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di Annamaria Palmierila scuola "scomoda"

05/04/2020

Dalla Didattica a distanza al Dialogo a distanza

Mentre si attendono,  con buona dose di ansia da parte di scolari, genitori e docenti, indicazioni chiare dal Ministero sulla sorte degli esami finali per I e II ciclo,  in questo anno contrassegnato dal ricorso emergenziale  alla “didattica a distanza”, vengono al pettine alcune questioni che riguardano il sempre malinteso rapporto tra didattica e valutazione, ovvero  tra i processi di insegnamento /apprendimento, per loro natura bidirezionali, e gli esiti in termini di giudizio finale che la scuola “a distanza” può realmente mettere in campo senza cadere nella farsa o, peggio, nell’iniquità.
Provo a formulare tre modeste proposte ispirate a esperienza e ragionevolezza.

La prima. La DAD ha tra i suoi limiti principali la difficoltà a raggiungere tutti, agendo in regime di “non obbligatorietà”, diversamente dalla scuola in presenza; in quanto tale, è mezzo che acuisce la disuguaglianza, non solo per le differenti possibilità di connessione e strumentazione tra alunni con diverse basi socioeconomiche, ma anche perché le è  difficile,  se non impossibile, come già sottolineato da altri in vari contesti, “agganciare” i soggetti portatori di bisogni educativi speciali (BES), il che mette molti allievi, specie se privi di una forte mediazione familiare, nella condizione di essere “doppiamente” dispersi.

La seconda. Appare fuorviante immaginare che a questa didattica possa corrispondere una valutazione  sommativa, legata ad un modello trasmissivo, fatta di medie di voti a compiti e interrogazioni. Anche perché qualsiasi “voto” assegnato a distanza non potrebbe che far media, nella testa del docente, con il giudizio qualitativo e globale sull’alunno che egli conosce in presenza; e per dirla con un paradosso, qualsiasi cattivo voto non avrebbe altra giustificazione che una presunta inadempienza alla presenza on line o un pregiudizio nei confronti di quella stessa inadempienza. Pensare di dover mettere assenze e voti su  qualche griglia in questo momento è una follia degna della peggior “buro-pedagogia”. In verità, delle medie dei voti, absurdum logico ed epistemologico,  la scuola non avrebbe bisogno nemmeno in condizioni normali. Ancor di più, nell’attuale frangente, ricordandosi che una scuola come si deve   sa coniugare  sapere,  saper fare e saper essere,  è  necessario guardare agli alunni non tanto e non solo per quel che sanno ma per quel che sono, o sono diventati, nella crescita -anche traumatica- di questo periodo. Ora è  tempo di valutazione non formale ma formativa (sui processi e non sui prodotti) e globale.

La terza. Con buona pace di tanti, da molti anni il programma non è il fine ultimo dell’educazione. Troppe stagioni di riforme non sono riuscite a far  decollare nel percepito collettivo che esso è stato sostituito da tempo da indicazioni sui traguardi a cui giungere, in termini di competenze culturali; come tale quindi la riprogrammazione delle attività e contenuti nei successivi anni non solo è ammissibile,  ma nemmeno dovrebbe essere enfatizzata come problema. Il nodo centrale non è la quantità dei contenuti ma l’uso critico che degli stessi sapranno fare gli allievi  domani: il che,  come ogni adulto sa bene,  è direttamente proporzionale alla curiosità, alla motivazione, all’importanza attribuitavi, al dialogo costruttivo che si realizza per il tramite dei saperi disciplinari e trasversali. Preoccupiamoci di quello, signor Ministro e signori genitori.

In ultimo, mi piacerebbe rivolgere, tanto alle burocrazie ministeriali  quanto ai genitori e ai commentatori in generale,  un invito: per una volta, almeno, per questa volta, fidatevi degli insegnanti e delle scuole. Lasciate che DAD diventi acronimo di Dialogo a Distanza e che  siano i maestri e  professori, che i vostri ragazzi li hanno visti fino ad un mese fa e li  rivedranno negli anni,  a valutare con flessibilità,  buon senso , attenzione all’intelligenza cognitiva ed emotiva , i loro progressi e le loro esperienze, auto-valutandosi semmai nel contempo come insegnanti riflessivi. E se qualcuno sta pensando che “però gli insegnanti non sono tutti uguali, ci sono quelli bravi e quelli che invece….” , si ricordi che questo vale però anche per gli allievi, per le famiglie, per i contesti,  e che val la pena, in questo momento,  di provare a  trasformare la contesa in intesa, la competizione in alleanza, l’emergenza in opportunità. 

Di che cosa parliamo

La scuola, se è vera scuola, scomoda le coscienze e le scuote dall'indifferenza poiché è luogo e pratica di democrazia, di inclusione, di tolleranza, di convivenza solidale.
La scuola, se è vera scuola, è contraria al pensiero unico, al conformismo, alle mode, al quieto vivere perché è luogo e pratica di riflessione critica, di sguardo problematico, di pensiero divergente.
E per questo la scuola è scomoda.
È  scomoda perché pratica e rispetta le diversità e i disagi, ma spesso vi si lascia travolgere e inibire e allora diviene scomoda a se stessa.
E deve essere scomoda anche per tutti coloro che la vorrebbero luogo di competizione, di gara, di apprendistato all'arrivismo e alla prevaricazione.
In tal senso  la rubrica raccoglie e racconta momenti e situazioni di scuola "scomoda", talvolta anche per se stessa e spesso per i territori in cui come Istituzione vive e agisce.

L'autrice

Insegnante di liceo, collabora a contratto con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli; è stata per due mandati Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli al servizio della scuola della sua città, intesa e praticata come diritto inalienabile e bene comune. Attualmente è dirigente scolastica a Torino. 


 

maestri copertina

Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero, Aracne, Ariccia, 2015, pp. 246, 14 euro in volume, 8,4 euro in PDF

Nella storia dell’Italia post-unitaria la scrittura letteraria dei maestri-scrittori ha assunto un’importanza straordinaria, perché proprio la scuola ha dovuto affrontare i problemi fondamentali, e tuttora in parte irrisolti, di formazione dell’unità culturale, umana e linguistica della nazione. L’autrice affronta il nodo interpretativo di questa narrazione compiendo una scelta esemplare: tre ‘maestri’, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Lucio Mastronardi, che sono stati scrittori e intellettuali e che hanno vissuto in un’aula scolastica un momento determinante della loro esperienza esistenziale. Per tutti e tre, la scuola fu il luogo di una delusione ma anche della denuncia, humus originario del loro impegno civile, contro la degenerazione del capitalismo e le storture di una società iniqua che vanificava l’utopia democratica ed egualitaria su cui la scuola di massa era nata o stava nascendo: eroi moderni del racconto di un’umile Italia che vive un’ultima stagione di ‘resistenza’ contro la trasformazione in una nazione senz’anima e senza cuore.               

Leggi la recensione su insegnare di Rosanna Angelelli

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