Chissà da dove vengono certe abitudini linguistiche, che sono di pochi e poi diventano di tutti. Modi di dire, gestualità: come quella sciocca, e così poco elegante, di accompagnare le virgolette con le dita, ora per fortuna quasi scomparsa. E che dire di quella ancora più brutta, e radicata, di usare l’aggettivo dimostrativo “questo” prima ancora di aver nominato il sostantivo a cui si riferisce? Interrogazione su Mastro Don Geusaldo: “C’era quest’uomo…” e su I Malavoglia: “Verga racconta di questa famiglia…”.
Alcune stranezze si registrano prima tra gli adulti e poi tra gli adolescenti, altre al contrario. Anch’io mi trovo a volte a dire “questo” o “questa” nel vuoto, dopo averlo corretto innumerevoli volte durante le verifiche dei miei studenti; colleghi e amici continuano nello stesso errore, che è una stonatura a dir poco insopportabile. Chi e quando, poi, ha cominciato a dire “Non ce la posso fare”, anziché semplicemente “Non ce la faccio” o “Non ce la faccio più”? Quel posso sembra star lì come un vezzo; lo si pronuncia in una maniera un po’ furbetta a chiedere complicità, comprensione, assoluzione. È preceduto spesso da un “No” seduttivo: “No, non ce la posso fare!” e l’espressione è tutta un po’ rallentata, come ci fosse una dieresi o un accento sulla quarta parola, posso. L’esclamazione sa di resa, ma con un sottile compiacimento, condito da vittimismo e consapevolezza.
I ragazzi, quelli che studiano, lo dicono spesso, esattamente con la stessa cadenza. Quando hanno troppi compiti, interrogazioni, impegni tra scuola, sport, danza, musica, o altro ancora. I disimpegnati invece lo dicono per ragioni ben più superficiali, anche solo nel seguire una lezione facendo finta di stare attenti. Sono Gli sdraiati, a dirla con il titolo dell’ultimo libro di Michele Serra. Sono quelli che non hanno il testo della Divina Commedia e quando, mentre spieghi, gliene chiedi ragione, ti rispondono che comunque stanno ascoltando (come se l’insegnante stia raccontando una storiella); che si buttano sul banco sfiniti alle otto di mattina, così come alle dieci o a mezzogiorno; che hanno un concetto tutto loro di risposta breve per le esercitazioni a casa: una parola calcata con la penna sul libro, quasi a violentarne la pagina con una scrittura indecifrabile.
Sono, per semplificare, i nostri ragazzi demotivati o che non hanno motivazione, se vogliamo usare un approccio frettoloso come ben argomenta Maurizio Muraglia sulle pagine della nostra rivista. Loro sì che sono seduttivi quando dicono “Non ce la posso fare”! S’impegnano a trascinare la frase, perché chiedono più che mai empatia, connivenza, indulgenza, se non il permesso di stare con la testa appoggiata sul banco per aver fatto tardi la sera prima (questi sono appunto gli sdraiati, che quando suona la campanella dell’intervallo si riprendono per imboccare i corridoi con la loro andatura stanca); pretendono persino di giustificare un’assenza di lunedì per un fine settimana troppo intenso. Giustificazione morale, s’intende, perché quella vera è dei genitori, ai quali avranno detto più volte: “Non ce la posso fare!”, con lo stesso tono di voce e la stessa cantilena.
La differenza tra il nostro dirlo e il loro, è che noi misuriamo lo stress con il lavoro, quello reale; loro con ben altro. Chi lo diceva che ciò che per gli adolescenti è una risorsa, per gli adulti è un problema?
I ragazzi che studiano davvero, loro, sono logorati quanto noi, perché la scuola, quando gli obiettivi si innnalzano, affatica seriamente: l’orario, le scadenze, un sistema che sarebbe tutto da rivedere. In Svezia (dove, come negli altri paesi del Nord, la scuola dura fino a diciannove anni e non si pensa di ridurla con la scusa di alleggerire i percorsi, come sta avvenendo qui, con il solo scopo di risparmiare) si lavora al massimo su tre materie al giorno, dalle otto alle quattro del pomeriggio e le lezioni durano in media quaranta minuti. Sempre in Svezia, negli intervalli tra una lezione e l’altra gli studenti sono liberi del loro tempo e gli insegnanti possono riposarsi, colloquiare con i ragazzi, con i genitori, e perché no, tra colleghi. A noi è stato tolto anche questo piacere, con le ore di sessanta minuti e gli intervalli tutti di assistenza.
Non è rispettoso, come nella mia quinta scientifico, passare da una verifica di fisica (probabilmente seconda prova d’esame di quest’anno) in quinta ora, a una sesta di letteratura, dall’una alle due. Quando la classe dice: “Non ce la possiamo fare”, ha perfettamente ragione. Però, non si può concedere uno spostamento, perché le ore sono quattro la settimana e il programma infinito. E allora ci si perde in discorsi nostalgici e stupidi, nel tentativo di dimostrare come noi prof siamo sopravvissuti, da studenti, alle ore di sessanta minuti, ai trimestri, alle interrogazioni non programmate, a insegnanti meno comprensivi.
C’è sul serio qualcosa che non va nella nostra quotidianità scolastica. Non ce la possiamo fare, noi e loro, sempre più sfiduciati ognuno per proprio conto, ad affrontare separati le responsabilità. Per fortuna, ogni tanto i nostri scoraggiamenti si incontrano fino a trovare le intese per andare avanti, e allora ce la possiamo fare, ce la facciamo tutti, se siamo ancora qui sufficientemente sani a parlarne.
L'immagine è tratta dal film La scuola è finita di Valerio Jalongo