trasmissiva e della valutazione sanzionatoria. Pensare di contrastare la dispersione scolastica parlando di “Competenze non Cognitive” da sviluppare negli studenti è una subdola e ingiusta accusa nei loro confronti: “Non sapete stare al mondo, perciò scappate dalla scuola!”.
Ed ecco che il cerchio si chiude con la questione della valutazione. Il 2021 ha portato nella scuola primaria la tanto desiderata (non da tutti, in verità…) eliminazione del voto numerico, salutata con grande favore in quanto disposto normativo che dovrebbe ricollocare l’attenzione dei docenti sulla descrizione dei processi anziché sulla misurazione dei risultati, inducendo nelle scuole uno sforzo positivo di riorganizzazione del sistema di valutazione, sia nei suoi aspetti puramente didattici che in quelli connessi con la comunicazione scuola-famiglia.
E la secondaria di primo grado? Dov’è la continuità? I due ordini sono associati nella cornice culturale dei curricoli, cioè con quanto si delinea nelle Indicazioni nazionali; per essere separati, invece, nel sistema di valutazione, che garantisce alle iniziative didattiche reale efficacia nella costruzione di quelle “competenze culturali di cittadinanza” che la scuola deve assicurare per rispettare il suo mandato.
Questa contraddizione pesa in modo particolare negli istituti comprensivi, più di 4500 istituti veri, pieni di ragazzi e ragazze che avrebbero diritto a un’istruzione efficace e a una struttura culturale solidamente fondata sulla valutazione formativa; nessuno si è adoperato per garantire questo diritto armonizzando il sistema di osservazione e descrizione degli apprendimenti con quello in uso nella primaria.

Aggiungo che l’anno scolastico in corso, il 2021/2022, per gli studenti e le studentesse della media è il terzo in pandemia, hanno, cioè, passato tutto il triennio in DaD (più che “Didattica a Distanza”, forse ora si è capito che si tratta di Didattica alla Deriva); sarebbe stata doverosa una norma che avesse abolito la valutazione intermedia e finale, sostituendola con un “commento al percorso scolastico annuale” di ciascun alunno/a, diviso in due parti: 1. Come abbiamo camminato finora 2. Che cosa possiamo fare per camminare meglio (usiamo il plurale nell’ottica della classe e di una relazione educativa che coinvolge insieme docenti e studenti). E questo a seconda delle discipline e  sulla base degli obiettivi stabiliti. 
Se l’ordinanza più bella del mondo fosse stata scritta ed emanata, le scuole avrebbero dovuto revisionare non solo criteri e modalità di osservazione e valutazione, ma reimpostare anche la progettazione e documentazione della didattica: chi ha competenza dei processi reali e lavora con onestà sa che valutare ha un senso pieno solo se c’è una progettualità seria in cui la valutazione diventa un ingranaggio fondamentale del sistema di insegnamento/apprendimento.
Estendere la valutazione descrittiva anche alla secondaria, in questa fase storica, sarebbe stata un’operazione di grande rispetto nei confronti di alunni e alunne di ogni ordine e grado, anzitutto, e un’operazione colossale di ricerca didattica, cioè di autoformazione realmente significativa, con un potenziale di innovazione profonda.

Le considerazioni sopra esposte potrebbero sembrare eccessivamente sbilanciate verso un’idea disciplinaristica dell’insegnamento/apprendimento, ignorando l’importanza della crescita “umana” di alunni e alunne, lo sviluppo in loro di tutte le caratteristiche relazionali che renderebbero loro più “adatti” alla vita attiva e produttiva nel futuro. Sembrerebbe cioè che ci si stia “schierando” a favore dell’istruzione, volendo intenzionalmente eludere il compito educativo della scuola.

Come accade per ogni alternativa così netta, che apparentemente richiede uno "schierarsi", la questione andrebbe forse affrontata in altra prospettiva.

Quando penso a ciò che devo fare in classe, non mi pongo mai il problema di fare o non fare educazione civica, sviluppare o meno le competenze non cognitive. Mi preoccupo soltanto di istruire i miei alunni per renderli cittadini culturalmente attrezzati per ciò che accadrà loro dopo che avranno esaurito il corso di studi che percorriamo insieme. Poiché sono consapevole che l'istruzione non è ammaestramento ma, appunto, "in-structio", ciò costruzione interna, devo cercare di farli stare bene dentro i processi di apprendimento, perché se non stanno bene magari imparano alcune informazioni, ma non saranno mai padroni di nessuna conoscenza, cioè non saranno mai istruiti. Lo "star bene" per me si attua anzitutto instaurando la fiducia nell'adulto, che rappresenta l'istituzione pubblica realizzandone la funzione: l'insegnante che insegna fa sì che l'alunno sia a suo agio nel contesto di apprendimento. Inoltre, l'alunno che impara in un contesto di pari opportunità si sente compreso, accettato, valorizzato in quanto individuo e si sentirà anche valorizzato in quanto membro irrinunciabile di una comunità in cui il sapere si fa insieme, e solo insieme si trova il senso al tempo dell’apprendere. 
Questo avviene attraverso le discipline con cui ciascun insegnante “traffica” in classe, con cui si dà sostanza, senso e direzione alla relazione educativa. Il piacere di imparare nasce da un rapporto gratificante con i saperi, che struttura progressivamente la capacità per ciascun alunno di saper stare al mondo.
Che le discipline abbiano delle aree di connessione, come scriveva Giancarlo Cerini, non è una novità sconvolgente fatta emergere dall’applicazione dell’educazione civica: è insita nell’episteme stesso delle discipline; la trasversalità, quindi, è una dimensione didattica che sta dentro i saperi e non certo nell'"etica" (come indicano le linee guida sull'educazione civica) o nella "creatività" (come recita la proposta di legge sulle competenze non cognitive). Accade quindi che la scuola migliore, quella che nasce da ricerca didattica, desiderio di sperimentazione, collegialità, consapevolezza professionale, sia educativa, senza prescrizioni esplicite, ma alimentando una crescita culturale per alunni e alunne in un ambiente rispettoso della cultura, centrato sulla comunità di insegnamento- apprendimento. L’efficacia di questa dinamica può essere garantita solo da una valutazione formativa, perché ciò che si valuta è ciò che viene evidenziato, considerandolo prioritario. Se io valuto "il senso di appartenenza alla comunità" sto facendo educazione civica, nel senso più pericoloso e anticostituzionale; se valuto il contributo di Pierino alla stesura del testo narrativo collettivo sto facendo italiano, onestamente, e il ragazzino ha l'opportunità di crescere in una relazione educativa con adulti e coetanei. 
É chiaro che s'è sempre fatta "educazione civica": come è detto sopra, è la scuola che è "civica"; è fisiologico che i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, coltivino quelle competenze personali in apprendimento che vengono chiamate “life skills” o “competenze non cognitive”; le classi e le scuole sono comunità, in cui l’interazione è frutto di continua negoziazione.

La scuola, quando è scuola, non solo coltiva le competenze non cognitive e realizza l’educazione civica, ma ne garantisce anche l’equità dell’impegno istruttivo-educativo per tutti attraverso la tutela del diritto di tutti all’apprendimento.

Note

 [1] Una sintesi efficace si trova alla voce "istruzione", Treccani on line;  per chi volesse approfondire il rapporto tra scuola e mandato costituzionale, è consigliabilissimo per completezza e chiarezza il libro di R. Calvano, “Scuola e Costituzione, tra autonomia e mercato”, Ediesse 2019.
 [2]Le registrazioni dei seminari di presentazione dei volumi sono disponibili su insegnare, alla pagina
"Il ciclo di seminari".

 

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