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di Margherita Fratantonionoi e loro

30/10/2014

Class Enemy: riflettiamo ancora sui confini nella relazione educativa

Sembrerebbe scritto e girato da un cinquantenne, Class Enemy, e non da un regista di soli ventinove anni. Tanto le riflessioni che se ne possono fare sono condivisibili da chi nella scuola ci ha passato una vita intera. “Sono vivaci”, si scusa la giovane insegnante di tedesco nell’affidare gli studenti al collega supplente. “Sono disobbedienti”, la corregge laconico Robert Zupan, un insegnante più vecchio di lei, molto più rigido, e meno compagnone. 

Quando la situazione precipita e la classe si fa ingestibile, la giovane prof torna, per mettere le cose a posto perché  ci sa fare, sa come prenderla, e invece non è affatto così. I suoi studenti, un po’ figli e un po’ fratelli minori, non si lasciano incantare dalla vicinanza emotiva che lei dà per scontata. Qualcosa si è rotto in quell’intesa costruita prima che la prof lasciasse gli studenti, forse perché è successo un evento più grande di loro (il suicidio a scuola di una compagna di classe), forse perché loro non sono abbastanza grandi per fronteggiarlo. Non le perdonano, gli studenti oramai cresciutelli, di averli abbandonati, traditi, e non importa se la prof non sia partita per una vacanza esotica, ma per andare molto più legittimamente a partorire. 

Una reazione infantile che forse è la vera chiave del film, perchè dimostra come i ragazzi, nel loro assoluto bisogno di protezione, abbiano perso completamente il senso della realtà. Siamo in un liceo della Slovenia (ma l’ambientazione scolastica è molto simile alla nostra), e la sostituzione dell’insegnante-amica, poi  il suicidio della compagna Sabine, innescano una ribellione contro il professore di tedesco, gli insegnanti tutti e contro il sistema. 

Il professore non è proprio del tutto innocente; per dimostrare a Sabine la fiducia nelle sue capacità, la tratta male, giocando sulla traduzione della parola “fallimento”, e pensando così di scuoterla, ma sottovalutando maldestramente la sua fragilità. Alla resa dei conti, dirà agli studenti di non aver mai fatto differenze e qualcuno gli risponderà che, per forza, ha trattato tutti male alla stessa maniera. Non si ammorbidisce neanche dopo la tragedia, ma utilizza le citazioni di Thomas Mann per ragionare sull’accaduto e perché tutti, Sabine compresa, si assumano la loro parte di responsabilità: «La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive» è il titolo del tema che ha il coraggio di assegnare. 

Al contrario del collega che lascia andare i ragazzi al bar anziché fare lezione (per empatia o perché non riesce a stare con il loro dolore?), Robert Zupan rimane. A dimostrare che non esistono studenti innocenti. Pasolini lo diceva dei figli, di coloro che non sanno riconoscere la loro colpa, che è quella di non  perdonare i loro genitori. I liceali della classe, alla stessa maniera, devono trovare un adulto su cui riversare l’ombra dell’evento che minaccia la loro identità, messa così duramente alla prova. La rabbia giustificata del lutto  trova un oggetto contro cui manifestarsi, anziché rimanere un’emozione da riconoscere, per passare alla fase successiva dell’elaborazione: la tristezza. 

Ma gli adolescenti non vogliono stare né con l’una né con l’altra e l’aggressività rivolta prima contro il professore, che regge persino l’appellativo di nazista, si consuma tutta all’interno del gruppo.  Esplodono le tensioni individuali e collettive e noi, che all’inizio del film non vorremmo minimamente somigliare al professor Robert Zupan, dobbiamo un po’ ricrederci. La distanza tra il nostro sentire e il suo è dapprima netta: come potremmo parteggiare per uno così direttivo, e che   pretende l’esercizio di abilità critiche, quando abbiamo sempre pensato che la rielaborazione personale può esercitarsi esclusivamente  in una relazione educativa serena? 

Però il clima disteso di prima, quel maternage in cui gli adolescenti hanno vissuto finora, non li ha resi sufficientemente forti da sostenere il bagno di realtà del prof. Zupan, una doccia gelata intollerabile per chi non ha strumenti di difesa. Nella seconda parte del film il  professore ci appare come  un professor Keating del 2014, ma al contrario. Lui insegnava la libertà a tutti i costi in un ambiente grigio e  autoritario, mentre i discorsi non rivoluzionari di Robert Zupan appaiono comunque dirompenti se si permettono di spezzare un equilibrio, proprio perchè l’equilibrio è risultato tale solo fino a prova contraria. Egli non usa tante parole, ma la fissità del corpo e dello sguardo; i suoni aspri della lingua tedesca fanno il resto. 

Lo spaesamento di tutta la scuola, adolescenti e adulti, e la granitica sicurezza del nuovo arrivato ad un certo punto della narrazione ci spiazzano e quando si permette di dire che studiare non è un diritto, bensì un privilegio, non ci scandalizziamo, noi che questo diritto lo difenderemmo coi denti. Perché i nostri ragazzi somigliano in modo impressionante a quelli del film. Ci auguriamo che nessuno di loro sia costretto a vivere lo shock di un suicidio a scuola, ma tutti dovranno affrontare il mondo fuori dalle pareti scolastiche (le stesse di un film di Laurent Cantet, Entre les murs), che non li coccolerà di certo. 

Anche nelle nostre classi, è l’imprevisto che ci fa riflettere sullo stile educativo, quando gli studenti superano il limite, quando capiamo che qualcosa è andato storto; ma non bisogna aspettare l’emergenza per ripensare a inserire elementi nuovi (e nuovo per noi è ritrovare la fermezza e il rigore che aiutino l’assunzione di responsabilità, in alcuni contesti perduta da troppo tempo).

Che sia poi proprio un personaggio filmico così irrigidito a ricordarcelo, la dice lunga. 

Di che cosa parliamo

Noi e loro: le nostre stanchezze, e gli entusiasmi che sopravvivono; i loro linguaggi, sempre nuovi e sempre gli stessi.
Noi e il filo sottile dell’autorevolezza, i saperi, i dubbi, le certezze; loro e la ricerca di individuazione, i modelli che li  rassicurino, così evidenti e indecifrabili.  
L’intento della rubrica è l’assunzione di uno sguardo rinnovato sui rimandi quotidiani,  per stare un po’ meglio a scuola, tutti, e più consapevolmente: osservando, insieme, nell’apparente immobilità,  le relazioni e i piccoli, grandi cambiamenti; ascoltando e auto-ascoltandoci, per stabilire confini via via  più efficaci.

L'autrice

Ha insegnato Italiano e Storia negli Istituti tecnici. Specializzata in counseling ad orientamento gestaltico, ha gestito lo sportello d’ascolto a scuola e corsi sulla genitorialità, avvalendosi della vita di  classe e degli incontri individuali come occasioni di riflessione sul nostro relazionarci con gli adolescenti, sul nostro modo (e il loro) di vivere quotidianamente la scuola.
 Lasciata la scuola, è in pausa di riflessione sulla sua vita e sulle eventuali modifiche alla rubrica.


Scrive di cinema e psicologia per Cinema Free e per Taxidrivers (rubrica Luci e ombre).