Lei è Sara, una ragazzina di quindici anni che si ammala di anoressia. Milanese, famiglia benestante, genitori distratti come tanti. All’inizio la vediamo in preda ad un attacco di bulimia: scena respingente, fastidiosa, davvero troppo dura, ma poi la storia continua evitando accuratamente lo sguardo voyeuristico: niente eccessi, nessun compiacimento nel mostrare. Bensì una freddezza di fondo a evitare pericoli di emulazione. Il film è Maledimiele del regista Marco Pozzi. Noi lo abbiamo fatto vedere ai nostri ragazzi del triennio: trecentocinquanta studenti al cinema, quasi tutti maschi. Ci vuole coraggio. Ce l’abbiamo avuto e ha funzionato.
Il regista poi li ha incontrati, ascoltati, e si è generosamente raccontato. Le morti per anoressia, sostiene Marco Pozzi, si contendono il posto con quelle degli incidenti stradali, ma non se ne parla abbastanza. Più specificamente femminile, colpisce ragazze (ma anche i ragazzi, oramai) che hanno ideali del Sé troppo elevati, che vivono in una dimensione staccata dal reale, e tendono verso il perfezionismo autoimposto e irrangiungibile.
Uno studio svedese ci dice che il rischio aumenta in famiglie i cui genitori sono laureati (si raddoppiano le probabilità) e addirittura se lo sono anche i nonni si moltiplica per sei. Quindi, le richieste parentali incidono molto, anche quando non sono esplicite. Le ragazze anoressiche sono ambiziose, con impegno e forza di volontà fuori dal comune, responsabili e affidabili oltre modo. Considerate mature. Fino a quando la mania di controllo sui compiti diventa illusione di un potere tirannico sull’assunzione del cibo.
Per questo, ogni tanto, i voti altissimi a scuola dovrebbero insospettirci, soprattutto se accompagnati da atteggiamenti modesti, desiderio di non apparire, silenzi, e smania di eccellere o, ancora più subdolamente, da una sorta di euforia, quella che viene definita Luna di miele, quando l’adolescente comincia a flirtare con l’anoressia, e si sente invincibile. Che non significa paventare la patologia davanti a ogni pagella brillante, perché non dovrebbero essere solo i disturbi alimentari a preoccuparci. Tranquilli nel clichè che, si sa, le ragazze studiano di più e i ragazzi di meno, compiaciuti dei risultati, rafforziamo lo stereotipo, e può capitare che qualche problema serio ci sfugga, quale ansia, depressione, o crisi di panico.
Non ultimo e non insignificante, l’allontanamento dalla propria autenticità, dall’autoascolto, già così difficilmente praticabile durante l’adolescenza. Finché i bei voti gratificano, e la stima degli altri sembra farsi autostima, si limita la ricerca delle altre fonti di riconoscimento; quelle interiori, per esempio, e si finisce per diventare adulte con un’immagine di se stesse sempre sopra la media. Facile, per queste giovani donne, perdersi poi di fronte ai compiti esistenziali più comuni, quelli in cui non ci sono voti in classe a decretarne il valore, e le valutazioni possono drammaticamente essere ritenute insufficienti, o per lo meno, poco verificabili.
Questi ovviamente i casi limite, che andrebbero individuati all’interno di carriere studentesche serene ed appaganti, tutte, come è giusto che sia, tra loro diverse.
Però, per non generalizzare, ho chiesto ai miei ragazzi di quarta se davvero l’approccio agli impegni scolastici varia a seconda del genere. E’ una classe a indirizzo scientifico-tecnologico, studiosa quanto basta, con qualche situazione brillante sia tra le quattro femmine che tra i venti maschi. La maggioranza di loro ha riconosciuto che esistono notevoli differenze: le femmine sono più ansiose (a volte compulsive), responsabili e competitive, metodiche, forse perfezioniste, e sanno organizzarsi meglio. Gli stessi studenti affermano che alcuni di loro rispondono al clichè: sono una femmina e devo studiare di più, sono un maschio e posso studiare di meno. Qualcuno aggiunge che le ragazze sanno essere “furbe”, e apparire impegnate, mentre i maschi sono più ingenui. Meno concentrati, studiano solo per il voto; ma nonostante le valutazioni poco brillanti, sono più consapevoli delle conoscenze acquisite e tendono a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo. Non è un dato scientifico, ma che spesso si accontentano del sei, e vivono il rischio di scivolare nell’insufficienza, e quanto siano a volte naive fino alla nostra esasperazione, è esperienza quotidiana.
Le opinioni dei miei studenti coincidono (anche queste non proprio scientificamente!) con i dati Istat del 2011: il 38% delle studentesse si impegna al massimo, contro il 25 dei maschi. E i risultati dell’Ocse Pisa parlano di punteggi femminili superiori, a quindici anni, nelle abilità di lettura e in quelle scientifiche. In matematica, invece, riescono un po’ meglio i maschi, ma di poco. Addirittura uno studio inglese del 2009 sostiene che le ragazze vanno meglio a scuola se la classe, o la scuola tutta, sono femminili. Nessuno di noi, certo, vorrebbe tornare alle realtà di una volta, con le classi divise per generi, ma i dati potrebbero farci riflettere, per capire se il nostro approccio, e non solo quello degli adolescenti, può essere in parte modificato.
Cosa ci suggerisce, per esempio, il nostro sguardo quotidiano dalla cattedra? Quanto siamo davvero liberi da schemi attese e previsioni? Ci aspettiamo che le brave ragazze (e coscienziose) lo siano sempre, e che, almeno loro, non ci tradiscano. Alimentiamo il nostro Ego con le loro intuizioni, le verifiche sempre perfette, e pronte, almeno loro, a risponderci, e dar senso al nostro lavoro. Perdendo di vista la complessità e rafforzando, nostro malgrado, un modello. Sarebbe bene non dare per scontato che la più brava della classe (o, se pure con minore probabilità, il più bravo) lo sia in ogni momento. Ammorbidire i ruoli, mettere in conto l’imprevisto, valorizzare la complessità delle persone che stanno strutturando il loro modo di essere sotto i nostri occhi: ecco, potremmo sperimentare meno rigidità nei confronti dei nostri studenti. Esercitandoci sulla differenza di genere e di attese, per arrivare a una consapevolezza sempre maggiore sui tanti diversi aspetti della nostra relazione educativa.