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di Antonella Tredicineappunti oltre il brusio ...

28/10/2016

“Non sono un ospite speciale”. La lezione di C.

“I Rom non osano proclamarsi Rom, al punto che preferiscono talvolta farsi passare per un altro, per essere accettati e liberarsi dallo stigma che li travolge”. (J.P. Liégeois) [1]

 

In questi anni praticare la diversità mi ha insegnato a declinare l’esercizio paziente dell’ascolto e dello sguardo, passando, non solo lessicalmente, dalla visione del migrante-rom come questione insormontabile, a quella del migrante-rom come risorsa, patrimonio umano e culturale. L’esperienza educativa mi ha costretta a interrogarmi sulla postura etnocentrica che classifica come problematico tutto ciò che non rientra nei nostri criteri prescrittivi.

Ho già avuto modo di affermare che uno degli effetti collaterali dell’antiziganismo sia una sorta di “rassegnazione”, che i ragazzi rom esprimono nel loro mimetizzarsi, nel nascondere la loro identità per poter essere accettati dal gruppo dei pari. In base alla mia esperienza sul campo, la scolarizzazione degli alunni rom si configura come un fattore di criticità spesso inaccessibile [2]. Diffusa è la convinzione che la loro cultura sia incompatibile con i modelli scolastici proposti: nonostante la buona volontà e le strategie adottate “è una lotta persa in partenza […]  perché l’ignoranza la ricevono in eredità, come la fame, che è fame di generazioni” [3]. Lo studio, insomma, non ce l’hanno nel DNA, come sembra avallare il dato purtroppo costante della bassa e irregolare frequenza scolastica degli alunni rom [4].

Per spiegarla spesso si fa riferimento al loro habitus, peraltro omogeneizzando differenti modalità di vita e storie dei gruppi rom, oppure alla teorie dello “svantaggio” o della “deprivazione culturale”. Appare ovvio come queste interpretazioni additino come responsabili o quanto meno all’origine dei risultati scolastici insoddisfacenti l’alunno e la sua famiglia, scaricando su di loro la colpa dell’autoesclusione e dell’inadeguatezza. Indubbiamente, rispetto al passato è più diffusa la consapevolezza che bisogna comprendere dall’interno la specificità culturale di ogni minoranza, attuando parallelamente un percorso di ricerca sulle pratiche espresse dall’istituzione scolastica. 

“L’inserimento nelle scuole italiane di alunni stranieri, o figli di immigrati, o di minoranza come i rom e i sinti, ha introdotto una ulteriore articolazione della giornata scolastica [lezioni di sostegno, lezioni di Italiano L2] dispositivi che introducono anche una differenziazione nelle attività e nelle relazioni che non sembra facilitare l’integrazione di tale gruppo di alunni nel contesto scolastico . […] La scolarizzazione dei bambini rom e sinti avviene secondo una struttura delle interazioni scolastiche basata sulla presenza intermittente dei medesimi nell’aula, e su una partecipazione limitata all’attività didattica generale, cosa che di conseguenza limita anche la possibilità di dimostrare la propria competenza”  [5].


 Ė pratica  consolidata, per limitare il problema della concentrazione di alunni di minoranza e per compensare la loro insufficiente preparazione, effettuare attività di supporto alla didattica fuori dall’aula. Se dal punto di vista dell’istituzione scolastica è un’opportunità per lavorare in modo altrimenti impossibile e proseguire nel regolare svolgimento del programma, mi chiedo quali effetti possa avere sulla competenza comunicativa e interattiva degli alunni rom questa intermittente presenza-assenza in classe. Come mediare allora tra la necessità di alfabetizzare e quella di promuovere la loro partecipazione, la loro inclusione, il loro ruolo attivo? 

