rielaborazione della relazione presentata alla Conferenza nazionale della scuola in Piemonte, XIV edizione 2024, con il titolo “Il senso della scuola” – Torino 6 settembre
Ogni nuovo anno scolastico, come un passaggio ineludibile per la vita del Paese, sembra comprensibilmente riattivare l’attenzione sulla nostra istituzione formativa fondamentale. Numerosi, e spesso qualificati, sono gli interventi e gli articoli che sottolineano l’evento, a volte nel segno della contingenza più o meno rilevante, a volte con uno sguardo più ampio e generale. In entrambi i casi, resta forte il rischio della “celebrazione” ritualistica da cui è essenziale guardarsi, perché non sia velocemente archiviato come il “primo giorno di scuola”, per definizione effimero.
Per questo, mi sembra una scelta opportuna iniziare dalle origini e da queste sviluppare un percorso di riflessione. Le origini, storiche e culturali, del nostro attuale sistema educativo sono senza alcun dubbio radicate nell’articolo 3, vera chiave di volta dell’architettura istituzionale immaginata dai Padri e dalle Madri costituenti: in particolare, con quel comma 2, che giustamente viene considerato il passaggio da un’idea formale di uguaglianza ad una sua traduzione sul piano sostanziale. C’è da osservare, anzitutto, che questo articolo, a differenza di altri (articoli 33 e 34) pur non contenendo alcun esplicito riferimento al sistema dell’istruzione e dell’educazione, è universalmente riconosciuto come un cardine del sistema stesso. Vale la pena richiamare l’intero dispositivo, pensandolo come monito e impegno che risuona idealmente nelle aule delle scuole di tutto il nostro territorio nazionale, come un vero campanello di inizio.
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Ho evidenziato in neretto nel secondo comma quella locuzione, di fatto, che mi sembra stagliarsi nel testo, curvandone in modo decisivo il significato. E’ interessante notare che la locuzione fu al centro di un ricco dibattito nella Commissione, in cui spicca l’iniziativa della più giovane delle costituenti, quella Teresa Mattei (al tempo ventiseienne) che veniva dalla lotta partigiana, con il nome di battaglia di Chicchi. Integrazione tutt’altro che pleonastica, che con mirabile sintesi ed essenzialità (se posso dire, rivelatrice del pensiero e dell’azione delle donne…) rafforzava l’istanza di una libertà ed eguaglianza capaci di sfidare l’universo dei principi ed esporlo alla prova dei fatti.
Partiamo da qui per porre e porci una domanda essenziale: che cosa è la scuola, per noi che ci interroghiamo alla luce della Costituzione? Potrei rispondere che la scuola è tutto ciò che è compreso nello spazio inaugurato dalla locuzione di fatto, ciò che la rende significativa e la sottrae al rischio della banalizzazione. Per sviluppare questa mia affermazione, mi sembra utile percorrerne alcune possibili coordinate.
L'uguaglianza delle opportunità, che ha una sua nobile ascendenza politico-culturale, è tuttavia, per sé presa, criterio ambiguo, per non dire ingannevole. Le persone in carne e ossa, all'inizio di un percorso che sembra partire dalla stessa linea, non sono infatti entità seriali, categorie statistiche, ma soggetti portatori di storie e condizioni diverse, in molti casi significativamente segnate da nascita, collocazione sociale, ampiezza delle aspettative.
È qui che interviene la scuola: lo spazio del di fatto è abitato dall'intenzionalità educativa, dalla visione pedagogica, dalle scelte didattiche. La scuola secondo Costituzione non sta ai bordi del campo come un giudice neutrale, sostenuta da una pretesa “oggettività” dell’osservatore: sappiamo che questo principio è stato revocato in dubbio fin dagli esordi del secolo scorso nel campo della ricerca nelle scienze empiriche e nelle scienze storico-sociali. Uscita dal recinto rassicurante delle teorie falsificate, la scuola può legittimamente essere considerata parte dei processi che attiva ed accompagna: si fa interrogare dalle difficoltà che emergono, cerca i modi per sostenere chi arranca e si attarda, per dare a chi sta più avanti la preziosa opportunità di guardarsi indietro e attorno. Chi, infatti, non si guarda indietro e attorno finisce con il non vedere più sé stesso, sviluppando uno sguardo autorefenziale e smarrito fino alle estreme conseguenze, come vediamo nelle cronache di ogni giorno.
