"… (le storie) per esaurite che siano, per poco che sia rimasto da raccontare, si continua a raccontare ancora"
(I. Calvino [1])
“Possiamo fare per il finale considerazioni simmetriche a quelle che abbiamo fatto per l’incipit?”, si chiede Calvino in Cominciare e finire [2], la sesta lezione americana postuma, a proposito della conclusione di una narrazione, sia essa un romanzo, un racconto, una fiaba. La riflessione sulla composizione dell’opera letteraria, oggetto specifico della lezione Consistency, occupa, di fatto, uno spazio di rilievo nella produzione dello scrittore.
Tale riflessione è affrontata da un duplice punto di vista: dello scrittore che è chiamato a definire uno spazio narrativo tra mondo scritto e mondo non scritto, a dare coerenza interna al testo, a scegliere le modalità di elaborazione dell’opera in quanto a forma e struttura. E dal punto di vista del lettore[3] che è considerato parte integrante del rapporto di interazione che si crea tra le strategie narrative poste in essere da chi scrive e le dinamiche di lettura elaborate da chi legge. Scrive Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, il romanzo nel quale il Lettore e la Lettrice, in un avvincente gioco di immaginazione, assumono il ruolo di funzione narrativa e in cui il tema di fondo è la lettura[4]
Nel passo citato è un lettore a sottolineare l’importanza dell’incipit, delle prime frasi di un’opera. Se dunque, per lo scrittore l’incipit è il momento che esprime tutte le potenzialità e le opportunità attuabili di una narrazione, per il lettore è quel quid che può accendere il suo desiderio di lettura, mettere in moto l’immaginazione. Per questo, scrive ancora Calvino nella sua lezione, “la storia della letteratura è ricca di incipit memorabili” mentre lo è meno di finali che “presentino una vera originalità come forma e come significato…o almeno non si presentano alla memoria così facilmente”.
È ancora un lettore a porre la questione dell’importanza non solo dell’inizio ma anche della fine di una storia (p.301; 304-5):
Ogni storia narrata, alla quale un lettore può appassionarsi, ha una fine mentre “il libro non si conclude”, non ha fine perché il lettore può leggere e rileggere “ogni volta cercando la verifica d’una nuova scoperta tra le pieghe delle frasi”. E anche perché, scrive ancora Calvino, la lettura “come desiderio sempre da soddisfare” rimane, stimolata dai titoli, dagli incipit, dal desiderio di ripetere l’esperienza di scoperta tra le righe[5].
Circa le modalità di chiusura di un romanzo o di un racconto, l’attenzione di Calvino. nella rassegna fornita nella sesta lezione americana, si concentra in particolare su tre tipologie, anche se, avverte, non sempre è possibile definire nettamente il motivo per cui “la comunicazione che volevano trasmettere ha assunto una forma compiuta”.
Il finale può essere cosmico in quanto la narrazione si conclude con una riflessione, sulla condizione umana o sulla natura inquinata dall’uomo, come nel caso del finale sveviano di La coscienza di Zeno. Oppure può essere indeterminato, in quanto lascia al lettore ampio spazio interpretativo circa la conclusione della vicenda, come nel caso della Montagna incantata di Thomas Mann. O ancora può essere metaletterario e dissolvere l’illusione realistica del racconto ricordando al lettore che le vicende narrate appartengono al mondo della scrittura, come nel caso del finale del Don Chisciotte di Cervantes.
Ma il finale che chiude la vicenda narrata quando questa raggiunge un suo livello di compiutezza può essere anche chiuso, circolare o altro ancora, come mostrano i racconti di Ultimo viene il corvo, di cui si propongono cinque esempi.
Esempi da Ultimo viene il corvo
1. Il giardino incantato è un racconto breve con protagonisti due bambini. All’inizio della storia i bambini si divertono a camminare sui binari: “Giovannino e Serenella camminavano per la strada ferrata. Giù c’è un mare tutto squame azzurro…”. Il gioco si interrompe bruscamente quando avvertono dal rumore metallico che sta arrivando un treno. Per allontanarsi dal pericolo, si rifugiano in una siepe e si ritrovano nel giardino di una villa privata, silenzioso, ricco di piante e ben curato. Sentimenti diversi li animano: paura, disagio, amicizia e complicità.
La vicenda ha inizio in prossimità di una spiaggia e termina sulla spiaggia, dove i bambini riprendono i giochi di sempre alla fine di una giornata estiva. Lo spazio della narrazione è occupato dal racconto dell’esperienza vissuta che li ha resi più maturi e consapevoli che la felicità non consiste nel possedere tante cose ma nel sentirsi sereni e a proprio agio anche in un mondo fatto di cose semplici e quotidiane.
