Sono stanca di parlare di maturità: mi sembra di aver detto tutto oramai e di averne disquisito fin troppo. Però ogni anno l’evento continua a sorprenderci: per il pressappochismo, la faciloneria, lo sfinimento. Sembra proprio non meritare il bell’articolo di Massimo Recalcati dal titolo "L'incubo della maturità l'esame che non finisce mai", pubblicato il 17 giugno su la Repubblica e citato nelle nostre pagine da Mario Ambel.
Due i passaggi più significativi della riflessione di Recalcati:
- il senso di solitudine: “"La prova non consiste nel parlare di fronte ad una commissione, ma nel fare esperienza che nessuno può sostituirci, che, nel momento in cui ci assumiamo la responsabilità della parola, nessuno potrà prendere il nostro posto";
- e l’ineluttabilità del rito: “Nell’esame di maturità si conclude un primo tempo della formazione; la certezza della terra dell’infanzia finisce e inizia l’instabilità avventurosa del mare”.
Viene da pensare però che gli esami siano all’altezza delle parole dense di Recalcati solo per i ragazzi che se ne assumono l’onere fino in fondo e dei docenti che li accompagnano, con serietà nonostante tutto, nonostante il mare burocratico nel quale tutte le estati si trovano a naufragare: altro che quello simbolico di Massimo Recalcati! Simboli, metafore, significati profondi si diluiscono nella replica di processi esasperanti e monotoni per noi, confusi e incomprensibili per loro.
Mario Ambel accenna a tesine su commissione o scaricate da Internet, ma può capitare di peggio: quattro paginette smilze (carattere 14 per commissari presbiti) in cui si collegano Ungaretti alla guerra fredda, Svevo al secondo conflitto mondiale, più due argomenti delle materie di indirizzo che paiono scelti a caso (sempre una paginetta per ciascuno). Ė quello che sto sperimentando oggi in un istituto tecnico, mentre auguro il massimo della valutazione alla mia studentessa che continua a spedirmi e rispedirmi il suo bellissimo lavoro, con l’insicurezza di chi possiede il dono e l’esercizio della buona scrittura, e insieme l’incontentabilità di chi vuole riuscire.
Per anni, gli studenti dell’istituto tecnico industriale hanno portato alla maturità il prodotto dell’area di progetto: ricordo il successo di una piccola radio costruita da un mio studente all’interno della scatola trasparente di certi cioccolatini dorati. Nella scuola di questi giorni, invece, i percorsi presentati sono talmente improponibili che non si sa cosa scrivere nella sezione “argomenti del colloquio” della scheda ufficiale. Non sono tesine, non sono progetti, né percorsi multi-disciplinari. Si finisce per scegliere quest’ultima definizione, ma non è assolutamente calzante.
Cosa non funziona in questo esame lo abbiamo ripetuto così tante volte! Saperi che avrebbero dovuto essere già accertati e certificati, capacità critiche che non si possono improvvisare, conclusioni degli studi che non concludono un bel niente. E noi? Noi, quando incontriamo classi problematiche, aiutiamo i ragazzi offrendo opportunità di recuperi a febbraio, marzo, aprile, maggio e la prima settimana di giugno; poi spesso li ammettiamo, a maggioranza, scaricando la responsabilità sulla commissione. In commissione diamo ancora una mano, cercando di non abbassare troppo i voti degli scritti, fino a quando, di fronte a orali troppo indecorosi, non possiamo più mentire. Oppure, se si può, concediamo un diploma che abbiamo già svalutato nella sostanza.
Vedete, parlar di maturità mi prende sempre la mano, ma non era di questo che volevo dire. Era, piuttosto, un pensiero nato quest’anno sulle nostre relazioni, tra noi che siamo chiamatati a dispensare titoli di studio, commissari e presidenti, costretti a una vicinanza insolita, alla condivisione forzata di tempi lunghi e scelte comuni, oltre che di rituali indecifrabili nella loro ovvietà.