Ascoltare i silenzi. Dare voce ai silenzi

Mi è capitato spesso di osservare come gli alunni amino essere “presi” dalla classe ed evitare due ore della materia curricolare, ma cosa succederà quando qualcuno penserà e dirà di voler rimanere in classe? Ė effettivamente accaduto che l’operatore dell’Associazione che gestiva nella mia scuola i laboratori per la scolarizzazione dei rom finanziati dalla Regione Lazio, sia venuto a prendere l’alunno C. per portarlo fuori nello spazio riservato all’insegnamento di Italiano L2.
C., una creaturina fragile, ironica, un gentiluomo nei panni di adolescente, ha scosso la testa, stava quasi per piangere, voleva rimanere in classe. Stupita dalla sua reazione (era la prima volta che succedeva in tanti anni) l’ho tranquillizzato dicendogli che poteva rimanere con “noi”. Da quel giorno l’alunno ha continuato a lavorare con i compagni, sereno e perfettamente a suo agio; certo, il suo impegno è tuttora in salita, i verbi essere e avere costituiscono ancora per lui un mondo meravigliosamente fantastico, ma, quando recita una fiaba, esce tutta la sua verve. 

C. mi ha ricordato che una delle caratteristiche precipue degli scolari rom è appartenere a una cultura orale in cui la parola è un mondo di suoni, che li porta a cogliere le opinioni dell’altro, quindi a creare una profonda socialità: le parole-suono aggregano, partecipano e rendono partecipe chi ascolta. In un contesto di psicodinamica dell’oralità, in questo caso riferito alla cultura rom, è preponderante l’aspetto paratattico rispetto a quello ipotattico degli italofoni basato sulla scrittura che presuppone introspezione, individualismo [6].

C. mi ha insegnato a percepire le cose dal “suo” punto di vista, per il quale la parola ha il potere dell’azione: i racconti orali costituiscono un insegnamento su ciò che è stato detto.
La “lezione” di C. spinge gli educatori verso “l’apprendimento dell’apprendimento”, quel necessario savoir faire della complessità, chiosando Bateson, che allarga lo spettro d’intervento a favore della partecipazione come soggetti attivi degli alunni rom. Quante volte (rare, poche, nessuna) vengono messi nella condizione di poter raccontare della loro cultura, della loro storia, del loro colorato patrimonio musicale? Di promuovere la loro appartenenza, in quanto rom, alla comunità umana? Quante volte C. è stato un soggetto che ha preso la parola affrancandosi dalla visione dell’Altro che lo ha “costruito”, dal posto che gli era stato assegnato?

La riflessione sulla pluralità delle appartenenze porta alla vera accoglienza che è frutto di scambio esperienziale tra i diversi orizzonti culturali. A poco servono politiche sociali cristallizzate nei loro modelli che, secondo Leonardo Piasere, oscillano tra il “buon selvaggio” e il “cattivo selvaggio”. Insegnando in classi multiculturali mi sono resa conto di cosa significa,  di quanta parte della mia identità metto sempre più in gioco a scuola, di quanto ogni certezza acquisita lasci il posto a nuovi interrogativi. Uno di questi nasce dal malinteso su cui spesso si fonda la relazione tra docente e discente, tra alunni italofoni e non italofoni, nella quale non sempre i soggetti coinvolti condividono il fine dell’azione educativa. Rimuovere questo ostacolo presuppone  almeno due domande: dal punto di vista degli studenti rom qual è il senso delle attività che praticano a scuola rispetto alla vita che svolgono al di fuori? Quale continuità trovano tra l’andare a scuola la mattina e a mendicare il pomeriggio? 

Molti dei miei alunni all’uscita vanno a lavorare, spesso, nella migliore delle ipotesi, tornano nei loro container, o ammassati in accampamenti, in luoghi isolati vicino alle discariche, senza tubature o bagni. Le materie insegnate non trovano riscontro pratico nelle esperienze quotidiane maturate in ambito familiare, pertanto la scuola viene vissuta come un’istituzione inutile, che non dà strumenti adeguati al proprio stile di vita: penso alla necessaria tranquillità per svolgere i compiti, alla difficoltà di curare l’igiene personale quando c’è un accesso limitato all’acqua corrente, all’elettricità. Spesso frequentata per fini utilitaristici (un pasto caldo, un tetto quando piove e fa freddo, la possibilità di lavarsi con acqua tiepida), a molti di loro la scuola appare come un mondo estraneo, un ambiente ostile, che svaluta la loro cultura e accentua la diversità. Ma avverto la “nota stonata” anche dal punto di vista della popolazione maggioritaria: in modo maldestro sovente stimoliamo bisogni nuovi, parliamo di diritti all’istruzione, al gioco, alla casa, senza dare i mezzi per soddisfarli [7].