L’uscita dal giardino e la fine dell’avventura imprevista sono sintetizzate in poche righe. Non c’è più la necessità di uno sviluppo narrativo e la vicenda può concludersi ritornando, con un andamento circolare della narrazione, all’inizio: alla quotidianità di una giornata estiva con ogni probabilità al mare della Liguria dell’infanzia dello scrittore. Questo il finale:
2) Alba sui rami nudi ha un finale tragicomico scandito da un ritmo incalzante e dalla presenza di veloci battute di dialogo. Il protagonista Pipin il Maiorco, proprietario di un piccolo frutteto dalla cui coltivazione trae il denaro per la sussistenza familiare, scopre di essere stato derubato nottetempo di tutto il raccolto. Ne consegue una descrizione cruda e concreta della sua reazione. Un finale ad effetto, in netto contrasto con il tono onirico e rarefatto dell’incipit: “L’inverno è più trasparenza d’aria che freddo; e in quell’aria sui rami scheletriti s’accendono centinaia di lampadine rosse: cachi”. Nell’incipit risulta evidente una intrusione del narratore che si concede lo spazio di una digressione nel proprio immaginario. Il finale invece rimane ancorato agli eventi narrati e al comportamento rabbioso del protagonista di fronte alla “ragnatela di rami nudi” che segna l’inefficacia di tutti i suoi sforzi. Questo il finale:
3) L’occhio del padrone appartiene alla narrativa breve calviniana di ambiente campestre. Protagonista è il figlio di un proprietario terriero che non riesce a portare avanti il lavoro del padre e che odia ed è odiato dai contadini che lavorano la terra alla quale si sente di non appartenere più.
Due sguardi, due visioni del mondo. Lo sguardo del padre esemplificato tramite un proverbio antico: “L’occhio del padrone, - gli disse suo padre, indicandosi un occhio, un vecchio occhio senza ciglia tra le palpebre grinzose, tondo come un occhio d’uccello, - l’occhio del padrone ingrassa il cavallo.” La visione è quella del proprietario terriero convinto che soltanto il diretto interessato può curare al meglio i propri affari. L’occhio del figlio invece guarda la terra e realizza la propria distanza dal mondo paterno. Il suo sguardo è assente e distante ormai estraneo al mondo contadino.
Il finale è lapidario e sancisce la fine della narrazione ma sancisce, soprattutto, la fine di un’epoca: è un finale cosmico per usare la classificazione di Calvino.
4) Uomo nei gerbidi è un racconto in prima persona ambientato nei pietreti di Colla Bella in Liguria, verso i quali l’io narrante sale all’alba per la caccia alla lepre. Quando riesce a vedere la Corsica è segno che l’aria è chiara e ferma e senza accenni di pioggia. L’immagine dell’isola sospesa lontano sull’orizzonte apre il racconto, con uno degli incipit più belli della raccolta. La narrazione alterna poi toni intensi, con la suggestione dell’alba che “andava scoprendo i colori, a uno a uno”, a momenti dialogici sulla guerra, sulla contrapposizione tra vita in città e nella collina brulla.
Il finale è secco e racchiuso in poche battute. Non riuscendo a prendere la lepre, i due tornano indietro. La giornata si è conclusa in modo infruttuoso e il ritorno è silenzioso.
5) Angoscia in caserma è un racconto di guerra, con rimandi biografici, scritto da Calvino per dare forma narrativa alle esperienze belliche appena vissute. Presente nella edizione del ’49 ma eliminato in quella del ’69, riappare nella edizione del ‘76 della raccolta come testimonianza di un’epoca.
Il racconto inizia con le manifestazioni dell’angoscia del giovane protagonista nel periodo di prigionia: “Il male cominciò a nascergli così…”. Il lungo incipit descrive l’insorgenza del male interiore del giovane che lo porta a percepire in ciò che lo circonda, uomini e oggetti, simboli negativi e tali da condurlo quasi sulla “via della pazzia”. Lo spazio della narrazione è occupato poi dal racconto delle riflessioni angosciose, dell’ansia, dei dubbi, delle scelte difficili.
Un finale liberatorio conclude la storia di Angoscia in caserma con una occasione di fuga verso la collina e la libertà dove tutto riassume un senso e una dimensione reale e dove le persone e le cose tornano ad essere quelle che erano.
Il finale di una storia dunque può chiuderla, può lasciarla con un senso di sospensione, può tornare all’inizio o altro ancora. In realtà in una narrazione nulla è statico e definito in quanto, per dirla con le parole di Calvino, “l’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale, ma vivente come un organismo”.
[1] I. Calvino, Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori. Edizione del Kindle. p.172. Per la parte relativa al cominciare si rimanda a: Lina Grossi, L’incipit nei racconti di Calvino. Esempi da "Ultimo viene il corvo"
[3] A proposito della centralità del momento della lettura, cfr. B. Falcetto, Note e notizie sui testi, Se una notte d’inverno un viaggiatore, in Romanzi e racconti, II. Mondadori, Milano 1992, pp.1381-401
[4]I. Calvino, Se una notte di inverno un viaggiatore, Mondadori, 1994, (p.301)
[5] Cfr., B. Falcetto, op, cit.