Già durante la riunione plenaria ci si osserva, si cerca di capire chi è l’altro, chi sono gli altri, spesso preceduti da informazioni raccolte qua e là, più generose in provincia, dove le scuole sono sempre le stesse. Capita che ne arrivino di nefaste, di presidenti che assomigliano a Dario Argento (il terribile Hugo) nella scena in “Tutti pazzi per amore” di Ivan Cotroneo. La musica che lo accompagna è quella di Suspiria; scende da una macchina nera simile a un carro funebre, accolto da un corvo che gracchia sui rami e i maturandi si danno alla fuga… Nella realtà sono rari, ma ne esistono, ve lo assicuro.
Attese ansie e pregiudizi non appartengono solo agli studenti impauriti, ma un po’ anche a noi, che, stanchi dell’anno scolastico, ci risparmieremmo ogni possibilità di conflitto. Da quando poi molti tra i presidenti nominati sono colleghi, chi l’anno prima è stato a sua volta presidente, e ora è membro interno, è il meno disponibile all’accoglienza. Si muove in incognita, ma è facile leggergli un sorriso di sufficienza, una distanza che lo risparmia dal ruolo di segretario. La lettura buona: vuole riposarsi dalla fatica dell’anno scorso. Quella cattiva: non ha nessuna intenzione di vivere l’esame da “sottoposto”. Dopo un paio di giorni non resiste, comincia a dare consigli con ostentata benevolenza, dietro la quale si avverte comunque un giudizio: di scarsa autorevolezza, conoscenza delle procedure, fermezza nelle decisioni. Al contrario, se il collega-presidente si dimostra abbastanza sicuro di sé, sembra non volergli riconoscere la posizione.
A volte i dissidi serpeggiano ed esplodono fino allo scontro aperto (brutta cosa, perché il clima della commissione incide sulla serenità degli studenti); altre volte, come sta capitando a me che sono un tipo fin troppo conciliante, sono sottaciuti, sottili e possono anche diventare una piacevole simpatia. Ma bisogna superare la prova iniziatica, da presidente reggerla e non dimostrare fastidio alla prima critica, da ex-presidente lasciare spazio al modo di lavorare dell’altro, che non è detto sia meno efficace del nostro.
Quando nella scuola viveva la democrazia, quella vera, e non quel fantoccio che è diventata oggi, ci si sarebbe aiutati di più fin da subito, liberi dai desideri di riscatto che stanno avvelenando la nostra quotidianità scolastica. Lo sappiamo: noi vecchi della scuola siamo una generazione di nostalgici, consapevoli però di quanta nevrosi abbiamo accumulato nel tempo e sicuri che vent’anni fa i sentimenti di rivalsa e competizione erano meno forti.
Ma non siamo poi così male neanche oggi. Dopo le prime diffidenze, agli esami si stabiliscono solidarietà, sguardi che dalle otto del mattino a tardo pomeriggio si fanno sempre più stanchi. Si spettegola un po’, nei rari momenti di pausa, e ci si scambia brani raccontabili della nostra vita. Per me, forse perché ho cominciato a lavorare nella scuola pochi giorni dopo la laurea, proprio con una maturità, rimane sempre una sorta di avventura, che si apre con cautela e si conclude in un’intesa costruita insieme. Tanto che la chiusura del plico, sciolta la tensione per cosa mettere dentro e cosa no, avviene in un clima quasi goliardico, fatto di battute che due-tre settimane prima erano impensabili. Poi ci si saluta; possiamo promettere di rivederci, ma poche sono le amicizie che nascono durante l’esame. Perché il suo bello è proprio questo: aver costruito un affiatamento, quasi una confidenza, irripetibili, che, se cambia il contesto, non sono più gli stessi.
E quando il percorso non ha questa evoluzione relazionale, quando i dissapori continuano dall’inizio alla fine, beh, ci si rimane molto male e si cerca di dimenticare un’esperienza che avremmo voluto molto diversa da così. Gli esami sereni si confondono nei nostri ricordi, quelli brutti ce li ricordiamo benissimo. Parafrasando Tolstoj, le maturità felici si rassomiglian tutte. Ogni maturità infelice, invece, lo è a modo suo.
Immagine: due fotogrammi da "Tutti pazzi per amore", con Dario Argento presidente di commissione d'esame.