Altrettanto spesso giudichiamo una minoranza apatica, chiusa, assimilando il loro silenzio a disimpegno, disinteresse. Interrogandoci sulle ragioni del loro stare in classe, il silenzio può essere segno di: 1) attesa di chi sta imparando una nuova lingua; 2) assenza di progetto e di aspettative; 3) una strategia adattiva, una sorta di mimetismo dettato dalla sofferenza; 4) una scelta per mantenere l’identità del gruppo di appartenenza. 

 “Il silenzio avviluppa continuamente il linguaggio. Il silenzio oppone resistenza alla comprensione razionale del linguaggio, dato che alimenta le ombre che mettono in discussione e frustrano la logica che l’interesse strumentale vorrebbe imporre. […] Il silenzio non è sinonimo del nulla: è una domanda sita nell’intreccio del linguaggio [che presuppone l’ascolto della diversità e quindi di noi stessi]. Il silenzio non è residuale, è essenziale” [8] .

 Un passaggio delineabile è quello che muove dal soggetto destituito di umanità, cosa che rende logica la sua esclusione e il suo imprigionamento, attraverso la pervasiva pratica dell’assimilazione, verso il riconoscimento dell’esistenza di due soggetti culturali, i rom e i gagé. Come superare e ridefinire l’iniziale situazione di impasse? Cosa posso fare: a) per combattere il pregiudizio; b) per favorire l’autostima degli alunni rom?; c) per coinvolgere le famiglie rom e sinte nella partecipazione alla vita della scuola e sostenere la loro scolarizzazione?[9] Ė possibile dialogare con Loro facendo parlare la lingua muta delle cose, rintracciando quella parola che diventa il fulcro per attivare un percorso conoscitivo?  

L’educazione può avere un ruolo determinante nel “prefigurare una società futura dove sia possibile vivere i molteplici aspetti della diversità in maniera legittima, non antagonista e non gerarchica” [10].
Occorre opporsi con determinazione alla globalizzazione del sapere che, basato sulle conoscenze di pochi, avalla la fortuna dei forti e abbandona i deboli alla loro sorte, quella di chi è escluso dal Potere. Attraverso una tecnica capillare dell’informazione abbiamo l'obbligo di combattere questa forma di analfabetismo contemporaneo capovolgendo il rapporto egemonico/ subalterno,  scardinando il pregiudizio verso chi non ha voce. Lo sguardo e l’ascolto dei “socialmente pericolosi” consente di decolonizzare ogni missione educativa, esorcizzando il pericolo sempre rinnovato di una percezione statica ed eurocentrica della cultura aliena, abbattendo il “ghetto dove mentalmente [si relegano] i diversi” [11].
Restituire la parola/dare voce ai silenzi  è il primo passo verso il riconoscimento dell’Altro.

Continuando, come C. mi ha insegnato, a prendere appunti all’insegna di una possibile, rinnovata umanità.

Note

1. J.P. Liégeois, Roms et Tsiganes, La découverte, Paris 2009, p. 34.
2. Cfr."Perché non si può essere maestri, se non si è sempre scolari", insegnare, agosto, 2016.
3. G. Harrison e M. Callari Galli, Né leggere né scrivere, Meltemi, Roma 2000, p. 51. 
4. Si veda il Rapporto Nazionale A.s. 2014/2015, “Alunni con cittadinanza non italiana. La scuola multiculturale nei contesti locali”, a cura di M. Santagati e V. Ongini, MIUR, Quaderni Ismu 1/2016, Milano, pp. 40-44. A fronte della necessità di  una maggiore conoscenza del mondo rom si colloca il Progetto nazionale per l’inclusione e l’integrazione dei bambini Rom, Sinti e Caminanti che coinvolge 11 città italiane e ha il valore aggiunto di essere indirizzato a tutti i soggetti scolastici, gagè e rom.
5. F. Gobbo, Pedagogia interculturale. Il progetto educativo nelle società complesse, Carocci, Roma 2000, pp. 157-169.
6. Si veda W. J. Ong, oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, trad. it. di A. Calanchi, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 59-117. Sulla necessità di livelli culturali di intermediazione, di promuovere contesti di apprendimento diversi da quelli abituali, sull’importanza di restituire all’oralità il suo ruolo fondamentale di favorire l’incontro, restituendo la “visibilità” all’altro, imprescindibile il testo di M. de Certeau, La presa della parola e altri scritti politici, tr. it. di R. Capovin, Meltemi, Roma 2007.
7. Sulla condizione dei rom in Italia si veda Pietro Vulpiani (a cura di), Difficoltà e carenze nella rilevazione statistica sulla condizione dei rom, Undicesima statistica, UNAR, Dipartimento per le Pari Opportunità, 2013.
8. I. Chambers, Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente, Meltemi, Roma 2003, p. 215.
9.  Secondo rilevazioni del Consiglio d’Europa il 50% degli adulti rom è analfabeta. Io stessa ho potuto tristemente rendermi conto di questo fenomeno con i genitori di alunni rom, in particolare, con quelli dei campi abusivi.
10. F. Gobbo, Pedagogia interculturale, cit., p. 10.
11. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, p. 125.