La scuola è quella che incoraggia e stimola, che riconosce le potenzialità di ciascuno/a per dire che l'ultima parola non è mai una volta per tutte pronunciata. Mi piace a questo riguardo richiamare il titolo (tradotto dal francese) di un testo di uno dei più creativi seguaci di Célestin Freinet, Paul Le Bohec: “La scuola riparatrice di destini?”. Formulato con il punto interrogativo, perché non indica una realtà fattuale, ma un orizzonte sempre aperto e da ri-conquistare. Ma su questo impegno la Carta costituzionale è perentoria: "è compito della Repubblica..." con quel che segue. Non dello Stato, che ne è un'articolazione: della Repubblica, istanza suprema delle istituzioni democratiche, luogo della convivenza e della valorizzazione di tutte le differenze.
L’equità in educazione
Nella prospettiva che suggerisco, rivestono una particolare rilevanza gli studi di John Rawls [1] che fanno capo al neocontrattualismo. Qui mi interessa prendere in considerazione, nell’ambito di un costrutto teorico che ha anche aspetti controversi, l’idea di equità. In questo approccio, l’equità non si contrappone schematicamente al principio illuministico di eguaglianza, semmai lo attraversa nelle sue implicazioni riformulandolo dentro il paradigma della società complessa.
Detto con la sintesi che si addice all’economia di questo contributo: mentre l’eguaglianza si ispira al principio dell’uniforme distribuzione dei beni, l’equità si fa interprete contemporanea dell’eguaglianza, secondo un criterio distributivo dei beni in cui non contano solo i “livelli medi” complessivi, ma anche le forme di re-distribuzione tra gli individui e/o i gruppi.
Secondo il punto di vista che più direttamente ci riguarda in questa sede, potremmo sostenere che un sistema educativo è equo se:
a) garantisce le condizioni di distribuzione del bene-conoscenza in modo che sia accessibile a tutti e a ciascuno/a. Siamo con ciò nel filone del diritto allo studio, con inevitabile riferimento all’articolo 34. Siamo nell’istanza del carattere unitario del sistema di istruzione, per cui vale la pena adottare una decisa azione di contrasto politico-culturale rispetto agli effetti distorcenti dell’autonomia differenziata, cavallo di battaglia di questo governo.
b) presidia le modalità di diffusione del bene-conoscenza tra gli individui e/o i gruppi sociali garantendo l’esercizio dei diritti e la soddisfazione dei bisogni. In questo ambito si collocano le azioni perequative a livello di sistema, di territorio e di unità scolastica; un disegno di ampia portata, che arriva fino al cuore della didattica, con i necessari interventi metodologici e le strategie compensative finalizzati ad una inclusione che non sia puramente auspicata, ma perseguita coerentemente.
Nello spirito, oltre che nella lettera, dell’articolo 3, comma 2 rintracciamo la matrice del valore sociale della conoscenza: la conoscenza è uno, se non il principale, strumento di “rimozione” degli “ostacoli” che di fatto impediscono una piena e sostanziale uguaglianza dei cittadini e delle cittadine. Sviluppato nella formulazione negativa, il concetto è immediatamente evidente. Chi possiede strumenti inadeguati, altamente deperibili e parziali di comprensione della realtà; chi non è in grado di accedere pienamente all’universo delle informazioni, di padroneggiare i diversi codici simbolici, di assumere decisioni supportate da “scienza e coscienza” sconta un divario che rischia di diventare un vulnus irreparabile del suo stare al mondo e dell’essere cittadino/a di un Paese.