Di che cosa parliamo


La rubrica è animata dalla convinzione che dialogare con gli alunni insegna a ridefinire mappe etnografiche per ri-orientare l’Antropologia dell’Educazione dal piano della conoscenza a quello del riconoscimento dell’Altro, conferendole quella dimensione dinamica di rinegoziazione di punti di vista diversi, che decostruiscono nuove e più oculate forme di colonialismo culturale.
Dal brusio delle buone pratiche alla memoria condivisa, resistere alle tendenze omologatrici della  globalizzazione e promuovere un percorso, che, partendo dalle “alterità negate” e attraverso esperienze sul campo,  rappresenti una svolta etica interculturale. Promuovere e condividere la magia dell’educazione, che è un lavorare con e non sugli alunni, andando oltre la siepe della propria cultura, scoprendo il “filone d’oro”  che è in ognuno di loro. Gli alunni ci ricordano che non si può essere maestri se non si è sempre scolari, in un interscambio proficuo e sodale, verso un’educazione aperta ai riposizionamenti dettati dalle esigenze dall’umanità attraversata, prendendo appunti all’insegna di una possibile, rinnovata umanità, vedendo nell’Altro, che si sottrae all’invisibilità,  “qualcosa di buio in cui si fa luminosa / la vita” (Pasolini, La Guinea).

L'autrice


Laureata in Lettere e in Discipline Etno-Antropologiche, insegna Materie Letterarie a Roma. Dopo il conseguimento del Master in Filosofia e Interculturalità,  ha  ideato e promosso progetti di innovazione, di ricerca/azione, convegni e laboratori multiculturali anche in coordinamento con ONG e docenti dell’Università di Roma “La Sapienza”.
Collaboratrice di Alberto Sobrero all’Università di Roma “La Sapienza”, ha al suo attivo vari interventi saggistici su riviste di ambito letterario, poetico e filosofico. 

 

Antonella Tredicine, Pier Paolo Pasolini, “scolaro dello scandalo”, Verona, Ombre corte, 1975​,  pp.135, euro 13,00

Il lavoro nasce dalla convinzione che nell'opera di Pasolini vi siano gli strumenti critici per contrastare un processo di progressiva omologazione delle menti e per cogliere le "sfumature rischiose ed emozionanti delle differenze". In questa direzione la Scuola è il primo fronte contro il pregiudizio; su di essa grava il compito difficile ed esaltante di produrre uomini e donne uguali e diversi. In questo volume l'autrice, con le opere di Pasolini sotto il braccio, ci permette di seguire la sua pratica quotidiana nell'esperienza interculturale, fra ragazzi che spesso sono considerati, per usare un'espressione di Pasolini, poco più che "stracci della storia". È un percorso non breve, esposto a successi e fallimenti, che da parte dei docenti richiede una continua rinegoziazione della propria esperienza, e da parte della Scuola come istituzione, una piena consapevolezza del proprio ruolo nella costruzione di quella società diversa, che è ormai alle porte.
(Da www.ombrecorte.com)

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Leggi su insegnare la recensione di Alberto M. Sobrero