Ma, detto questo, quali sono le condizioni alle quali la conoscenza promuove davvero uguaglianza in forma di equità, assicurando azioni positive di compensazione di ogni svantaggio (sociale, culturale, economico)? La “conoscenza” in sé non soddisfa questa istanza. Anzi, la storia e l’evoluzione delle forme sociali stanno a testimoniare come sul suo crinale siano stati eretti steccati, si siano consumate divisioni sociali, siano state legittimate visioni essenzialistiche delle disuguaglianze. Pensiamo alle conseguenze negative che hanno avuto e continuano ad avere queste visioni che pretendono di avere il crisma di “teorie”, su quelli che nel bellissimo romanzo di formazione, fortemente autobiografico, il danese Peter Hoeg chiama i "quasi adatti" [2].
Gli stessi processi conoscitivi sono rappresentabili come una costruzione sociale; l’apprendimento è certamente un fatto/evento individuale, nel senso ovvio che fa capo a un soggetto che apprende e ne postula la necessità. Non si tratta di assumere il punto di vista, fragile e discutibile, di un generico collettivismo cognitivo, ma quello rigoroso del socio-costruttivismo. Possiamo perciò fondatamente sostenere che la conoscenza nasce sul terreno del confronto degli apprendimenti, del conflitto (pacifico e costruttivo…) delle interpretazioni, di quella negoziazione dei significati che fa della cosiddetta “verità” non un assunto dogmatico sovraindividuale, ma il risultato, sempre aperto e provvisorio, del lavoro intersoggettivo. La scuola è, per mandato istituzionale, il luogo privilegiato, anche se non unico ed esclusivo, dei processi di apprendimento fondati sul libero confronto delle opinioni. Costruzione sociale, dunque: nel duplice senso, del gruppo da cui prende le mosse e del valore aggiunto di socialità che, alla fine, produce, permettendo ai/alle singoli/e di sperimentare la possibilità di una narrazione comune, istituendo mondi di significato in cui tutti/e possano riconoscersi.
Affinché la conoscenza diventi una valore sociale, è necessario che sia intrinsecamente correlata ad un’idea e una pratica di etica pubblica e in particolare ad un’accezione del sapere come bene pubblico. Pubblico, intendo, non solo perché, genericamente, “di tutti”, ma perché “indivisibile”: i livelli di corresponsabilità e di interrelazione sono così profondi e inestricabili nella realtà del mondo globalizzato che ogni zona o pretesa di privilegio, nel campo della diffusione di conoscenza e saperi, finisce per subire negativamente le conseguenze del sistema diseguale che ha contribuito a costruire. Da questo punto di vista, ci sono importanti analogie tra i temi dell’ecologia ambientale e quelli della conoscenza.
Bene pubblico, dunque, che fonda la funzione pubblica di cui sono investite le istituzioni come la scuola che promuove e organizza i percorsi di acquisizione della conoscenza; la funzione che, per lo stesso fondamento, esercitano i docenti, gli educatori e gli operatori di quelle istituzioni.
Per questo, il tentativo in atto da tempo, e sotto diverse stagioni politiche, di privatizzare i processi di conoscenza, asservendoli alla dinamica mercantile della domanda/offerta, non solo deve essere combattuto sul terreno delle opzioni politiche, ma va contrastato come un attentato al cuore stesso della conoscenza, alla sua natura profonda oltre che alla sua ragion d’essere. La conoscenza ridotta a merce è una non conoscenza, è un prodotto residuale e perfino un effetto collaterale mal tollerato di processi decisionali collocati altrove, mossi da tutt’altre logiche e altri interessi.
Se, inoltre, la conoscenza in quanto bene pubblico è indivisibile, esclude dal suo orizzonte ogni approccio individualistico-competitivo: ogni forma di accaparramento delle fonti e degli strumenti di acquisizione del sapere istituisce un regime di scambi ineguali che attenta al carattere pubblico, all’indivisibilità del patrimonio conoscitivo disponibile a tutti/e. E’ perciò insito in questo carattere il principio e il metodo della cooperazione come quello che meglio lo esprime e lo rende praticabile. In questo senso, la cooperazione non è, come talvolta sembra diventare, una dichiarazione di intenti o una “mozione degli affetti”, ma il corollario necessario dei processi di conoscenza e dei percorsi di apprendimento.
Il progetto culturale per la scuola come “sfondo integratore”
I governi degli ultimi decenni, compreso quello attuale, si sono spesi, con alterni e per lo più discutibili risultati, sul versante di una “Grande riforma” che ha finito con il piegare la scuola agli obiettivi contingenti quando non effimeri delle diverse fasi politiche. La “Grande riforma” si è presentata volta a volta come un blocco sistemico, o come la sommatoria di tanti interventi parziali (così ci appare nell’attuale legislatura): una riforma a “pezzi” (come la “guerra mondiale a pezzi” cui stiamo assistendo, per riprendere l’espressione di papa Francesco…).
A me pare cruciale, al riguardo, rilanciare la questione dell’essenzialità dei saperi (richiamo sul punto rilevanti elaborazioni, formalizzate anche ai livelli istituzionali, intorno alla metà degli Anni ’90). Per evitare il rischio di ridurre l’orizzonte della riflessione al concetto di minimo (quantitativo o qualitativo) criterio troppo vicino ad una concezione meramente addestrativa dei processi formativi, è necessario ripartire da una serie di domande. Essenziale: rispetto a cosa? a quali finalità, a quali profili di cittadinanza attiva? In estrema sintesi, a quale idea di società, a quale modello di convivenza civile? Ecco perché un progetto culturale per la scuola più propriamente si pone come lo sfondo integratore per strutturare attorno all’architettura dei saperi alcune istanze irrinunciabili. A partire dall’alimentare il circolo virtuoso tra vissuti e saperi, in un rapporto generativo in cui l’esperienza interroghi la conoscenza e la conoscenza possa rendere pienamente dicibile e comunicabile l’esperienza. Per proseguire con la necessaria integrazione dei saperi formali, non formali e informali, che è possibile proprio nella reciproca distinzione: si tratta insomma di edificare nuovi territori educativi, che lungi dal creare steccati e gerarchie, restituiscano al sistema dell’istruzione quella imprescindibile funzione pubblica e sociale grazie alla quale i saperi, come codici simbolici, sono strumento per l’elaborazione critica della massa di informazioni generate dallo sviluppo esponenziale dei media.
L’accesso alle informazioni non deve essere “affare” della tecnica: essa non è mai neutrale, non garantisce di per sé una vera pratica democratica se non è supportata dai cosiddetti “saperi di cittadinanza”. A questo proposito, vorrei sottolineare che personalmente preferisco parlare di “saperi per la cittadinanza”, di quei saperi che, in quanto tali, fanno cittadinanza, onde evitare di mettere capo all’ennesima moltiplicazione di educazioni e di filoni tematici sul piano curricolare. A me pare che l’ultima edizione delle Linee guida ministeriali per l’educazione civica, a prescindere da ogni rilevante questione di merito sulle scelte operate, evidenzi proprio questo rischio.
In definitiva, circolazione di informazioni e circolazione di strumenti critici devono stare in stretta correlazione, ugualmente aperte e disponibili a tutt*. Solo una scuola fortemente innestata su un sistema pubblico può presidiare il valore sociale della conoscenza, districandolo senza ambiguità dall’economicismo che riduce le molteplici relazioni umane a mercato e a merce i multiformi oggetti culturali.
La scuola tra presente e futuro
Mi piace concludere questa esplorazione lungo la scuola della Costituzione, con la bussola dell’articolo 3, con un breve passo di Karen Blixen, grande narratrice, perché da tempo penso che la pedagogia e la letteratura traggano il loro meglio dalle reciproche contaminazioni.
“Questo giovane è pericoloso perché ha grandi sogni. Ma è innocuo e sarà facile domarlo, perché ha trascurato lo studio del mondo reale, il mondo in cui sono messi alla prova i sogni.”
Ecco un senso possibile della scuola che sempre ricomincia: tenere teso il filo tra la capacità di immaginare un altro mondo, altri mondi, e il desiderio di conoscere il mondo reale.
[1] "Una teoria della giustizia" (1971) 1^ edizione in lingua inglese; 1982 1^ edizione in lingua italiana
[2] "I quasi adatti" (1992) – 1997 edizione in lingua italiana